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In occasione del centenario di “Storia e Coscienza di Classe”: la dialettica di natura e società tra György Lukács e Alfred Schmidt

di Francesco Bugli

Questo testo è dedicato alla memoria di Roberto Sassi (1960-2023)

Lukacs72.pngParte I

Nell’influente raccolta di saggi Storia e Coscienza di Classe (dalla cui pubblicazione ricorre il centenario), György Lukács si pose un problema metodologico, ovvero se fosse possibile applicare alla natura il metodo dialettico nella formulazione engelsiana. La risposta secondo l’autore è sostanzialmente negativa, ed è già presente nel primo testo della raccolta intitolato Che cos’è il marxismo ortodosso?. Sappiamo che Storia e Coscienza di Classe è spesso considerato il testo fondatore del cosiddetto marxismo occidentale, incarnato da una rosa di autori che interpretano il pensiero di Karl Marx come separato da quello di Friedrich Engels su molte questioni cruciali, a partire proprio da quella metodologica. La separazione di cui parliamo riguarda cioè il metodo con cui si debba indagare natura e società: ciò non era scontato nella vulgata marxista del tempo che sarebbe confluita nel cosiddetto diamat di matrice sovietica. Il testo Il concetto di natura in Marx di Alfred Schimdt è a nostro avviso segnato da una profonda influenza del testo lukácsiano che lo porta a seguire la traiettoria del pensatore ungherese nella valutazione del pensiero di Engels. In questo articolo si traccerà quindi un ponte tra i due autori: un ponte relativo alla loro valutazione del pensiero engelsiano. Inoltre, verrà tenuta al centro la problematica ontologica, mostrando come essa sia declinata dai due autori in modi differenti.

 

  1. Storia e coscienza di classe: metodo e problemi nella conoscenza della natura e della società

A partire dal primo testo di Storia e coscienza di classe, Lukács poneva il problema della differenza di metodo da adottare nell’analisi della società e in quella della natura[1].

Lukács mutua il senso di questa differenza dal contesto culturale tedesco a lui contemporaneo: dallo storicismo e dal neokantismo, in particolare dalle figure di Wilhelm Dilthey e di Max Weber. Per Lukács il problema della dialettica si pone come metodo d’indagine del mondo storico-sociale: quella è infatti capace di riflettere le intime strutture di questo e risponde al corretto rapporto che, sulla scia di Marx, si deve impostare tra teoria e prassi. Si tratta di un punto di vista militante che tiene al centro la questione del punto di vista proletario, che è a sua volta questione centrale in SCC. Il punto d’avvio di Lukács è la conoscenza della realtà sociale. Questa è al contempo «una corretta conoscenza della società nella sua interezza» e condizione dell’affermarsi del proletariato inteso come classe rivoluzionaria[2]. In altri termini la teoria è qui concepita come strumento rivoluzionario, ossia come elemento necessario alla trasformazione della società e il metodo dialettico può essere il solo capace di fornire tale presupposto. Per Lukács tale metodo deve appunto essere quello indicato da Marx. Deve cioè rovesciare la dialettica hegeliana verso una dialettica materialista, che presenta già un punto di distinzione rispetto alla sua versione engelsiana. Infatti, secondo Lukács, Engels affermava che «la dialettica è il processo costante del fluido trapassare da una determinazione nell’altra, l’ininterrotto superamento delle contraddizioni”[3]. Tuttavia, in questo modo, continua Lukacs, «l’interazione più essenziale, il rapporto dialettico tra soggetto e oggetto nel processo storico, non viene […] posto – come si dovrebbe – al centro della considerazione metodica»[4].

Il rimprovero fatto a Engels è insomma quello di rimanere ancora una volta nell’astrattezza della fluidità dei concetti, di non considerare il dato della prassi, della trasformazione della realtà: di rimanere su un piano puramente metodologico, cadendo nella «separazione di metodo e realtà, di pensiero ed essere»[5]. C’è una certa cautela in Lukács, come si evince dal modo in cui è lui stesso a riprendere Engels in alcuni passaggi del testo, ma non c’è dubbio che è molto chiaro nell’affermare come Marx si esprima su simili questioni «molto più precisamente» dell’amico[6]. Pochi passaggi dopo, in una nota, l’autore sottolinea come per lui vi siano stati una serie di fraintendimenti che hanno portato al «fatto che Engels – seguendo il falso esempio di Hegel – estende il metodo dialettico anche alla conoscenza della natura» e non lo circoscrive alla realtà storica e sociale, che è invece caratterizzata da quegli elementi che attingono intimamente alla dialettica: l’unità tra teoria e prassi e l’interazione tra soggetto e oggetto[7].

Un altro punto di distanza che Lukács vuole prendere da Engels riguarda la valutazione della prassi in relazione alla problematica della cosa in sé (il noumeno) nel pensiero di Kant. Per Kant il noumeno è l’oggetto della rappresentazione intelligibile, è l’oggetto che può essere pensato ma mai conosciuto in sé. Il noumeno non è derivabile dalla sensibilità e dall’esperienza. Le cose in sé (noumeni) vanno quindi distinte dai fenomeni prodotti dalla rappresentazione sensibile, che sono conoscibili e sottoposti alle “forme” a priori dello spazio e del tempo. Per Engels «la decisiva confutazione di questa stramberia filosofica […] è la praxis, cioè l’esperimento e l’industria», in cui la cosa in sé, il noumeno, diventa cosa per noi[8]. Lukács qui rimprovera a Engels un uso scorretto delle categorie hegeliane di “in sé” e “per sé”, dove il primo termine significa che la cosa è data per noi mentre il secondo, «l’essere pensato dell’oggetto, significa al tempo stesso coscienza che l’oggetto ha di sé stesso»[9]. Inoltre, il fraintendimento di Engels avverrebbe sul terreno della mancata comprensione di Kant, per il quale la cosa in sé non è assolutamente un freno alla conoscenza scientifica sperimentale, e quest’ultima rimane sempre su un piano fenomenico e mai noumenico.

Lukács vede nell’esperimento qualcosa che attiene ancora a un comportamento contemplativo, dal momento che si danno condizioni, per così dire depurate, sia soggettivamente che oggettivamente, da ogni perturbazione, in cui si possono osservare le leggi di natura nel loro svolgersi. L’industria è identificata da Lukács con l’agire del capitalista, che si percepisce come dotato di margini di manovra individuali, come agente consapevole, mentre in realtà è agito dai meccanismi economici che lo dominano, in quanto il rapporto sociale dominante avviene per gli attori sociali alle loro spalle nel modo di produzione capitalistico. Nell’industria, la questione attiene il ragionamento marxiano sulle charaktermaske[10]. Per Lukács come per Marx i singoli attori del sistema economico sono maschere di categorie economiche: sono agiti, e non agenti, dalle leggi coercitive della concorrenza. Nell’industria – scrive Lukács –il capitalista «non agisce, ma subisce l’azione, […] la sua attività si esaurisce nel calcolo e nella osservazione corretta dell’operare oggettivo delle leggi naturali sociali»[11].

