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Comunisti: la nostra comprensione dei fenomeni si conforma al materialismo dialettico?

di Giannetto Marcenaro*

A margine dell’intervento del direttore Giannini, pubblicato nella ricorrenza della morte di Friedrich Engels

Immagine per interno articolo Marcenaro 554x420.jpgA margine del brillante intervento del direttore Giannini, pubblicato nella ricorrenza della morte di Friedrich Engels, nel quale si sottolinea con la dovuta insistenza quanto l’emarginazione della figura di Engels dal percorso intellettuale e filosofico di Karl Marx sia stata una tendenza promossa da «un vasto fronte politico e filosofico», in sostanza coincidente al cosiddetto “Marxismo occidentale”, possono essere di utilità alcune osservazioni sulle questioni acutamente sollevate da Giannini, in particolare riguardo all’importanza di evidenziare il ruolo cruciale avuto da Engels nello sviluppo del materialismo dialettico, e alla funzione scientifica inestimabile che tale concetto epistemologico porta con sé.

Fu Engels, infatti, nel suo progetto sulla “Dialettica della Natura”, a cercare in origine di dare un ordine intelligibile preciso a tale concetto, prima che Lenin ne esponesse, per quanto succintamente, e mai in modo sistematico, il principio generale e il carattere essenziale, che fu poi ulteriormente chiarito da Mao Zedong nella prima metà del 20° secolo.

Appare di estremo rilievo a riguardo l’osservazione del direttore Giannini, sulla scia del professor Domenico Losurdo, riguardo al «nesso tra le nette posizione engelsiane volte alla necessità storica della violenza rivoluzionaria e alla necessità della presa del potere [del] proletariato (e alla liceità della sua difesa con la forza) e il vasto tentativo di liquidare Engels» da parte «della filosofia borghese e del marxismo revisionista», e al fatto che si sia usata la «linea concreta» della «violenza rivoluzionaria, senza la quale mai si potrebbe scardinare il sistema borghese», sostenuta ne “L’ideologia tedesca”, ma appunto anche nel “Manifesto del Partito Comunista” – cioè due testi scritti a quattro mani da Marx ed Engels – per separare l’uno dall’altro, e imputare a Marx o una visione escatologica del processo storico, o una visione economicista della dinamica rivoluzionaria.

Separando il «‘volgare’ Engels del materialismo dialettico» dal «Marx del materialismo storico», si sono in effetti «amputate» entrambe tali concezioni, rendendo inefficace e rifugio di vuoti formalismi privi di qualsiasi concretezza quella che si intendeva come «“l’aperta dialettica marxiana”» in quanto “materialismo storico”, e abbandonando senza nessuna remora la “volgarità” engelsiana, con questo immediatamente separando Marx anche da Lenin, secondo il movimento di pensiero che ha sistematicamente caratterizzato il marxismo occidentale: sorvolando sulla questione nazionale e coloniale, nonché bollando «le rivoluzioni di stampo giacobino-bolscevico» come «tutte segnate dal culto del terrore».

Ma così, come il materialismo dialettico diventa vuota retorica qualora venisse, se si potesse, separato dall’aspetto concreto della realizzazione materiale del processo storico, allo stesso modo il materialismo storico, qualora ci si azzardi a provare a dividerlo dal suo elemento complementare, si riduce a nulla più che tassonomia ed esercizio scolastico di erudizione, che alla prova dei fatti risultano inganni male acconciati.

Per contribuire al chiarimento delle questioni delineate, bisogna innanzitutto comprendere come il marxismo occidentale non sia una corrente di pensiero socialista, ma una corrente di pensiero liberale che si è appropriata in modo fraudolento dei termini del marxismo, corrompendoli in una loro versione innocua e adulterata nella quale qualsiasi iniziativa rivoluzionaria diventa attesa messianica nella forza dei “movimenti”, nella necessità presunta del “processo storico”, e dunque idealismo dogmatico che si configura come il “materialismo metafisico” di cui Lenin compì una corrosiva confutazione nel suo “Materialismo ed empiriocriticismo”.

