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MEGA 2, ovvero: il nuovo volto di Karl Marx

Luca Bistolfi intervista Roberto Fineschi

Ho sentito il dovere di occuparmi della nuova e definitiva edizione dell’opera omnia di Marx ed Engels, la mega 2, ancora in corso, per i lettori di Pangea intervistando Roberto Fineschi, uno dei suoi massimi curatori e contemporaneamente autore di diversi e vasti studi sul “nuovo Marx”, che riesce dal mastodontico lavoro (oltre duecento volumi). Cionondimeno mi sento in dovere di precisare di non essere sempre d’accordo con Fineschi e di cogliere Marx e le sue implicazioni teoriche e politiche in maniera spesso diversa, quantunque ritenga che un marxista degno di questo nome abbia l’obbligo di prestare orecchio alle posizioni benevole e oneste ma critiche verso il pensatore e rivoluzionario tedesco, al fine di non incorrere in quelle autoillusioni e in quelle superficialità, quando non falsificazioni, che ahimè troppo spesso hanno costellato la storia del marxismo

Karl Marx Pangea.pngNella chiusa alla Postfazione al bellissimo Karl Marx e la letteratura mondiale di Siegbert S. Prawer (Bordeaux 2021, già Garzanti 1978 come La biblioteca di Marx), Donatello Santarone riferisce le giuste impazienze o raccomandazioni di Immanuel Wallerstein, Franco Fortini e Friedrich Engels sintetizzabili nell’esclamazione del primo: «Leggete Karl Marx!». Erano stanchi di sentir chiacchierare sedicenti marxisti senza una pagina del Moro. Fortini (Avanti!, 7 dicembre 1947) spiega: «Ognuno legge… Marx dovunque, eccetto che in Marx». Banalità persino, ma quanto disattese!

Però col rivoluzionario di Treviri pare che la faccenda sia un po’ complicata, o almeno ciò è quanto emerge dai numerosi e densi lavori di Roberto Fineschi, uno dei più autorevoli membri del comitato internazionale per l’edizione definitiva dell’edizione, naturalmente critica, degli scritti di Marx e di Engels, la così detta mega 2.

Fineschi, già curatore di un’accuratissima versione filologica del primo libro del Capitale (due poderosi volumi, il secondo solo di varianti), ha sfornato già parecchi titoli per ripigliare il discorso ormai dai più abbandonato sul marxismo, forte della sua assidua frequentazione con i manoscritti. Ne dò parziale ma essenziale conto alla fine dell’intervento.

La ricezione dell’opera marx-engelsiana è sempre stata problematica, a tratti equivoca, sicché l’iniziativa internazionale, si sia o meno marxisti, merita la più grande attenzione, quale però non le è stata dedicata se non in ambito accademico-reliquiario e naturalmente tra la manciata di militanti comunisti ancora a giro. E tanto per dire come siamo messi male in Italia, basti pensare all’edizione dell’Ideologia tedesca – testo più che cruciale e per l’intelligenza di Marx ed Engels, e per la filosofia – uscita per Bompiani nel 2012, a cura di Diego Fusaro. Un libro sbagliato da cima a fondo: Fusaro, riprendendolo senza dubbio da altrui, dichiara che la vecchia edizione di Adoratskij è inutilizzabile, ché spuria, inaffidabile. Però poi il testo dell’Ideologia tedesca che Fusaro, leggo in copertina, avrebbe non solo prefato (trecento e fischia pagine!) ma anche tradotto (?!), è proprio quello di Adoratskij!

Per una ricostruzione storica di questo capolavoro filosofico marx-engelsiano, ci si cerchi in rete di Fineschi il bell’articolo «L’Ideologia tedesca dopo la nuova edizione storico-critica». In Germania L’ideologia è uscita in versione definitiva ma costa un occhio della testa (il “solito” de Gruyter, già editore del Nietzsche di Colli-Montinari). Per chi ignori il tedesco, c’è sempre la vecchia Editori Riuniti, quella con l’introduzione di Cesare Luporini, ancora in circolazione, e, giusta Fineschi, perfettamente utilizzabile.