Un punto centrale nella considerazione di Lukács è quello del posto dei dati empirici, fattuali, nell’elaborazione della teoria. È un punto che ci servirà a chiarire la questione della valutazione del metodo scientifico da parte dell’autore. Per lui non si danno fatti isolati: «i fatti sono appresi a partire da una teoria, secondo un metodo, sono stati strappati al contesto di una teoria»[12]. Non c’è factum brutum che tenga. I tentativi di contrapporre l’empirismo al metodo dialettico, per quanto riguarda la sfera storica e sociale, sono fallaci. Questa fallacia è il prodotto stesso della struttura sociale del capitalismo, che isola i vari settori e produce essa stessa parzialità, mentre la dialettica assume un punto di vista radicalmente opposto che è quello della totalità. Il punto è che lo stesso orientamento della struttura della società capitalistica porta ad adottare il metodo delle scienze naturali, in cui i fatti appaiono, come tali, isolati in virtù della stessa struttura storicamente determinata del capitalismo. La specializzazione e la parcellizzazione delle scienze rompe il rapporto con la totalità, riproducendo la logica feticistica e irrazionale del modo di produzione capitalistico attraverso una formalizzazione metodologica che riproduce l’inversione del qualitativo nel quantitativo, proprio della logica del valore e della merce. Qui viene richiamata la distinzione hegeliana tra apparenza ed essenza dei fenomeni, che secondo Lukacs è centrale nel Capitale di Marx e nelle sue categorie, mutuate queste dalla Scienza della logica[13]. Al di là della datità immediata, i fenomeni – che si presentano isolati – vanno compresi dialetticamente; vanno «trovate le mediazioni mediante le quali essi possano essere riferiti al loro nucleo, alla loro essenza, e d’altro lato, ottenere la comprensione di questo loro carattere di fenomeno», riconoscendo così la stessa datità immediata come un prodotto della forma sociale capitalistica[14].

I fatti vanno compresi come momenti della totalità e ricondotti alle loro connessioni dialettiche, la realtà è struttura in questo modo e tale processo non è una pura ricostruzione del pensiero ma attiene alla struttura della realtà stessa. Il metodo dialettico è quello del primato della totalità sui singoli momenti, se è vero come scriveva Hegel che il vero è l’intero. In questo caso però la totalità è quella marxiana dei rapporti sociali di produzione, caratterizzata dall’antagonismo tra forze produttive e rapporti di produzione. Il metodo dialettico si distingue da quello scientifico sul lato della contraddizione; quello scientifico è tale in virtù del principio di non-contraddizione, dove le teorie imperfette sono quelle che si contraddicono tra loro e come tali saranno riassorbite e riformulate all’interno di teorie più generali che determineranno la scomparsa della contraddizione stessa. Nella sfera storica e sociale, secondo Lukács, le contraddizioni «appartengono piuttosto inseparabilmente all’essenza della realtà stessa, all’essenza della società capitalistica»[15]. Per la logica dialettica le contraddizioni vanno considerate come necessarie, la loro soppressione potrà avvenire sul terreno dello sviluppo della realtà sociale, con il rovesciamento rivoluzionario della società stessa da parte del soggetto-oggetto agente e conoscente, ovvero il proletariato.

A questo punto Lukács afferma che «l’ideale conoscitivo delle scienze naturali che, applicato alla natura, serve appunto unicamente al progresso della scienza, quando viene riferito allo sviluppo sociale, si presenta come mezzo ideologico della lotta ideologica della borghesia»[16]. Qui abbiamo l’estensione di categorie della natura alla società: categorie che vanno a eternalizzare e naturalizzare il modo di produzione capitalistico. Lo stesso metodo dell’economia politica nel suo sorgere è tutto volto a negare le contraddizioni immanenti al modo di produzione capitalistico e finisce per farne un’apologia, e a farsi strumento ideologico della classe dominante. I momenti di cui si caratterizza la totalità, non vanno negati per ritornare a un’unità indifferenziata, ma compresi come momenti fenomenici della totalità stessa, in quanto «si trovano l’uno con l’altro in un rapporto dialettico-dinamico»[17]: un rapporto che però non assume mai la forma della mera interazione causale tra due oggetti. L’intero determina i momenti come «forma di oggettualità di ogni oggetto della conoscenza; ogni modificazione essenziale […] si esprime come modificazione del rapporto con l’intero e quindi come modificazione della stessa forma di oggettualità»[18]. La conoscenza dialettica permette di comprendere «le forme feticistiche dell’oggettualità»[19]. Queste forme sono generate dalla realtà invertita del capitale, in cui le cose hanno caratteristiche di persone e le persone di cose. Per Lukács la forma dell’oggettualità è definita dalla forma-merce, che è il «problema centrale della società capitalista» e «la forma dominante del ricambio organico di una società»[20]: si tratta di forme che, nella loro interazione, si rivelano capaci di condizionarne il lato oggettivo e quello soggettivo. La conoscenza dell’oggettualità permette di scoprire il carattere transitorio, storico, dell’apparenza fenomenica delle cose e di sciogliere, tramite la prassi, l’inversione tra soggetto e predicato propria di una società alienata e dominata dalla reificazione.

Tornando al rapporto tra Marx e Hegel, Lukács ci suggerisce che lo snodo della loro differenziazione avviene sul terreno della realtà, delle forze motrici della storia: forze impossibili da identificare hegelianamente coi popoli e con lo spirito che agirebbe attraverso essi.

Hegel rimarrebbe dunque prigioniero, ancora una volta, dei dualismi tra pensiero ed essere, tra soggetto e oggetto. Lukács è convinto che in Hegel sia di nuovo presente «una mitologia del concetto» legata alla lettura dello spirito assoluto come motore della storia, mentre Marx ed Engels hanno restituito la determinazione materiale della vita degli uomini, nei rapporti reciproci tra loro e con la natura[21]. Se l’essere per Marx è essere sociale che va a determinare la coscienza e non viceversa, scopriamo questo essere come prodotto dell’uomo. Nella società capitalistica vige però una forma mistificata di realtà e oggettualità, in cui i rapporti sono percepiti come rigidi, esterni all’uomo, cosali e naturali, in virtù della struttura sociale stessa che è mistificata e alienata. La realtà stessa è prodotta dall’uomo, della sua attività sensibile e ciò significa «una presa di coscienza dell’uomo su sé stesso come essere sociale, sull’uomo in quanto – nello stesso tempo – è soggetto e oggetto dell’accadere storico-sociale»[22]. Solo con l’avvento del capitalismo l’uomo si rende conto della socialità dei rapporti che lo caratterizzano. Nel modo di produzione feudale l’elemento naturale è ancora prevalente. Il capitalismo invece, con il suo sviluppo, porta alla scomparsa «dei rapporti economici che hanno regolato direttamente il ricambio organico tra uomo e natura. L’uomo diventa – nel vero senso della parola – essere sociale. La società la realtà dell’uomo»[23].