Il Marxismo occidentale, infatti, rifiuta in blocco la teoria epistemologica del materialismo dialettico, e con essa il marxismo-leninismo e deve, pertanto, rifugiarsi in una visione del mondo nella quale i fattori considerati sono sempre e comunque elementi separati la cui interazione dipende da un carattere peculiare che li divide essenzialmente, sicché il tutto si riduce ad un insieme di “atomi” isolati l’uno dall’altro la cui relazione va imputata ad un terzo elemento, fabbricato dalla mente, a cui attribuisce la connessione tra i vari fattori.

Va sottolineato con ciò che il marxismo occidentale non ha per nulla fallito, e anzi: tale movimento culturale, promosso, finanziato, governato, e infiltrato, da soggetti liberali e nozioni anti-comuniste, ha ottenuto esattamente l’obiettivo che si era prefissato: neutralizzare la teoria marxiana del valore, e rendere il punto di fuga a cui essa guarda un ideale utopico che, per la stessa essenza degli umani secondo la visione liberale, non può essere raggiunto.

La stessa teoria di Marx, d’altronde, ha molti limiti, ed essi vanno necessariamente riconosciuti. Dal punto di vista strettamente logico, infatti, l’argomento con cui egli mostra come si generi il plusvalore in quanto prodotto del lavoro vivo che, in eccesso a quanto necessario a chi produce, viene appropriato dal capitalista, nei termini in cui Marx lo pone, è solo apparente, per quanto la sua conclusione – che cioè il capitalista si appropria indebitamente di una parte del valore che spetterebbe al la- voratore – sia vera.

Come insegna Aristotele, infatti, è possibile costruire un argomento nel quale la struttura della procedura non garantisca il collegamento tra i due estremi e il medio, l’elemento per cui il ragionamento si compie, ciononostante la sua conclusione sia corretta: questo dipende dal carattere delle premesse adottate, le quali, perché l’argomento sia effettivamente dimostrabile, debbono essere asserzioni, cioè affermazioni già precedentemente comprovate, vale a dire dimostrate come corrette, in senso lato “vere” (per Aristotele invece si tratta di “uno-svelamento”).

Se, infatti, il nuovo valore prodotto equivale al valore dei mezzi di sussistenza, e questo è quanto viene corrisposto al lavoratore, è evidente che, per quanto uno possa andare avanti a lavorare, non potrà mai produrre più di quanto gli viene corrisposto: i mezzi di sussistenza, infatti, per quanto necessari, forniscono energia appunto sufficiente per tutto un giorno di lavoro, e se il nuovo valore prodotto equivale al valore di questi, esso è quanto viene trasferito durante tutto questo periodo, nel quale l’energia fornita da quei mezzi di sussistenza viene consumata, e non se ne può scorgere un briciolo di più.

Marx così si accontenta di postulare che la forza-lavoro in quanto merce è dotata di una “proprietà speciale”, quella di produrre più di quanto consuma, senza tuttavia fornire alcuna ragione, alcun elemento di prova, per questa sua affermazione. Il suo argomento, quindi, può sempre essere confutato: non è affatto necessario, in assenza di una prova di tale “proprietà speciale” e una sua definizione rigorosa, che il profitto del capitalista derivi dal plusvalore, e rimane possibile che tale profitto sia il risultato di una frode, come il giovane Engels mantiene nel suo breve saggio sui “Lineamenti di una Critica dell’Economia Politica, della vendita arbitraria delle merce ad un prezzo superiore al suo valore, la cui copertura viene garantita dall’emissione di moneta da parte dello Stato. Allo scopo di escludere questa opzione Marx dimostra, all’inizio del Capitale, che nello scambio di merci, per mezzo di un valore-di-scambio o meno, ciò che avviene è una transazione tra valori equivalenti.

Questo gravissimo limite della teoria marxiana del valore-lavoro contenuto dipende innanzitutto dal fatto che lo stesso Marx ricade ancora pressoché interamente nella classe del pensiero dogmatico, per la sua stessa esperienza individuale nell’Europa centrale del 19° secolo: e questo a partire dal materialismo storico, che attribuisce alle sole condizioni materiali la determinazione della struttura del pensiero e dei fenomeni culturali, escludendo, dunque, in modo assoluto e perfettamente arbitrario, l’aspetto trascendentale ed esistenziale della mente, i quali interagendo produttivamente con quei caratteri materiali, nella forma degli aspetti di una contraddizione concreta, producono i fenomeni culturali e lo sviluppo del processo storico.