Quanto a tutto il resto, bisognerà avere parecchia pazienza, e forse anche della rassegnazione, poiché prima che arrivino in Italia le nuove versioni dei testi e magari qualche inedito, occorreranno decenni. Tutto ciò però non implica, attenzione, che non si possa seguitare a leggere e studiare Marx ed Engels! E mentre si procede in tal senso, cerchiamo di raccapezzarci in questa selva con l’aiuto di Fineschi. (Luca Bistolfi)

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Lei da anni lavora alla revisione e alla pubblicazione dell’opera omnia di Marx e di Engels. Può riassumere in breve per cortesia le vicende che hanno contrassegnato lungo i decenni questa immane avventura editoriale e politica?

La storia della pubblicazione delle opere di Marx ed Engels è purtroppo troppo lunga per essere riassunta brevemente. Procedendo per sommi capi, si può innanzitutto affermare che è stata travagliata per due ragioni principali: la prima è l’uso politico di Marx che ha inevitabilmente, nel bene e nel male, influito sul destino del suo lascito. In secondo luogo, bisogna aggiungere che gran parte di esso era in forma manoscritta, quindi opere non pubblicate che avevano bisogno di un importante intervento editoriale. Questi due motivi hanno causato una estrema lentezza e problematicità nella realizzazione delle varie edizioni storiche.

Il primo tentativo di un’edizione storico-critica è stato fatto tra gli anni Venti e Trenta per opera del russo Rjazanov nel contesto delle politiche culturali sviluppatesi dopo la Rivoluzione di Ottobre. Per avvenute complicazioni sempre di carattere politico (scilicet: stalinismo), Rjazanov fu epurato e sostituito da Adoratskij. Tuttavia, sia per motivi politici che per il sopraggiungere della guerra, la prima Marx-Engels-Gesamtausgabe (questo il titolo dell’edizione, acronimo mega)fu interrotta e non più ripresa. Al suo interno apparvero ad es. in versioni molto controverse i cosiddetti Manoscritti economico-filosofici del ‘44 e la cosiddetta Ideologia tedesca. Altre opere pubblicate al suo interno o in collegamento a essa sono La critica del diritto statuale hegeliano, La dialettica della natura e i Grundrisse.

Dopo la Seconda guerra mondiale si è avuta la pubblicazione di varie edizioni di Opere, nessuna delle quali storico-critica. All’edizione russa, la prima di impianto generale, fece seguito quella tedesca, i celeberrimi Werke (in genere menzionati con l’acronimo mew, Marx-Engels-Werke). Anche sulla base di questi progetti furono concepiti i Collected Works in 50 volumi, sulla cui struttura era esemplata anche l’edizione italiana degli Editori Riuniti, conosciuta come meoc (Marx-Engels, Opere Complete, talvolta denominata solo meo) ora ripresa indipendentemente l’una dall’altra da Lotta comunista e La città del sole.

La nuova edizione storico-critica, la seconda Marx-Engels-Gesamtausgabe (in genere menzionata come mega 2), è stata iniziata dopo molte controversie nel 1975 ed è tuttora in corso di pubblicazione; inizialmente sotto la direzione degli Istituti per il marxismo-leninismo rispettivamente di Mosca e Berlino, è ora curata da una fondazione internazionale (imes, Internationale Marx-Engels Stiftung) di diritto olandese ma con base operativo presso l’Accademia delle Scienze di Berlino e del Brandeburgo. Rispetto a una normale edizione delle opere, vengono pubblicati in essa tutti i lavori a tutti i livelli di lavorazione, quindi inclusi manoscritti preparatori, appunti, abbozzi, ecc. Essa sta cambiando la faccia a diverse delle opere tradizionalmente lette; ad es. i menzionati Manoscritti economico-filosofici, L’ideologia tedesca e il Il capitale non sono più le opere che abbiamo conosciuto e letto fino ad oggi. C’è insomma in senso letterale “un nuovo Marx” da studiare.

 

Alla luce dei Suoi lavori, la saggistica e la curatela del primo libro del Capitale, riuscirebbe che fino ad oggi, mi passi la disinvoltura, abbiamo letto un Marx se non spurio almeno da rivedere nelle linee essenziali. Può fornirci qualche ragguaglio?