Inoltre, per Lukács l’elemento naturale è sempre socialmente condizionato: «la natura è una categoria sociale. Ciò che vale come natura a un determinato grado dello sviluppo sociale, la struttura del rapporto tra uomo e natura e il modo in cui l’uomo si rapporta con essa; quindi, il senso che la natura deve avere in rapporto alla sua forma e al suo contenuto» attiene alle forme di mediazione della società[24]. Per Lukács la realtà sociale diviene intelligibile solo a partire dallo sviluppo del capitalismo, che produce una seconda natura. È qui che il proletariato, con la sua comparsa, si fa soggetto capace della conoscenza della realtà sociale come intero. Il bisogno vitale della classe operaia è quello di conoscere la propria situazione: conoscendo l’intero essa può orientare la sua azione. Questo processo è per Lukács il punto in cui coincidono teoria e prassi, e in cui nel punto di vista del proletariato «vengono a coincidere la conoscenza di sé e la conoscenza della totalità, ed esso, è al tempo stesso, soggetto e oggetto della propria conoscenza»[25]. La conoscenza della realtà parte dal punto di vista del proletariato, in quanto in esso sono riassunte tutte le contraddizioni della società capitalistica. Il punto di vista situato è quello che permette la conoscenza dell’intero. La parte proletaria è parte per il tutto, sineddoche. Il punto di vista proletario sulla totalità si è formato sul terreno concreto della lotta di classe, come un percorso travagliato. Da esso si è formato il materialismo storico e dialettico[26] come strumento di conoscenza e, allo stesso tempo, di lotta. Lo scopo finale di tale lotta è il «rapporto con l’intero […] attraverso il quale ogni momento singolo della lotta mantiene il suo senso rivoluzionario»[27]: un senso che solo la dialettica come metodo può tenere al centro dell’azione che essa stessa guida. Il soggetto-oggetto coincidente nella figura del proletariato sarà capace di superare la contraddizione della realtà mistificata del capitalismo e le antinomie che caratterizzano il pensiero borghese.

 

  1. La prefazione “autocritica” del 1967: da “un hegelismo più hegeliano di Hegel” a un’ontologia dell’essere sociale

Nel 1967 Lukács scrive una nuova prefazione a Storia e Coscienza di Classe, con un forte intento autocritico[28]. Il punto di partenza è proprio la peculiare critica all’idea di marxismo come ontologia, sviluppata all’interno di Storia e Coscienza di Classe, che voleva engelsianamente il metodo dialettico applicabile indistintamente alle proprietà naturali e sociali dell’essere: posizione che, come abbiamo visto, è fortemente rigettata dallo stesso Lukács[29]. Analizzando il suo vecchio testo, Lukács sottolinea che la differenza sul metodo d’applicabile a natura e società fosse per lui centrale, e come la natura fosse da lui intesa primariamente come «categoria sociale […] nel senso secondo cui soltanto la conoscenza della società e degli uomini che vivono in essa sarebbe filosoficamente rilevante»[30]. Questa posizione rischiava di non dare il giusto risalto al perno marxiano della categoria centrale di lavoro, inteso «come mediatore del ricambio organico della società con la natura»[31]. Più generale quell’approccio non restituiva il naturalismo e il realismo dell’opera marxiana, che sottolinea il prius dell’oggettività naturale.

La ricostruzione lukácsiana, della propria biografia intellettuale, pone a questo punto l’accento sulla sua collaborazione con l’Istituto Marx-Engels di Mosca tra il 1929 e 1930, che gli permisero la lettura dei cosiddetti Manoscritti Economico-filosofici del 1844. Qui, com’è noto, si trova la centrale differenziazione tra estraniazione (Entfremdung) e oggettivazione (Vergegenständlichung). Lukács descrive il vivo stupore che gli suscitò la lettura delle pagine di Marx, dove «l’oggettività come proprietà materiale prima di tutte le cose e di tutte le relazioni» è messa in chiara luce e l’oggettivazione è «un modo di naturale – positivo o negativo – di dominio umano del mondo, mentre l’estraniazione è un tipo particolare d’oggettivazione che si realizza in date circostanze sociali»[32].

Nel definire la propria impostazione, ai tempi della scrittura di Storia e Coscienza di Classe, Lukács dichiarò di essere stato seguace «di un hegelismo più hegeliano di Hegel» nell’impostare la questione del “soggetto-oggetto identico” e nell’identificarla con la figura del proletariato, perdendosi in una forma d’idealismo persino più esasperata rispetto a quella di Hegel. Tale enfasi era influenzata anche dal contesto storico e dalle tendenze politiche che agitavano l’autore durante il periodo successivo alla Rivoluzione d’ottobre, e finiva per riflettere l’«utopismo messianico del comunismo di sinistra di allora»[33]. Il problema centrale è quello dell’alienazione (Entäusserung) nel pensiero di Hegel. Hegel identifica l’alienazione con la posizione dell’oggettività, con il porre l’oggettività. Nell’interpretazione che Lukács ne dà in Storia e Coscienza di Classe, il “soggetto-oggetto identico” avrebbe dovuto superare l’alienazione, ma così facendo avrebbe superato anche l’oggettività naturale, sciogliendo le forme alienate dell’oggettività stessa e determinando con la fine dell’alienazione anche la fine della realtà oggettiva, in quanto entrambe erano poste sullo stesso piano. Se in Hegel «l’oggetto, la cosa […] esiste soltanto come alienazione dell’autocoscienza, la sua riassunzione nel soggetto rappresenterebbe la fine della realtà oggettività, quindi della realtà in generale»[34]. E questo genererebbe un esito irrazionalistico e idealistico (per altro rigettato dallo stesso Hegel nella sua critica a Schelling[35]). Qui viene evidenziato come «l’oggettivazione è effettivamente un modo insuperabile di estrinsecazione della vita sociale degli uomini»[36]. Non c’è giudizio di valore rispetto alla vita sociale in sé, ma solo quando i rapporti degli uomini tra loro e con la natura «ricevono funzioni tali da mettere in contrasto l’essenza dell’uomo con il suo essere, soggiogando, deformando e lacerando l’essenza umana attraverso l’essere sociale»[37]. Quando cioè «sorge il rapporto oggettivamente sociale d’estraniazione e come sua conseguenza necessaria, l’estraniazione interna di tutti i caratteri soggettivi»[38].

Altro snodo problematico per il Lukács “autocritico” è quello che attiene alla categoria della praxis. Se prima era direttamente correlata all’azione rivoluzionaria agente-conoscente del proletariato come classe per sé, è ora identifica immediatamente con il lavoro, col concetto marxiano di ricambio organico tra uomo e natura quale necessità eterna per la vita biologica e sociale degli uomini[39]. Secondo Lukács, che in quegli anni come abbiamo ricordato andava elaborando la sua propria ontologia come ontologia dell’essere sociale, il lavoro è sulla scia di Marx atto teleologico che presuppone il “rispecchiamento” – come presupposto ontologico della realtà oggettiva – nel pensiero: rispecchiamento che però trova verifica soltanto nella prassi[40]. Tornando alla valutazione del pensiero di Engels, Lukács mette al vaglio i due esempi sula “verifica” della praxis presentati in Storia e Coscienza di Classe, ovvero l’industria e l’esperimento. Il valore attribuito al lavoro, come praxis e criterio veritativo, è qui accolto dall’autore ungherese, ma solo come qualcosa di vero in prima battuta: qualcosa che però è incapace di sciogliere l’enigma kantiano della cosa in sé. Se “praticamente” qualcosa si dimostra vero a partire dalla teoria – sostiene Lukács – può anche “funzionare” nella realtà ma su presupposti teorici completamente errati. Inoltre, l’enigma noumenico, non è sciolto, perché Kant stesso affermava che la conoscenza sperimentale è fenomenica e mai noumenica. Dal Lukács di SCC, l’esperimento era considerato l’atteggiamento contemplativo per eccellenza. Ora lo identifica in un atto teleologico valido come prassi. Lo stesso si può dire per l’industria, che viene ora considerata come «sintesi di atti lavorativi teleologici, […] un atto teleologico e quindi pratico»[41]. La posta in gioco di questa autocritica riguarda la categoria di lavoro, che per Lukács non era ben posta al centro di SCC, dove venivano privilegiate «le strutture più complesse dell’economica merceologica evoluta»[42].