In questo senso, Marx, e anche Engels, presuppongono una psicologia di stampo comportamentista, e dimenticano in modo del tutto azzardato una parte essenziale della profonda e fondamentale lezione epistemologica di Immanuel Kant, pur mantenendone l’impianto generale, in quanto adottano la procedura dell’analisi critica (i.e. della filosofia trascendentale), con la modalità della dialettica cosiddetta “hegeliana”.

Se si considera la questione dal punto di vista del materialismo dialettico, cioè dal punto di vista del concetto dell’unità nella congiunzione dei due contrari (non opposti, definizione di Lenin che mostra i residui di dogmatismo nel pensiero di quest’ultimo, poiché gli opposti si escludono, e dunque devono essere separati, cosicché non potrebbe mai esservene una sintesi, mentre i contrari sono complementari) non ci si può ingannare e la questione appare del tutto chiara: infatti, se i mezzi di sussistenza sono valore e valore d'uso, come lo sono (anche secondo Marx che tuttavia ritiene irrilevante tale fatto), allora il valore trasferito alla forza-lavoro nel loro consumo in quanto valori d'uso – poiché il valore non è mai consumato, ma è sempre trasferito nella stessa magnitudo da un elemento all’altro – riappare in quella nella forma di una massa di energia disponibile all’organismo per compiere lavoro.

Tale energia, pertanto è, per definizione, valore d'uso, in tanto che verrà consumata nell’esecuzione del lavoro vivo: essa viene consumata, non viene trasferita, e dunque non rappresenta il valore dei mezzi di sussistenza che è stato trasferito alla forza-lavoro nell’organismo. Ma, in quanto valore d’uso, tale massa di energia deve essere, dialetticamente, anche valore: in che consiste concretamente tale valore?

Noi sappiamo che il valore si mantiene immutato, e che esiste come oggetto materiale quale coagulazione di lavoro umano: dunque, il valore dei mezzi di sussistenza corrisponde alla materia di questi mezzi, ed ossia, appunto ad un elemento che equivale a capitale costante, materia prima, la quale, trasformata nel processo di digestione, è integrata, nel consumo del valore d'uso in quanto massa di energia, all’organismo stesso, ed ossia rende possibile la crescita del corpo e la sua consistenza materiale. Questa materia poi differisce per qualità innanzitutto, in quanto divergenti elementi chimici o molecole, composti organici, che apportano, appunto, questo o quel valore all’organismo, a prescindere dalla loro quantità. Il corpo, pertanto, equivale trascendentalmente a valore accumulato quale capitale costante, che è applicato incessantemente nel processo di produzione e consumo di energie necessario all’attività organica.

Ne risulta, pertanto, in maniera perfettamente conseguente e necessaria, che il valore che dalla forza-lavoro viene trasferito alla merce non sia quello dei mezzi-di-sussistenza, e che pertanto proprio in tale fattore risieda l’essenza e l’origine di quella “proprietà speciale” che le consente di produrre più di quanto consuma. Inoltre, siccome è tale – produce più di quanto consumi – allora significa che essa dipende da un elemento per cui aggiunge un intero per ogni unità di tempo di lavoro vivo, la quale invece rappresenta solo una parte del valore d'uso di quei mezzi di sussistenza, cioè solo la parte di un intero.

È evidente, poi, che, siccome il risultato finale del processo di produzione sarà un valore e un valore d'uso – e quest’ultimo non è quello delle materie prime, né quello della massa di energia – ne consegue che anche questo, il valore d'uso concretamente realizzato come valore coagulazione del lavoro vivo, è fornito da quella parte della forza-lavoro nella quale risiede il valore trasferito al prodotto: questa parte, allora, la diciamo “forza-lavoro valorizzata” o “valorizzabile”, mentre l’altra, nella quale risiedono valore e valore d'uso dei mezzi di sussistenza sarà “forza-lavoro organica” o “semplice”, dove le due, ancora e sempre dialetticamente, sono coincidenti, seppure distinte.

Se quest’ultima, poi, riguarda strettamente la componente quantitativa della forza-lavoro, la prima invece è il suo aspetto che rappresenta la componente qualitativa della forza-lavoro, coagulazione di conoscenza umana, dove quest’ultima vale come capitale costante, e la prima invece come capitale variabile, in quanto componenti organiche della forza-lavoro in quanto “merce”.