Da una parte è vero, ma bisogna stare attenti a non esagerare e farsi prendere la mano da una sorta di cancel culture marxologa. Molte delle linee essenziali emerse nel dibattito tradizionale non sono affatto sbagliate. La questione fondamentale è che quel dibattito ha raggiunto dei vertici importanti per poi arenarsi su alcuni punti cui non è riuscito a dare risposte soddisfacenti: per es. il tema della trasformazione storica, oppure il cosiddetto valore-lavoro e la trasformazione dei valori in prezzi, giusto per citare due temi emblematici. Il nuovo Marx, filologicamente più corretto, permette di riprendere questi temi con una strumentazione più precisa e di ridefinire alcune delle premesse da cui quei dibattiti avevano preso le mosse. Questa operazione credo permetta di andare oltre l’impasse storica, o quanto meno ci dà delle aperture importanti per un Marx decisamente attuale. Giusto per riprendere l’esempio che citavo e dare la misura delle “incrostazioni” interpretative: Marx non ha mai utilizzato né l’espressione materialismo storico né quella di valore-lavoro; se la prima è stata inventata da Engels, la seconda è farina del sacco addirittura di Böhm-Bawerk, uno dei suoi nemici giurati. Grazie all’edizione storico-critica si può finalmente riprendere il discorso a partire dalle parole di Marx e non da quelle di chi, anche autorevolmente, lo ha interpretato.

 

Lei ha accennato in particolare a una “revisione” del Capitale, dell’Ideologia tedesca e dei Manoscritti del 1844. Vorrebbe aggiungere qualche dettaglio?

Il capitale è particolarmente toccato dalle novità, perché finalmente sono stati resi disponibili tutti i manoscritti originali per il secondo ed il terzo libro sulla cui base Engels ha dato alle stampe le versioni canonicamente lette. Il loro stato era ben lungi dalla compiutezza e l’editore dovette volente o nolente intervenire in maniera incisiva. Anche le diverse edizioni del I libro curate personalmente da Marx, le modifiche in esse e i manoscritti interlocutori tra un’edizione e l’altra sono di grande importanza per definire le premesse categoriali della teoria del capitale nel suo complesso. Qui la forza delle letture tradizionali, soprattutto tra gli economisti, è tale per cui ci vorranno anni affinché una lettura alternativa trovi ascolto. Da un punto di vista filologico, tuttavia, le premesse per cambiare paradigma rispetto alla canonica teoria del valore-lavoro sono a mio modo di vedere molto solide. Per quanto riguarda le opere cosiddette “giovanili”, quello che emerge è un loro ridimensionamento; se da una parte le nuove edizioni permettono di scorgere in esse le tracce di sviluppi futuri, dall’altra mostrano implacabilmente come le conoscenze marxiane tanto di filosofia che di economia fossero in quel periodo in via di gestazione e di definizione. Un processo che non avrebbe visto scarti decisivi prima del 1857, anno in cui, almeno nelle intenzioni, inizia la formulazione di una vera e propria teoria sistematica del modo di produzione capitalistico. Anche qui bisogna ovviamente procedere cum grano salis, senza esagerare nel sensazionalismo. Resta tuttavia il fatto che tanto i Manoscritti economico-filosofici che L’ideologia tedesca restano “opere” interlocutorie di cui appena ci ricorderemmo se Marx non avesse poi scritto Il capitale. Qui ha involontariamente fatto molti danni la “rottura” althusseriana. Se da una parte infatti era più che giusto mettere in guardia contro il naturalismo antropologico dei Manoscritti economico-filosofici e dell’alienazione concepita in quei termini, dall’altra è stato deleterio (e filologicamente insostenibile) pensare che ciò significasse rompere con Hegel e con la filosofia tout court. La conseguenza è stata da una parte che molti filosofi si sono occupati dell’alienazione e del Marx giovane e solo successivamente del Capitale solo cercandovi in vari modi conferme dell’alienazione giovanile; dall’altra molti economisti si sono disinteressati dei problemi filosofici ed epistemologici di chiara matrice hegeliana che si trovano nella teoria matura del capitale senza intendere i quali non si capisce veramente quell’opera anche a livello di funzionalità delle categorie.

 

L’utilità teorica dell’operazione è indubbia. Vorrei però capire se, a Suo giudizio, ve ne è una politica.