Occorre a questo punto analizzare alcuni elementi chiave dell‘Ontologia dell’essere sociale, sviluppata da Lukács dall’inizio degli anni Sessanta. Un punto centrale che ci preme sottolineare, in cui tornano tutti gli elementi posti in evidenza nella Prefazione del 1967, è legato al particolare rapporto che si viene a instaurare tra natura e società in questa fase del pensiero lukácsiano. Per l’autore la differenza profonda tra queste due sfere attiene allo iato che intercorre tra le categorie di teleologia e causalità: la prima attiene al fondamento del mondo sociale, la seconda al mondo della natura. Per Lukács vi sono «tre grandi specie d’essere (natura organica, natura inorganica e società)»[43]. Queste specie però non sono scisse: il mondo naturale caratterizzato da processi inorganici e organici non conosce finalismo e anche il finalismo del mondo organico è “senza scopo”; mentre l’atto teleologico umano trova fondamento nella praxis identificata col ricambio organico tra uomo e natura, come atto tendente a uno scopo, sorto dalla necessità della soddisfazione di un bisogno sociale. Il lavoro – che quel bisogno deve soddisfare – è per Lukács il «fatto ontologico fondamentale dell’essere sociale»[44]. Esso prende le mosse dalla conoscenza di fatti causali-naturali e li torce verso uno scopo, che a sua volta mette in moto altre causalità, oggetti e processi naturali. Vanno qui tenute in considerazione le tre specie d’essere che esistono contemporaneamente, intrecciate l’una all’altra, dove l’uomo appartiene simultaneamente sia alla natura che alla società. La concezione processuale di Lukács prevede che l’elemento naturale “arretri” di fronte alla pressione dell’uomo, ma l’elemento naturale come tale non è mai eliminato, è anzi il fondamento dell’essere uomo dove non si dà mai dualismo: «l’uomo non è mai […] da un lato ente sociale, umano, e dall’altro lato parte della natura; la sua umanizzazione, la sua socializzazione, non implica una scissione ontologica del suo essere»[45].

L’ultimo punto che ci preme sottolineare è legato alla valutazione del pensiero di Engels in relazione ad Hegel. Qui il disaccordo attiene alla mancata presa di distanza di Engels da Hegel che avviene sul terreno della logicizzazione dell’essere. Engels non parte dall’astrazione derivata dal passaggio dal concreto all’astratto[46]. Pretende invece di applicare uno schema astratto, auto-fondato logicamente, all’essere concreto, invertendo il processo reale dell’astrazione come concepito da Marx nel rovesciamento della dialettica hegeliana[47]. Il punto per Lukács è l’impossibilità di partire «dal concetto logicamente svuotato dell’essere e sviluppare un essere reale mediante una reversione ideale del processo di astrazione»[48]. Il concetto di “negazione della negazione” utilizzato da Engels nell’Anti-Dühring (e mutuato da Hegel) conduce ad uno schematismo che falsifica la realtà stessa, sussumendola sotto uno schema astratto, privo di base ontologica reale, peraltro indistintamente applicabile alla natura come alla società. Secondo Lukács questa legge generale «non è stata ricava da sviluppi dell’essere stesso ma da fuori, a partire da sfere completamente altre, è stata arbitrariamente applicata a ogni e qualsiasi essere»[49].

La negazione della negazione come categoria hegeliana è secondo Lukács «soltanto una determinazione ideale»[50]. L’uomo nel suo agire quotidiano si pone una domanda che determinerà il suo agire futuro. Ponendosi la domanda può rispondersi sia negando che affermando. Il piano della prassi umana però non ha che fare con categorie logiche, ma con la prassi stessa degli uomini: con il “sì” o il “no” degli uomini in situazione. La prassi è ontologicamente determinata, sia essa naturale o sociale o sia essa una loro mediazione. Per Lukács Engels è invece convinto che la negazione della negazione avvenga nella realtà, a partire dal mondo organico. È il celebre esempio del chicco d’orzo: «il chicco come tale muore, viene negato, e al suo posto spunta la pianta formatasi da esso, la negazione del chicco»[51]. Il problema attiene sempre alla logicizzazione dell’essere, dove il primato spetta al logico sull’ontologico. Attiene cioè all’inversione della realtà che fa derivare il concreto dall’astratto, dove lo schema hegeliano viene applicato alla natura e la natura diviene qualcosa di caricaturale e superfluo. Secondo Lukács il processo si comprende più facilmente «sulla base della coppia categoriale continuità-discontinuità» che sulla base del concetto hegeliano della «negazione della negazione»[52]. Questa coppia categoriale attiene infatti alla realtà, ai processi ontologici. «La continuità e la discontinuità – scrive Lukács – negli uomini erano di fatto operanti, sviluppavano e suscitavano forme ontologiche, moltissimo prima che il pensiero fosse in grado di immaginarsi il loro carattere di categorie»[53]. In altri termini, l’oggettività ontologica preesiste al categoriale logico.

 

 

Parte II

 

3. Alfred Schmidt: Il concetto di natura in Marx, la dialettica tra natura e società al di là dell’ontologia?

Alfred Schmidt scrive Il concetto di natura in Marx come tesi dottorale sotto la guida di Horkeimer e Adorno. Ultimato nel 1960, il testo uscirà nella traduzione italiana per la casa editrice Laterza nel 1969 con la prefazione di Lucio Colletti[1]. Come lo stesso Schmidt scrive fin dall’introduzione, il perno intorno a cui ruota il testo è la peculiare considerazione della natura nell’opera di Marx, dove la natura è considerata come un prius: come primigenia sorgente dei valori d’uso che sta in rapporto con l’attività, con la praxis degli uomini. E dove «gli enunciati sulla natura vuoi di tipo gnoseologico, vuoi attinenti alle scienze naturali, presuppongono […] la totalità dei modi d’appropriazione economico-tecnologica degli uomini, la prassi sociale»[2]. Se è vero che la conoscenza della natura è sempre mediata dalla prassi sociale, al contempo «il processo vitale degli uomini, anche se compreso e dominato, resta una connessione naturale»[3]. La dialettica tra soggetto e oggetto nel processo di mediazione sociale rimane ancorata alla natura, che è filtrata socialmente, e attiene alla centrale categoria marxiana del ricambio organico tra uomo e natura. L’opera di Schmidt prende le mosse da un’attenta ricostruzione dell’iter intellettuale marxiano, dai manoscritti giovanili al Capitale passando per i Grundrisse. L’attenzione è sempre posta sulla differenza rispetto alla concezione engelsiana della natura e, come vedremo, questa valutazione tiene conto di alcuni importanti motivi sviluppati dal Lukács di SCC.