Questo è il modo di pensare secondo il criterio appropriato dell’analisi di qualsiasi fenomeno, cioè tutti, ovvero il concetto del materialismo dialettico: pertanto, di tale criterio abbiamo una certezza assoluta, come quello che rappresenta trascendentalmente, cioè all’intelletto, la dinamica completa dello sviluppo dei fenomeni.

Va, poi, sottolineato come, soprattutto in Occidente, sia seriamente sopravvalutata l’opera di Hegel, e la sua influenza su Marx: il pensiero di Hegel, concretamente, non è altro che un immane ragionamento apparente, cioè fasullo, e la sua tanto celebrata “dialettica” è soltanto una distorsione idealista della procedura “διαλεκτικὴ” che venne esposta da Aristotele, la quale ultima consiste esattamente in quanto segue: a partire da una nozione di generale, tratta dall’esperienza, empiricamente – in sostanza per somiglianza di casi distinti, ed ossia secondo procedimento statistico – nozione che è la comprensione di un certo elemento nella forma di concetto, cioè oggetto trascendentale, espressa come definizione in cui sono distinte le parti di quel concetto, è possibile, seguendo la procedura corretta del ragionamento – ossia non verso il genere superiore come fa Platone, e così anche Hegel – ottenere la conoscenza riguardante tutte le forme sottostanti a quella nozione di generale.

Ciò è compiuto deducendo le parti dall’intero, ed ossia per alternanza di termini “contrari” – come egli chiama sia le “forme”, una in relazione all’altra, sia queste in relazione al “genere” – ponendo come premessa minore un “fatto-noto”, cioè riconosciuto da chi valuta l’argomento, e quindi dimostrato, ugualmente alla nozione di generale da cui si parte, e offrendo una prova materiale del proprio argomento, ciò che ne dimostra la correttezza, così come si fa in un tribunale.

Non è ammesso in nessun caso postulare premesse delle quali non si è già certi, poiché per “ipotesi” non è possibile conoscere nulla di nuovo: è possibile solamente confermare alcunché di cui già si sa – alcunché che è implicato negli elementi disponibili alla propria valutazione – cioè costruendo una struttura di relazioni tra quegli elementi che sono rilevanti al fatto, e individuando il termine medio, concreto, sensibile, adeguato a fungere da elemento probante del proprio argomento. Per Aristotele, infatti, tutto il sapere parte dall’esperienza empirica, e ad essa deve ritornare per fornire una prova della correttezza di tale sapere.

Così Hegel mette sottosopra la dialettica di Aristotele, e invece Marx la riporta con i piedi per terra, come d’altronde suggeriscono le parole che spende a proposito nella “Introduzione” a “Per la critica dell’economia politica”. È possibile, infatti, dimostrare come Aristotele sia stato il primo pensatore materialista dialettico in Occidente (esiste peraltro una citazione da “Statistica e sociologia” del 1917 di Lenin che supporta in modo assai convincente questa prospettiva anche dal punto di vista dello stesso grande leader rivoluzionario), sebbene il suo pensiero, dovendo adattarsi al carattere profondamente dogmatico delle sue tradizioni culturali, non sia stato fino a questi ultimi anni compreso appieno nella sua più caratteristica essenza. Non è forse un caso che Marx proprio nel Capitale, citi più volte l’acuto uomo greco, e presti attenzione con particolare cura proprio a tali elementi, i “termini medi”.

E, tuttavia, anche Marx, per il contesto storico stesso della sua esistenza, non è in grado di abbandonare il modo di pensare dogmatico, cioè, in sostanza, occidentale: con il “valore” che è “assolutamente” separato dal “valore d'uso”, in modo tale che quest’ultimo possa essere messo da parte come irrilevante al processo di produzione, e tutte le relazioni determinanti essere ridotte ad una magnitudo distinta, così come Lukács con il suo “essere sociale” che il direttore Giannini nomina nel suo articolo, egli ricade ancora interamente nel dogmatismo.

Quest’ultimo, d’altronde, è un carattere strutturale della cultura occidentale che per essere superato necessita della sintesi delle due tradizioni di pensiero storicamente dominanti nel mondo, quella Orientale e appunto quella Occidentale: il che appunto è il materialismo dialettico, quale filosofia trascendentale condotta per analisi critica.