Se sono utili ce lo dirà la storia, come si suol dire. Scherzi a parte, credo che il paradigma teorico marxiano, per quanto incompleto e parzialmente da aggiornare, costituisca a oggi il modello di riferimento migliore che abbiamo a disposizione per interpretare non solo la “società contemporanea”, ma anche la sua dinamica a 360° (economica, sociale, ideologica, addirittura militare). È altrettanto certo che, così com’è, esso non può bastare, ma da esso si può ripartire proficuamente come valida alternativa all’individualismo metodologico imperante e all’antropologismo naturalistico altrettanto diffuso. Qui l’utilità è scientifico-cognitiva. Questa conoscenza può essere molto utile a chi ha finalità politiche e sociali, ovvero a chi “vuole cambiare il mondo”. Qualunque movimento politico che voglia incidere a livello storico non può non avere un apparato teorico di livello; qui ancora molti faticano a distinguere, causa anche alcune varianti del marxismo stesso, tra conoscenza scientifica e suo uso ideologico. È questa una perversione della dialettica di teoria e prassi che ha portato a un appiattimento della teoria sulla prassi per cui la teoria finiva volenti o nolenti a ridursi a propaganda o al massimo a strategia/tattica. Da questo, a mio parere, si deve e si può uscire con una teoria affinata e più capace di concepire le linee di tendenza del presente, al di là delle contingenze politiche.

 

Quali sono i punti dell’opera di Marx su cui studiosi e militanti dovrebbero ritornare? E perché?

Il discorso sarebbe molto lungo, credo tuttavia che gli aspetti salienti siano in prima battuta due. Il primo è la dinamica storica del modo di produzione capitalistico, le sue fasi interne, i processi autocontraddittori che portano alla modifica delle sue stesse leggi. Questo permette di teorizzare fasi e sottofasi della formazione economico-sociale capitalistica. Politicamente si agisce a un livello più concreto, quindi, per una politica razionale ed efficace, non si può che avere contezza della questione cruciale dei livelli di astrazione per non fare errori prospettici che condannano all’inefficacia. I soggetti politici non agiscono nel capitalismo in generale, ma in configurazioni specifiche determinate geograficamente, storicamente, legate a contingenze senza includere le quali l’azione politica diventa puro massimalismo.D’altra parte, a partire dalla teoria di Marx, si può proporre un più articolato concetto di classe che vada oltre la vecchia contrapposizione tra capitalisti e classe operaia e che includa nella conflittualità soggetti esclusi da quella riduzione. Anche qui il discorso sarebbe molto lungo, ma distinguendo tra figure storiche e forme teoriche di determinati soggetti economici e politici si riescono a fornire delle coordinate di riferimento per individuare possibili forme di aggregazione che funzionano al di là della figura storica della classe operaia che pur ha avuto – e ha tuttora – la sua grande rilevanza.

 

Entriamo nel dominio politico. A Suo giudizio, nonostante il biennio 1989-1991 e l’infiacchimento artatamente ordito dalla classe dominante della classe lavoratrice, la speranza in una rivoluzione quale Marx e i comunisti la intendono è ancora ben riposta o possiamo andare al mare anche noi?

Le questioni sono complesse ed è difficile rispondere in poche righe. Il tema teorico è quello delle linee di tendenza storiche e della dialettica evolutiva del modo di produzione capitalistico. Anche qui, cum grano salis, credo che le profezie marxiane sulla società futura fossero più legate allo slancio politico che a un’effettiva base teorica. Bisogna notare che l’ambizioso progetto della concezione materialistica della storia, vale a dire l’individuazione delle leggi di trasformazione storica che includessero tutta la storia umana, è rimasto un abbozzo e che Marx alla fine ha individuato le leggi di movimento del solo modo di produzione capitalistico. Ciò non significa che questo progetto sia naufragato, ma semplicemente che va ripreso e portato avanti. La comprensione delle leggi del passato ci serve per contestualizzare quelle del presente e per farci un’idea di quelle di un possibile futuro. In questo senso più che di passaggio necessario dal capitalismo al comunismo, credo che più assennatamente, da un punto di vista teorico, si possa ipotizzare la posizione delle premesse indispensabili da parte del modo di produzione capitalistico affinché una società di stampo socialista sia storicamente possibile. Queste premesse riguardano la produttività del lavoro, l’integrazione dei processi gestionali, lo sviluppo delle conoscenze adeguate alla gestione di siffatti processi, ecc. Se una società socialista senza queste premesse è impensabile, e queste premesse vengono poste in essere dal modo di produzione capitalistico, non è automatico che esse di per sé diano vita al socialismo. Le variabili in gioco sono superiori a quelle che la teoria riesce a determinare e questo dà una spazio di libertà all’azione politica e all’individuazione degli ulteriori passaggi necessari affinché il socialismo oltre che possibile diventi reale.