L’elaborazione marxiana del concetto di natura prende le mosse dalla ben nota critica di Hegel, mediata attraverso l’opera di Ludwig Feuerbach, dove la natura viene considerata come causa sui, e non come un momento di sviluppo dello spirito coincidente con il suo alienarsi nella natura: un momento dopo il quale esso è destinato a ritornare presso sé. La torsione feuerbachiana pone lo spirito non come un soggetto assoluto ma come una qualità umana, naturale, accanto alle altre proprie di un soggetto incarnato (dell’uomo come ente generico). Le categorie hegeliane sono spiegate da Feuerbach come categorie logiche legate alle funzioni degli uomini finiti, dove non è lo spirito a essere il punto di partenza ma gli uomini nelle loro funzioni fisiologiche e sensibili. Il salto in avanti di Marx rispetto a Feuerbach attiene per Schmidt alla considerazione del momento della conoscenza come momento costituito non solo dall’intuizione sensibile bensì dall’intera prassi umana, benché la natura stessa non si risolva nei modi dell’appropriazione umana né sia da Marx concepita come «realtà extra umana nel senso di una oggettività immediata e dunque ontologicamente»[4]. Non si tratta cioè di concepire il soggetto – in modo meramente contemplativo, come nel caso di Feuerbach – come ente naturale e generico, umano, posto immediatamente di fronte a un oggetto: la natura. Si tratta piuttosto di concepire come la natura sia per Marx «un momento della prassi umana e al tempo stesso la totalità di ciò che esiste»[5]. L’obiettivo di Schmidt è quello di mettere in luce come per Marx non si dia una natura pura, fuori dalla prassi umana, ma come essa sia mediata socialmente pur non perdendo il suo prius, e come la saldatura tra soggetto e oggetto stia nel «“produrre”: il produttore di un mondo oggettivo – scrive Schmidt – è il processo storico-sociale della vita degli uomini»[6]. Un posto centrale è dato alla mediatezza di ogni immediato, mantenendo salda la non identità tra soggetto e oggetto come parti della natura, andando oltre «il carattere ontologico-astratto mettendo in rapporto la natura ed ogni coscienza della natura con il processo vitale della società»[7].

Il punto centrale è qui la negazione di una sostanza che sia sganciata dalla sua determinazione concreta. Per Marx il mondo sensibile non è dato nella sua immediatezza, ma è sempre «mediato socialmente, è pur sempre un mondo naturale e come tale precede storicamente qualsiasi società umana»[8]. Ma la materia naturale non può essere un principio ontologico, un principio supremo dell’essere dato che «gli uomini, anzi, nella loro produzione non hanno mai a che fare con la materia in quanto tale, bensì sempre soltanto con i suoi concreti modi d’esistenza, determinati quantitativamente e qualitativamente»[9]. Non c’è universale della materia come principio astratto e ontologico ma solo una sua mediazione concreta da parte della prassi degli uomini. La negazione dell’ontologia è un punto centrale della lettura schmidtiana, che va a problematizzare la concezione di Engels e la sua volgarizzazione a opera del diamat (materialismo dialettico) di marca sovietica. Tuttavia, lo stesso Schmidt tiene a tracciare dei distinguo che valgono la pena d’esser rimarcati, ovvero è da tenere in considerazione che lo stesso Engels quando parla della materia lo fa sempre tenendo conto che la materia in sé è un’astrazione, e noi conosciamo solo la sua dimensione concreta. Noi conosciamo la materia e il movimento solo attraverso lo studio concreto dei singoli momenti. La materia, cioè, non è «sostanza “portatrice” di accidenti secondari, […] non è un principio di spiegazione del mondo»; e non lo è in primo luogo secondo lo stesso Engels, né nell’Anti-Dühring né nella Dialettica della natura[10] Schmidt, come del resto il Lukács di SCC, non vuole rigettare il materialismo dialettico in sé, ma risignificarlo su una base non-ontologica[11]. Schmidt pone in relazione il tentativo dei filosofi sovietici di smarcarsi da un materialismo dialettico fondato su una base ontologica con l’impossibilità di derivare una tale concezione se il principio individuato è quello della materia: tale presupposto non può che condurre, infatti, un esito ontologico e metafisico; solo «se con Marx si riconosce la realtà materiale come già mediata socialmente, si può evitare l’ontologia e si può dare veramente ragione dell’affermazione engelsiana che la materia in quanto tale è un’astrazione»[12].

A questo punto Schmidt sottolinea come nella concezione marxiana non sia presente un’idea teleologica rispetto alla storia, e come solo a partire da questo elemento sia possibile riformulare un materialismo dialettico non fondato sull’idea che la realtà sia sorretta da un principio unico. Qui si richiama Hegel e il suo punto di vista teleologico finito, dove vigono «scopi finiti di uomini finiti, condizionati nel tempo e nello spazio, di fronte ad ambiti determinati del mondo naturale e sociale»[13]. Come abbiamo visto anche per il Lukács dell’Ontologia dell’essere sociale la categoria dell’atto teleologico sarà centrale, in relazione alla prassi degli uomini, come atto posto dall’intenzionalità umana e differente rispetto alla causalità attinente al mondo naturale. Schmidt pone l’accento sul fatto che il materialismo marxiano non sia una lettura economicistica della società, quanto piuttosto una critica ad «un iniquo primato dell’economia, di questa astrazione nemica dell’uomo»[14]. Come sottotitola il Capitale stesso, il materialismo marxiano si configura come una critica dell’economia politica, perché in questa particolare configurazione dei rapporti sociali «il dominio sulla natura, se ingiustamente organizzato sul piano sociale, per quanto possa essere grande il suo sviluppo, mantiene gli uomini in balia della natura»[15]. Questa natura però non è la prima natura di Hegel, ossia un «cieco accadere, privo di concetto», ma una “seconda natura”: quella che Hegel voleva legata allo spirito oggettivo, ovvero a Stato, diritto, società ed economia[16]. La critica di Marx ci dice che questa “seconda natura” deve essere piuttosto pensata secondo i criteri che Hegel applicava alla prima, ovvero causalità e necessità: intesi, questi, non come dati naturali ma come prodotti sociali. Marx è convito che all’interno dei rapporti sociali capitalistici si riproduca quella ferrea necessità che Hegel riscontrava nella “prima natura”. E ciò in virtù del rapporto sociale che si presenta come una cosa, e che, come tale, soggioga gli individui alla base di tale rapporto. Si tratta di una inversione feticistica della logica tra soggetto e predicato.