Restava però il compito, che Lenin non ebbe modo, possibilità, opportunità, di compiere di offrire una esposizione dimostrativa di tale concetto nella sua applicazione produttiva, cioè di nuovo valore conoscitivo, alla comprensione e analisi dei fenomeni stessi.

Per quale ragione, comunque, il dogmatismo è strutturale al pensiero occidentale? La risposta è molto semplice: il carattere della cultura occidentale, infatti, ed ossia la misura della sua comprensione dei fenomeni, può essere espressa in termini formali nella relazione, “+x ≠ –x”, ed ossia in una relazione dove due elementi distinti non possono in nessun caso coincidere, e sono pertanto opposti e necessariamente separati. Questa è una premessa che è valida necessariamente, in tanto che risulta dalla comprensione di una qualità manifesta nelle produzioni culturali occidentali: si tratta di una premessa empirica, risultante dall’analisi critica delle relazioni concettuali determinanti rilevate nelle espressioni materiali, nella produzione intellettuale della cultura occidentale.

Ammessa tale misura, tuttavia, ciò non cambia che ciascuno di quegli “x” sia un fenomeno, in tanto che venga conosciuto, e dunque concettualmente, cioè strutturalmente, i due coincidono, mentre all’apparenza rimangono distinti uno dall’altro. Il pensiero occidentale, ciononostante, per il suo carattere non può concepire che due elementi coincidenti siano allo stesso tempo distinti: dunque, deve attribuire ciò in cui coincidono ad un terzo elemento, del quale tuttavia non vi è alcuna evidenza, e che si configura sempre come “terzo uomo” platonico che conduce ad un regressum ad infinitum, o ad una reductio ad absurdum, nel cui sviluppo si produce la confutazione dell’una o l’altra ipotesi, e da ciò procede l’alternanza dei termini della comprensione dogmatica della dinamica dialettica dei fenomeni.

Infatti, poiché il concetto dell’unità nella congiunzione dei contrari equivale alla comprensione della dinamica dei fenomeni in generale e tutto ciò che si può conoscere non sono altro che fenomeni – compreso l’insieme che consideriamo il tutto, cioè l’Universo – nella loro congiunzione contraddittoria con le strutture organiche, organizzate per specie, che condividono in quanto componente qualitativa che li determina come “questo” o come “quello”, ne consegue necessariamente che il concetto del materialismo dialettico coincida con l’unico oggetto trascendentale reale, ossia l’unico concetto esistente quale comprensione della forma generale del fenomeno in quanto fenomeno, e che, in quanto tale, è l’origine prima dell’intero sviluppo del processo storico: esso stesso, in quanto medesimo, si presenta sotto forme radicalmente distinte una dall’altra, che adottando termini alternativi ma equivalenti per la definizione degli elementi e relazioni rilevanti costituiscono la storia del pensiero, in quanto sviluppo della contraddizione tra il concetto del materialismo dialettico e la comprensione dogmatica dei fenomeni, secondo quella certa misura.

Sì, perché anche in Oriente tale comprensione rimane dogmatica, naturalmente, siccome i fenomeni, immediatamente, sono accolti come elementi distinti uno dall’altro, che dunque la mente assume essere separati: tuttavia, la misura della comprensione nella cultura orientale è quella antitetica a quella occidentale, ed ossia è rappresentata formalmente dalla relazione “+x = –x”, relazione in cui i due elementi nella distinzione coincidono, e che storicamente, concretamente, si è manifestata nel concetto di “dao”, ossia il concetto, estratto trascendentalmente dai gusci dogmatici delle tradizioni religiose, di una unità “cosmologica”, fondamentale e incondizionata, costituita indissolubilmente da due elementi contrari uno all’altro, la cui coincidenza l’uno dentro l’altro è il principio della loro mutevole apparenza fenomenale.

Questo è esattamente il concetto del materialismo dialettico, il che offre una ragione empiricamente fondata del fatto che il marxismo-leninismo e il materialismo dialettico siano stati compresi in modo completo e chiaro proprio in Cina, patria del concetto di “dao”, e in generale in Oriente – zona del mondo in cui quel concetto ha esercitato un forte influenza, spesso attraverso il buddhismo – mentre sono stati fraintesi, intenzionalmente o meno, e rifiutati con vigore da tutto l’orizzonte degli intellettuali comunisti in Occidente.