La fine dell’esperienza sovietica, che sarebbe non ingiusto ma semplicemente insensato liquidare nel bene nel male con l’oblio, non significa che le contraddizioni in cui si avvolge il modo di produzione capitalistico siano finite e tanto meno che le premesse per una società più razionale e giusta siano venute meno. Direi anzi che è esattamente il contrario: dopo il ’91, quelle contraddizioni sono diventate sempre più acute e la necessità di una via di uscita progressiva è ormai condizione di sopravvivenza del pianeta e del genere umano su di esso. Marx ci aiuta a cercare la strada giusta da percorrere.

 

Quali sono i soggetti politici attualmente operativi, in Italia e in Europa, che potrebbero non dirò guidare una rivoluzione, ma almeno intercettare le istanze rivoluzionarie in senso marxiano?

Direi che non ce ne sono, almeno organizzati a livello ampio (illusorio parlare di massa). La sconfitta dell’89-91 è stata di dimensione epocale e il processo di riaggregazione sarà lungo e difficile. In questa fase vedo con estrema difficoltà istanze rivoluzionarie, parlerei piuttosto di inevitabile ritirata strategica, per quanto possibile organizzata. Del resto, pare necessario un articolato e profondo processo di ripensamento delle forme alternative al capitalismo che da una parte non ricadano nel primitivismo o nell’anticapitalismo romantico, ma che dall’altra tengano adeguatamente conto delle problematiche reali legate alla gestione razionale e democratica di un’economia complessa e integrata come quella attuale al di fuori di una logica di valorizzazione del capitale.

 

Che cosa risponde a chi ancora oggi seguita a mettere in dubbio la consonanza teorico-pratica tra Marx ed Engels?

Il problema, oltre che storiografico, è stato di carattere politico. La linea interpretativa che univa in simbiosi Marx ed Engels poi vedeva sfociare questo connubio in Lenin e Stalin, insomma l’emblema del marxismo sovietico. Chi vi si è contrapposto ha cercato di sganciare Marx da Engels, attribuire a quest’ultimo la colpa di aver tradito Marx e aver dato il via alle derive sovietiche, salvando invece un Marx puro il cui pensiero sarebbe stato traviato dal marxismo. Bisogna affermare senza dubbio alcuno che separare Marx da Engels o parlare addirittura di tradimento è un’operazione storiograficamente insostenibile e possibile solo a costo di forzature estreme. In realtà, alcuni hanno frainteso la presenza di questioni filologiche ed editoriali nell’operato di Engels come un avallo delle vecchie critiche antisovietiche; questo è un malinteso da lasciarsi subito alle spalle. Ciò premesso, non ha senso neppure affermare l’identità dei due; la questione attuale consiste piuttosto in un’analisi dettagliata delle potenzialità del lavoro di Marx e di come Engels abbia risolto questioni aperte nella sua teoresi prendendo talvolta direzioni errate. Se l’idea di una contrapposizione va decisamente rifiutata, resta la questione di come Engels abbia cercato di sciogliere nodi lasciati in sospeso da Marx, come l’analisi di modelli sociali non capitalistici o addirittura questioni come quella della dialettica della natura. Si tratta di questioni cruciali, quanto mai aperte. Sicuramente le soluzioni engelsiane, col senno del poi, non appaiono adeguate alla complessità degli argomenti.

 

È notizia stravecchia che nel corso del Novecento Marx abbia subito diversi marxismi, a principiare dal revisionismo di Bernstein, sino a certe manifestazioni recentissime di marxismo resuscitato. Su cosa si fondano in linea generale le diverse letture? O meglio: quali sono a suo giudizio le motivazioni sottese ai tentativi di riletture genericamente revisionisitiche di Marx? So che è una domanda che implicherebbe un intero libro: ma so altrettanto che lei saprà essere sintetico ed esaustivo al contempo.