La storia sociale e la storia naturale sono da Marx poste in relazione, in una celebre nota del Capitale dove si paragona la funzione della “tecnologia naturale” studiata da Darwin con la storia critica degli “organi produttivi dell’uomo sociale”: critica che è possibile realizzare solo a partire dallo studio dell’attuale formazione economico-sociale[17]. Partendo dal ragionamento marxiano, Schmidt vuole porre l’accento sul fatto che «la storia naturale e la storia umana costituiscono per Marx un’unità nella diversità, […] egli non risolve la storia umana in pura storia naturale né la storia naturale in storia umana»[18]. Un elemento di grande interesse nella lettura di Schmidt è la sottolineatura di come sia possibile conoscere il passato solo alla luce del presente, secondo l’adagio marxiano per il quale «l’anatomia dell’uomo è una chiave per l’anatomia della scimmia»[19]. La storia naturale è possibile «soltanto se si presuppone la storia umana fatta da soggetti coscienti, […] essa ne è il prolungamento all’indietro e viene conosciuta dagli uomini come natura non più accessibile per mezzo delle stesse categorie sociali»[20]. Inoltre, a partire da Darwin è possibile comprendere come «siano straordinariamente cariche di presupposti tutte le affermazioni sulla natura e la sua storia», visto che nel descrivere la natura egli stesso utilizza metafore sociali attraverso i filtri dell’economia politica – in particolare delle opere di Malthus – per spiegare alcuni meccanismi adattivi delle “popolazioni” di animali e piante[21]. Dal punto di vista epistemologico Schmidt si pone in discontinuità rispetto a Dilthey e lo storicismo tedesco, ed è bene ricordare che questi autori influenzarono profondamente il Lukács di SCC. Per Dilthey si danno infatti due metodi d’indagine separati per le scienze storiche e quelle naturali: la “spiegazione” (Erlklären) attiene alle scienze naturali e alla causalità, mentre la storia si basa sulla “comprensione” (Versthen). Seguendo alcune affermazioni giovanili di Marx, Schmidt auspica un unico metodo per le scienze della natura e della storia, indicando la prassi come «l’anello di congiunzione sempre più saldo tra due campi che appaiono separati», ovvero quelli della storia e della natura[22].

Tornando alla valutazione del pensiero di Engels, Schmidt tiene a rimarcare come gli esiti della riflessione engelsiana attinente al rapporto tra natura e storia ricadano in una «metafisica dogmatica»[23]: una metafisica che applica arbitrariamente categorie logiche di derivazione hegeliana, dove «la dialettica engelsiana della natura resta […] necessariamente un tipo di considerazione estraneo all’oggetto». E questo – continua Schmidt – «è particolarmente evidente quando Engels, per esempio, “applica” categorie hegeliane al concetto biologico di cellula, senza preoccuparsi minimamente dei loro presupposti idealistici»[24]. Ci pare interessante allora accostare questa critica di Schmidt a Engels a quella che Lukács svolgerà dell’Ontologia dell’essere sociale, dove viene imputata a Engels proprio una logicizzazione dell’essere attraverso un’arbitraria applicazione di categorie che non gli sono proprie, e che non sono derivate dalle realtà stessa ma a essa vengono – per così dire – “applicate” esternamente.

Nell’Anti-Dühring Engels formula alcune tesi chiave: materialità del mondo, forme fondamentali dell’essere materiale individuate nello spazio e nel tempo, la materia ha come solo modo d’essere quello del movimento. Le forme superiori dell’essere materiale sono derivate da quelle inferiori, ma le prime non possono però essere ridotte alle seconde; le forme del movimento sono qualitativamente diverse tra loro, ma sono manifestazioni dell’essere materiale, dove la dialettica gioca un ruolo centrale nello spiegare allo stesso tempo la natura e la società umana. Nell’altra opera di Engels, Dialettica della natura (per altro postuma e incompiuta), vengono individuate tre leggi dialettiche fondamentali che attingono alla materia: rovesciamento della quantità in qualità, compenetrazione degli opposti, legge della negazione della negazione. A differenza degli epigoni sovietici e del loro materialismo dialettico, in Engels – per Schmidt – non è presente una prescrizione «agli scienziati della dialettica come metodo diretto d’indagine»[25]. Piuttosto – continua Schmidt – «egli aveva in mente un’elaborazione enciclopedica delle moderne scienze della natura», sul modello degli enciclopedisti francesi e di Hegel[26]. Il punto secondo Schmidt è che, diversamente da quello utilizzato da Engels, il metodo adottato da Marx si basa sulla differenza tra il metodo d’indagine e quello d’esposizione[27]: nell’indagine vengono fatti propri i risultati delle scienze particolari (tra cui quelle naturali) e nell’esposizione sono sintetizzati ed esposti logicamente; mentre nell’indagine sul mondo naturale senza mediazione storica «la natura svincolata da ogni prassi umana, resta in ultima analisi estranea alla natura medesima»[28]. Schmidt rimprovera a Engels tanto un mancato riconoscimento dell’intreccio tra uomo e natura attraverso la prassi storica, e quanto un’idea di antropologia legata ad uno sviluppo naturalistico in cui manca il riconoscimento del ruolo mediatore della prassi: dove natura e storia sono saldamente intrecciate tra loro, per Engels invece diventano «due diversi “campi d’applicazione” del metodo dialettico materialista»[29]. E «i momenti della dialettica vengono svincolati dai contenuti storici concreti e ipostatizzati nelle “tre leggi fondamentali”. […] La dialettica diventa così […] una concezione dell’universo, un principio positivo del mondo»[30].

La derivazione engelsiana del materialismo dialettico parte dalla materia e dal suo movimento, immaginandoli però separati dalla prassi umana che sola, secondo Schmidt, pone le basi per la conoscenza della natura. È questo è il presupposto per una dialettica puramente oggettiva, dove manca quell’elemento fondamentale che permette la conoscenza della materia stessa ovvero la prassi umana. La dialettica engelsiana, seguendo il Lukács di SCC, qui esplicitamente richiamato da Schmidt[31], attinente alla natura e non ha a che fare con la dialettica che attiene alla mediazione sociale della natura ma è meccanicistica e oggettivistica, e non c’entra con l’elaborazione dialettica di Marx, al quale Engels cerca d’integrare un elemento di dialettica oggettiva di cui però Marx non ha bisogno, in quanto in egli a sua volta elabora “una dialettica della natura” ma come mediazione di natura e società, dove non si dà la prima senza la seconda. Per la dialettica immaginata da Marx l’uomo è un ente naturale attivo che produce attraverso il lavoro e «la natura […] è il soggetto-oggetto del lavoro: […] la sua dialettica consiste in questo, che gli uomini mutano la loro natura col sottrarre alla natura esterna la sua estraneità […], mediandola con sé stessi, indirizzandola verso i loro scopi»[32].