Dunque, dal punto di vista dialettico, così come non esiste un “valore” nel senso in cui lo intendeva Marx, nemmeno esiste alcun “essere”: quest’ultimo non è che un pensiero, un “universale” appunto, nulla di concreto o materiale, ma da una parte tale elemento si pone sempre e comunque in modo assolutamente contrapposto al “non essere” e non può che essere assolutamente separato da esso, dogmaticamente, e dall’altra parte non è possibile offrire alcun tipo di esempio concreto, materiale, di “essere” in quanto “essere”, “sociale” o meno.

Un “essere”, infatti, deve necessariamente essere concepito come elemento a cui è posto un limite come unità, come individuo, ma in quest’ultima forma qualsiasi classe di fenomeni ha caratteri peculiari che lo distinguono dagli altri, e dunque nessun tale elemento può essere ammesso come ciò che hanno in comune tutti quelli. Se ciò che offre il proprio “essere” a ciascuno di quelli fosse a sua volta un “essere” quello sarebbe “l’essere” e dunque dovrebbero tutti essere lo stesso, mentre, sebbene da una parte coincidano, dall’altra sono nettamente distinti.

Dire dell’“essere” equivale a dire di un “nulla”, e non è forse un caso dunque che Heidegger, più di venti secoli dopo Aristotele, concludesse che il “modo-di-essere” più “proprio” dell’“esserci” è la “nullità esistenziale”, cioè l’“anticipazione-della-morte”, vale a dire, il “non esserci”: quando si “è”, pertanto, si vive in modo “inautentico” per definizione, a meno di non vivere come se si fosse morti!

Non può sorprendere che secondo l’esimio intellettuale tedesco la sensazione fondamentale nella vita umana fosse l’angoscia. Anch’egli comunque è disperatamente confuso nell’inutile tentativo di produrre un resoconto conseguente del concetto del materialismo dialettico dal punto di vista dogmatico, impresa che, per definizione, non può che risultare in un completo fallimento.

In effetti parlare di “essere” – il termine greco che lo stesso Aristotele usa, d’altronde è una voce verbale, coniugata al participio presente, che vale come aggettivo verbale, e dunque intende “essente”, e non “essere” come le deprecabili rese moderne sono solite rendere – e di altri presunti elementi della cui esistenza effettiva non vi è alcuna evidenza, cioè gli “universali”, è perfettamente privo di senso, poiché ipotizza degli elementi materiali la cui esistenza è puramente trascendentale, sono cioè semplici nozioni dedotte assunte in assenza di prove, e poste come esistenti al di fuori della mente che li pensa in quanto fattori soverchianti che dominano la dinamica dei fenomeni.

Così, quando noi materialisti dialettici diciamo “valore” non stiamo affatto intendendo un “valore” in senso lato, in “generale”, in quanto elemento da considerare separato in quanto “universale”, un “valore in quanto tale”, ma intendiamo sempre la magnitudo reale di un fenomeno concreto, i cui caratteri materiali sono indissolubilmente legati alle sue forme complementari, cioè dialettiche, vale a dire contraddittorie, per cui tale fenomeno è esistente simultaneamente come valore e valore d'uso, e lo stesso naturalmente vale per l’altra nozione qui brevemente esaminata, “l’essere”, quale che ne possa essere la specie ipotetica.

Ciò che viene erroneamente inteso con il termine “essere”, infatti, cioè un oggetto individuale esistente materialmente in certe magnitudo sensibili, dialetticamente, va innanzitutto chiamato “organismo”, e quest’ultimo dipende per la sua esistenza dall’esecuzione di specifiche procedure che ne mantengono la figura o la accrescono. Questi ultimi sono “fatti noti”. L’“organismo” dunque è un oggetto individuale che, tuttavia, assume la sua apparenza di unità in ragione di una struttura secondo la quale quelle procedure si compiono: si tratta, pertanto, non di un “essere”, ma di un “processo strutturato”, vale a dire un evento materiale che si può verificare solo ed esclusivamente a certe determinate condizioni in una ben precisa situazione concreta, nel quale un insieme di elementi distinti è disposto secondo un certo ordine in accordo ad una misura specifica per ciascuna classe di “organismi” (ciò che vale per il “valore” e per l’“essere” così vale anche per la “natura”, che è un altro concetto materialista sì, ma metafisico).