Be’, una valutazione del marxismo mondiale in chiusura non è la più semplice delle questioni. Sarò brevissimo e inevitabilmente inadeguato. Il problema nasceva dall’incapacità operativa e teorica, alla luce delle conoscenze del tempo, di risolvere i problemi che la prassi poneva. In realtà il complesso rapporto tra Marx ed il marxismo nasce nella distanza inevitabile e necessaria tra il livello di astrazione dell’elaborazione teorica e quello dell’operatività politica, anche a lungo termine. Da una teoria astratta del modo di produzione capitalistico non si può dedurre la prassi politica di qualsivoglia partito, anche se molti si sono illusi che fosse possibile. I processi di mediazione necessari per scendere dal rarefatto mondo dell’astrazione a quello concretissimo della lotta sono complessi e vanno svolti; essi implicano salti che, come tali, si muovono anche in contingenze che come tali non sono teorizzabili in linea di principio. La possibilità di continuazioni o applicazioni diverse sono dunque nella teoria stessa, in particolare per lo stato incompleto cui l’ha lasciata Marx. Il marxismo è lo spazio di concretizzazione della teoria nel tentativo di applicarla alla trasformazione del mondo, in questo senso lo stesso Marx si può dire che sia stato il primo marxista proprio nella sua volontà di utilizzare politicamente una teoria astratta a situazioni concrete. Con questo non si vogliono giustificare tutti i marxismi; si può mostrare secondo me la loro maggiore o minore vicinanza alla formulazione dei principi astratti marxiani; tuttavia la possibilità di marxismo al plurale è insita nella teoresi di Marx.

Il revisionismo nasceva dunque dal duro scoglio della realtà che poneva istanze che Marx non aveva potuto prevedere, data la distanza tra teoresi astratta e utilizzo politico, ma sulle quali aveva voluto comunque dire la sua, spesso sbagliando. Un marxismo rinnovato deve prendere molto sul serio questi limiti e rendersi conto del gap da colmare come compito tanto teoretico quanto politico.

* * * *

Chi intenda vagliare attraverso Fineschi lo stato dell’arte e i risultati della nuova lettura marxiana, può avvalersi di diversi titoli. Anzitutto la sintesi, davvero agilissima e ottima per introdursi nella nuova ricezione, di un Marx Morcelliana-Scholè, poche pagine estremamente chiare ed esaustive, per quanto si possa in uno spazio ridotto, non però da adoperarasi come manabile o bignami della nuova lettura marxiana, che si dovrà approfondire grazie a Un nuovo Marx (Carocci), testo ben più lungo e senz’altro più complesso, una svolta filologica e vasta, di cui però vanno rilevate alcune magagne a mio avviso non dappoco, comprese nella quarta parte dello studio dedicata «Il marxismo italiano e Il capitale», in cui si passano in rassegna, dalla fine dell’Ottocento agli anni Settanta, diverse teorie “marxiste” (virgolette di strettissimo obbligo).

Illustrando il suo metodo di scelta, Fineschi scrive (p. 157): «Il dibattito italiano su questi temi, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta, è stato spesso politicizzato; qui non si prenderanno in considerazione questi contributi che, sebbene talvolta utili, non colgono l’importanza dell’opera marxiana come teoria della storia e la riducono [sic!] a immediato strumento di lotta – è evidente che con ciò non si vuole dire che la teoria marxiana non possa essere strumento di lotta».