A questo punto Schmidt vuole mettere in luce che il concetto di materia, così come viene concepito da Lenin e da Engels, non è scosso dalle scoperte della fisica quantistica del primo Novecento e dalla loro messa in discussione della meccanica classica. Infatti, secondo il materialismo dialettico elaborato da Schmidt (in senso non dogmatico né ontologico), la materia non è definita filosoficamente una volta per tutte: questo è il compito della scienza all’interno dello sviluppo delle forze produttive e della complessità dell’evoluzione dei rapporti sociali di produzione. La scienza ci dice cioè che la materia come tale esiste fuori di noi e da noi viene appropriata socialmente all’interno del ricambio organico tra uomo e natura. L’essere umano si oggettiva nel lavoro, ma non è lui a porre l’oggettività naturale: lo ha evidenziato lo stesso Marx nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 e anche il Lukács autocritico rispetto a SCC. Schmidt vuole sottolineare come per Marx «il lavoro […] è solo espressione di una forza naturale, presuppone sempre un sostrato che non si risolve in lavoro»[33]. Questo sostrato naturale è un prius che Marx considerato nel Capitale trattando il duplice carattere della merce e del lavoro in essa contenuto. La merce in quanto “cellula” della società borghese «riflette in sé il rapporto tra natura e processo storico […], contiene la natura come “essere in sè” e come “essere per altro”»[34]. Per Marx il valore è qualcosa di puramente sociale, una cosa “soprannaturale”, mentre il valore d’uso è una proprietà puramente naturale, in cui il materiale naturale è filtrato dal lavoro umano, orientato verso uno scopo teleologico. Questo duplice lato del lavoro contenuto in una merce (astratto e concreto) non è però empiricamente scindibile, in quanto i due momenti sono contenuti dialetticamente in una stessa merce. Quindi si tratta per Schmidt di spiegare «la concreta dialettica di immediatezza e mediatezza dell’essere materiale, nella sua forma di volta in volta esistente»[35]. All’interno dei rapporti sociali capitalistici domina la forma feticistica, caratterizzata dall’inversione tra qualità naturali e sociali: «la determinatezza naturale della merce appare come sociale, e quella sociale come naturale»[36]. Il punto del ragionamento marxiano attiene al fatto che i rapporti sociali sono cosificati nella forma-merce, ma avvengono in base a presupposti naturali. L’elemento feticistico riguarda l’inversione tra qualità naturali e sociali nella forma mistificata dell’oggettualità spettrale prodotta dalle relazioni sociali capitalistiche. Lo stesso si dica per il lavoro contenuto nella merce: nel capitalismo è il lato astratto del lavoro (come forma specifica del lavoro di questo modo di produzione) a dominare quello concreto. Però è sempre presupposto «un sostrato naturale irriducibile a determinazioni sociali umane […] e tutti i rapporti sociali sono mediati da cose naturali e viceversa […], sono sempre rapporti degli uomini “tra loro e con la natura”»[37].

Qui Schmidt richiama un lungo brano di SCC, dove Lukács affermava che “la natura è una categoria sociale” [38]. Per lui Lukács cade in una forma di soggettivismo, in cui l’elemento sociale e i modi di appropriazione storici della natura vengono risolti in sé stessi e il lato della soggettività umana svolge il ruolo di plasmatore della realtà oggettiva. Se è vero che i modi storici e sociali sono condizione di conoscenza della natura, per cui «la natura è categoria sociale, è vero anche l’inverso, che la società è una categoria naturale»[39]. Per Schmidt cioè la natura e le leggi naturali esistono indipendentemente dall’uomo, ma l’enunciazione della natura attraverso l’uso di metafore sociali (si ricordi il caso di Darwin) è condizione per la conoscenza della natura stessa da parte dell’uomo. Il mondo materiale non è un prodotto dell’uomo che invece lo “filtra” attraverso il lavoro, conoscendo tramite la prassi le leggi proprie della natura, per trasformarla quest’ultima attraverso la sua conoscenza. L’oggettività naturale non si sopprime, come erroneamente credeva il Lukács di SCC (che non mancherà peraltro di auto-criticarsi nella prefazione del 1967 già analizzata). La soppressione avviene sul terreno del carattere sociale estraniato di tale oggettività, propria del modo di produzione capitalistico. Se il giovane Marx aveva seguito la critica di Bruno Bauer e dei giovani hegeliani al maestro di Stoccarda, lo stesso Hegel secondo Schmidt era lontano da tale impostazione “immaterialista” e “soggettivistica”[40].

Per Schmidt Marx segue l’adagio di Francesco Bacone secondo il quale la natura può essere dominata solo se ci si sottomette alle sue leggi (“nature is only subdued by submission”). La natura non è risolvibile, come voleva il Lukács di SCC, nelle forme dall’appropriazione umana ma essa può essere mediata socialmente solo a partire dalla conoscenza delle leggi sue proprie. La dialettica marxiana attiene al fatto che «le forme di movimento della materia possono venir riconosciute e applicate in modo funzionale agli uomini attraverso la prassi mediatrice»[41]. Il materialismo è tale perché riconosce l’esistenza di leggi naturali che sono fuori dall’uomo, mentre adottare un procedimento dialettico, significa sottintendere che «gli uomini possono rendersi conto di queste legalità soltanto attraverso le forme dei processi lavorativi»[42]. La storia naturale è presupposto della storia sociale, per la quale gli “organi produttivo dell’uomo” sono un prolungamento sociale delle basi naturali, a partire dai più semplici strumenti di produzione fino alle più complesse opere dell’ingegneria umana. Il fine di queste opere è solo quello posto dagli uomini all’interno della produzione: la società è dominata dalla teleologia propria dell’uomo che presuppone come base irriducibile il mondo della natura. Il mezzo di lavoro proprio dell’uomo è frapposto fra sé stesso e l’oggetto del lavoro, questo medio tecnologico è il mezzo con cui l’uomo congiunge sé stesso con la natura e la modifica in un processo dialettico.

Nell’ultima sezione del Concetto di natura in Marx, Schmidt elabora alcuni temi della sua critica all’ontologia, che, come abbiamo visto, ha sempre come scopo la fondazione di un materialismo dialettico su basi differenti rispetto al diamat: basi non dogmatiche e non ontologiche. Il contributo di Engels è criticato ma alcuni suoi motivi vengono salvati, in particolare la considerazione della materia naturale come qualcosa che in primo luogo si caratterizza come esterna all’uomo. In sostanza, per Schmidt, «Marx non è un ontologo»[43]. Piuttosto egli si fa portatore di “un’ontologia negativa” (come sottotitola il paragrafo 2.2 del testo preso in esame). Se è vero che il ricambio organico tra uomo e natura è descrivibile a partire dal nesso tra un soggetto, un oggetto e un mezzo di lavoro, noi conosciamo solo le forme concrete con cui questo nesso sociale si manifesta nei vari modi di produzione. Ciò che rimane è la necessità di mediazione tra uomo e natura, che è trans-storica. Persino nel comunismo «la necessità, secondo Marx, sarà dominata e gli uomini si troveranno a lottare con la natura materiale e non più tra loro, […] questa lotta significherà che l’umanità senza classi avrà di fronte a sé qualcosa di non identico a lei, […] si può quindi parlare in qualche modo di un’ontologia sia pure negativa»[44].

Se il ricambio organico è secondo Marx “una necessità eterna”, anche nel comunismo si dimostra il carattere finito dell’uomo come ente naturale. Secondo Schmidt «Marx concilia tra loro libertà e necessità sulla base della necessità»[45]. L’influenza esercitata su Schmidt dai temi psicoanalitici (importante il ruolo di Adorno e Horkeimer) è qui evidente, quando il pensiero Marx viene associato a quello di Freud (con un richiamo a Schopenauer). Il “principio di realtà” è messo in relazione al carattere finito dell’uomo; gli uomini come soggetti storici – scrive Schmidt – «si distaccano dalla natura, devono, per riprodurre la propria vita, contrastare la natura, lavorarla, negarla: e ciò significa, in tutte le forme di società, rinuncia agli istinti e loro negazione»[46]. Va detto che il tono di Schmidt in quest’ultima parte è contrassegnato da un forte realismo e da toni apertamente pessimistici sul finale del testo[47]. Lucio Colletti aveva individuato in questo “cedimento” pessimistico la parte più debole della riflessione di Schmidt, a suo avviso troppo debitrice verso i maestri francofortesi[48].