È, dunque, in accordo al concetto del materialismo dialettico, una contraddizione materiale, come molteplicità che appare quale unità. Ne consegue naturalmente, come d’altronde lo stesso pensiero orientale da millenni afferma, che il cosiddetto “io” non è altro che un pensiero con cui la mente ingannandosi si identifica, separandosi in questo modo trascendentalmente da tutto ciò che non coincide con tale pensiero “io”, laddove è la mente stessa ciò che garantisce quella individualità, come espressione antitetica al corpo – ed ossia quale aspetto ondulatorio dell’esistenza organica, la cui realtà concreta in quanto “campo morfologico” è stata dimostrata da numerosi esperimenti – complementare, ancora una volta in modo conforme al nostro concetto, a quella corpuscolare che esiste come processo e appare ai sensi come corpo.

Chi non è in grado di vedere tutto ciò non ha ancora maturato una visione dialettica dei fenomeni, ed ossia non ha ancora superato lo “stato di minorità” di cui Kant parlava e che Aristotele chiamava “carattere giovanile”.

In quanto comunisti, cioè marxisti-leninisti, dunque, è necessario padroneggiare in modo il più possibile completo il concetto del materialismo dialettico, poiché, essendo il criterio appropriato di analisi dei fenomeni, qualora lo si abbandoni qualsiasi analisi che si possa azzardare sarà certamente errata, e dunque affidarsi ad esse non potrà che condurre a subire una sconfitta dietro l’altra: la condizione presente del movimento comunista in Occidente, che ha abbandonato il materialismo dialettico per una corrente liberale di pensiero anarchista evanescente come le passioni degli adolescenti, attesta inesorabilmente la correttezza incontestabile di questo fatto.

Tale sconfitta inevitabile, poi, non vuole affatto dire che gli avversarsi avessero adottato quel criterio, appropriato, ma significa molto semplicemente che, qualora i propri argomenti si riducano ad ipotesi indimostrabili la cui credibilità deve essere garantita da una autorità costituita, chi riesce a ottenere il sopravvento sull’avversario nella disputa dipende solamente dalla massa di opinioni che sostengono l’una o l’altra ipotesi, e dunque dalla quantità di individui che può essere raggiunta da quelle opinioni: è naturale perciò che nel sistema di produzione occidentale, dove i mezzi di informazione e di educazione sono sotto il controllo della classe dirigente capitalista, sia stata quest’ultima a travolgere con la sua immane potenza ammaliatrice le flebili e poco determinate voci ad essa contrarie, convincendo centinaia di milioni di persone grazie all’investimento annuo di centinaia di miliardi di dollari.

Può sorprendere dunque che in Oriente, dove i comunisti non hanno mai abbandonato il materialismo dialettico, e dove anzi è stato anche ulteriormente sviluppato, i marxisti-leninisti non solo non siano stati sconfitti, ma invece abbiano riscosso clamorosi successi, facendo avanzare in modo imponente e decisivo la rivoluzione anticolonialista mondiale, grazie allo sviluppo determinante e formidabile delle forze produttive nella Repubblica Popolare della Cina?

Il primo compito di un comunista così, come ben sappiamo, è l’autocritica: e l’autocritica è appunto l’analisi completa e dettagliata del proprio modo di pensare, della propria visione del mondo. A ciascun comunista, dunque, è richiesto di domandarsi con serietà, coraggio, e determinazione: la mia comprensione dei fenomeni si conforma al criterio del materialismo dialettico?

Ed ossia: sono in grado di comprendere ciascuno dei fenomeni che si manifestano nella realtà, concretamente, come processo strutturato, congiunzione in una unità indissolubile di due dinamiche contrapposte la cui stessa coincidenza costituisce il fulcro essenziale del suo sviluppo ed esistenza?

E, dunque, sono in grado di comprendere ciascuno dei fenomeni come parte complementare dell’insieme dei fenomeni nella loro totalità, in quanto elementi organici pensati come integrati alla mia visione del mondo, aspetti principali o secondari, di contraddizioni secondarie della contraddizione principale nella realtà, quella tra condizionato e incondizionato?


* Ricercatore questioni filosofiche; del Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”.
 

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