Ora, in primo luogo, separare la teoria dalla prassi è antimarxista e, a mio avviso, anche anti-logico poiché una filosofia o è strumento di prassi oppure è, per dir così, letteratura. Sicché espellere dalla trattazione le posizioni teorico-pratiche è arbitrario e scorretto. In secondo luogo, dando pure per legittima l’impostazione di Fineschi, peraltro mal giustificata, essa resta ancora incomprensibile: che una teoria sia “ridotta” a strumento di lotta non implica la sua assenza o indegnità d’attenzione. Terzo, tra il 1945 circa e la metà degli anni Sessanta, ossia quando la sua attività teorica e di partito subì un notevole rallentamento a causa di gravi guasti alla salute, in seguito alla molteplice disfatta del movimento rivoluzionario europeo in che si vedevano chiaramente carenze e drizzoni di natura specificamente teorica, Amadeo Bordiga volle – insieme ai non pochi militanti del suo movimento rivoluzionario, tra cui spicca il non trascurabile Bruno Maffi, autore d’una traduzione del Capitale, per la Utet – ripigliare e radunare le disiecta membra della teoria marxista e avviare, come fece in modo mirabile, una sua “ristrutturazione” al fine di sistemarla secondo criteri di rigore. (Che egli definisse il lavoro del piccolo Partito comunista internazionalista, poi internazionale, soltanto una ripetizione del dettato marx-engelsiano era eccesso di modestia le cui motivazioni non è qui luogo di enucleare). L’esito è una notevolissima mole di scritti per l’appunto teorici, bensì non disgiunti da un’intenzione pratica, ovvero rivoluzionaria, che sarebbe stata avviata quando e se le condizioni sociali e politiche ne avessero aperto la strada, ma che vale di per sé come, non temo né tremo a dirlo, uno dei momenti culminanti della storia del pensiero marxista mondiale e senz’altro il vertice dell’italiano, e nondimeno una delle vette del pensiero filosofico (ma sarebbe meglio dire antifilosofico) d’Italia. A solo titolo d’esempio si prenda visione della «Teoria rivoluzionaria della conoscenza», nel doppio numero della rivista «n+1».

È sconcertante quindi leggere che «gestire l’eredità filosofica e culturale del periodo fascista non era certo facile. La scarsa influenza di Labriola, la prigionia di Gramsci, la cultura di regime avevano impedito sviluppi teorici significativi» (p. 173): una frase oltremodo incauta se si pensa che, dal 1910 al 1926, Bordiga svilippò alcuni importanti contributi teorici marxisti (si pensi solo al risultato dello scontro tra lui e Tasca nel 1910), robusti e fondamentali sebbene più acerbi a petto di quelli successivi al 1945, che tuttavia possono essere letti in continuità e che aggirano, direi quasi per certi versi se ne fregano, dell’eredità filosofica e culturale fascista.

Nonostante tutto ciò nella vasta trattazione di Fineschi non si fa il benché minimo cenno a Bordiga, vizio bensì stravecchio presso gli studiosi di cose marxiste, ma pur sempre biasimevole e non solo per i detti motivi.

A contrasto con tale assenza, è ancor più grave aver concesso non soltanto vasto spazio ad Antonio Gramsci ma soprattutto, nonostante qualche critica, essersi accodati alla vulgata del «Gramsci marxista», ferma e necessaria icona del comunismo italiano e internazionale, quando chi abbia dimestichezza con tale dominio sa perfettamente quanto poco il politico sardo fosse innestato nella dottrina dei padri nobili del comunismo. In ciò mi permetto di suggerire l’unico libro coraggioso, che, con mole di intelligenza e documenti, ricollochi l’ordinovista al suo posto: Gramsci e le ideologie del suo tempo di Christian Riechers, pubblicato dall’estinta ma più che meritoria Graphos di Corrado Basile, massimo esperto mondiale del movimento comunista internazionale, ahimè morto il 25 dicembre 2022.

Per soprammercato si valuti come si deve l’attenzione riservata da Fineschi al rapporto, pur istruttivo, Gramsci-Croce, ciò che da solo avrebbe dovuto suscitare in Fineschi interessamento per Bordiga, non meno di Gramsci attento alla presenza di Croce negli studi marxisti. Inoltre e da ultimo, si stenta a capire perché escludere, in virtù della loro declinazione pratica, ovvero uso politico i contributi marxiani tra i Sessanta e Settanta, come se invece Gramsci non fosse stato anch’egli – e ahimè quasi per antonomasia! – un militante comunista.

L’altro lavoro di Fineschi che meriti attenzione è senz’altro Marx e Hegel. Contributi a una rilettura, anch’esso stampato da Carocci, perché chi voglia frequentare Treviri deve obbligatoriamente passare per Stoccarda, con buona pace di chi dichiari il contrario.

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