 

4. Conclusione. La critica ad Engels tra Schmidt e Lukács

Come abbiamo visto è presente sia in Lukács che in Schmidt un tentativo di risignificare il materialismo dialettico su base non-ontologica. Nel caso di Lukács questo sviluppo condurrà all’elaborazione di un’ontologia dell’essere sociale, in radicale rottura rispetto a Engels. Per quanto riguarda Schmidt ciò porterà invece all’elaborazione di un’ontologia negativa, in si riconosce un limite naturale all’agire sociale. A partire dalla categoria hegeliana del punto di vista teleologico finito, l’atto teleologico è centrale in Schmidt e ci parla dell’agire dell’uomo sociale come un agire legato a fini immanenti iscritti nella dinamica storica: una dinamica in cui l’umanità si pone marxianamente solo i problemi che è in grado di risolvere. Per il tardo Lukács dell’Ontologia, l’atto teleologico è fondamento dell’agire sociale ed è identificato con il lavoro come mediazione e ricambio organico tra uomo e natura. Sempre nell’Ontologia viene criticata la prospettiva engelsiana per cui l’essere viene logicizzato e le categorie di matrice hegeliana vengono applicate all’oggetto dall’esterno: si tratta di una dialettica logica, e non ontologica, che nega la derivazione dell’astratto dal concreto. Una riflessione molto simile è svolta da Schmidt, per il quale l’applicazione engelsiana di categorie logiche hegeliane alla realtà conduce a un esito dogmatico e metafisico. Inoltre, per Schmidt la dialettica engelsiana è una dialettica presociale, oggettiva e naturalistica in cui manca l’elemento della mediazione sociale, sola vera custode della dialettica come intreccio tra elemento soggettivo e oggettivo nella prassi umana. E solo la dialettica, secondo l’autore, è capace di farci conoscere la natura. Questa riflessione deve molto al Lukács di SCC, in cui si sottolineava come la dialettica appartenesse intimamente al mondo sociale e non a quello naturale. Schmidt è però critico dell’impostazione di SCC sul versante del rapporto tra oggettivazione ed alienazione. In questo senso, anticipa un elemento fondamentale della stessa autocritica lukácsiana del 1967. Se per Schmidt l’oggettività naturale è un prius che viene mediato socialmente, la natura è sì una categoria sociale – come voleva Lukács – ma anche la società è una categoria naturale: i modi dell’appropriazione sociale non risolvono mai la natura nella società; l’oggettività non è posta dall’uomo, che la filtra nei modi e nelle forme della produzione.

Ci pare che entrambi gli autori sviluppino quindi una critica a Engels, a partire dalla sua mancata comprensione della dialettica. Come è stato messo recentemente in luce, la differenza tra la concezione della dialettica di Engels e quella di Marx è significativa[49]. A partire dalla valutazione che Marx stesso ne fa nel proscritto alla seconda edizione del primo libro del Capitale, non si tratta di applicare la dialettica hegeliana tout court al mondo sociale e a quello naturale, ma piuttosto di rovesciarla. Come sottolineava Lucio Colletti, criticando Engels, non si tratta cioè semplicemente «di “applicare” la dialettica di Hegel alle cose […], ma di vedere come la materia, le cose, entrino a strutturare la nuova dialettica»: di comprendere cioè come essa «si configuri, una volta che non sia più dialettica di puri pensieri»[50].


Note parte I:
[1] La raccolta fu mandata alle stampe tra la fine del 1922 (la prima prefazione è datata “Vienna, Natale 1922”) e l’inizio del 1923. Alcuni dei saggi erano apparsi originariamente sulla rivista “Kommunismus” pubblicata a Vienna, quelli scritti appositamente per la raccolta furono: La reificazione e la coscienza di classe del proletariato e Considerazioni metodologiche sul problema dell’organizzazione. Dopo il fallimento della repubblica dei consigli e l’instaurazione del governo reazionario di Miklòs Horty, Lukács ed altri esuli ungheresi si trovarono a Vienna in esilio. Lì esprimevano posizioni riconducibili alla tendenza dell’ala sinistra della terza internazionale. Per i dettagli si veda l’Introduzione del 1922 alla prima edizione e la celebre Prefazione del 1967, dove Lukács conduce un’autocritica molto pronunciata a Storia e Coscienza di Classe. La nostra edizione di rifermento è György Lukács, Storia e coscienza di classe, PGRECO, Milano, 2022, dove sono contenute sia l’Introduzione che la Prefazione. In questo lavoro evidenzieremo i mutamenti del pensiero di Lukács, a cui Storia e coscienza di classe divenne “estraneo”, come lo erano divenute le opere cosiddette “giovanili” (Teoria del romanzo, L’anima e le forme) durante la stesura di SCC (d’ora in poi così citato nel testo). Nel 1930 Lukács ebbe modo di collaborare con L’istituto Marx-Engels di Mosca e leggere i Manoscritti economico-filosofici di Marx. In seguito a ciò gli divenne chiara la differenza tra estraniazione (Entfremdung) e oggettivazione (Vergegenständlichung): differenza che lo portò ad un profondo ripensamento della sua opera. Su questo punto torneremo in seguito, ma si veda ancora la Prefazione del 1967.
[2] G. Lukács, Storia e coscienza di classe, op. cit., p. 3.
[3] Ivi. p. 4.
[4] Ibidem.
[5] Ivi, p. 5.
[6] Ivi, p. 6.
[7] Ibidem.
[8] F. Engels, Ludwig Feuerbach und der Ausgang der klassischen deutschen Philosophi, citato in ivi, p. 172.
[9] Sono categorie della Fenomenologia dello Spirito di Hegel. Ivi, p. 173.
[10] «Delle persone qui si tratta solo in quanto personificazioni di categorie economiche, esponenti di determinati rapporti e interessi di classe». K. Marx, Il capitale, Libro I, Prefazione alla prima edizione tedesca, Utet, Torino, 2009, p. 76.
[11] G. Lukács, Storia e coscienza di classe, op. cit., p. 175.
[12] Ivi, p. 7.
[13] Vedi la nota 10, sempre Ivi, p. 11.
[14] Ibidem.
[15] Ivi, p. 14.
[16] Ivi, p. 15.
[17] Ivi, p. 17.
[18] Ivi, p. 18.
[19] Ivi, p. 19.
[20] Ivi, pp. 107-109.
[21] Ivi, p. 25. Lukács, nonostante l’intento polemico con Engels, mantenne comunque l’accostamento trai i due pensatori e la definizione di marxismo come materialismo dialettico. Sappiamo che il materialismo dialettico si configurerà in un modo molto differente rispetto al punto di vista lukácsiano.
[22] G. Lukács, Storia e coscienza di classe, op. cit., p. 27.
[23] Ibidem. Va notato che questa è una tesi centrale del testo Il concetto di natura in Marx di Alfred Schmidt: una tesi che fu criticata da Lucio Colletti nella prefazione italiana al testo.
[24] Ivi, p. 291
[25] G. Lukács, Storia e coscienza di classe, op. cit., p. 28.
[26] Ci pare che Lukács in questo testo li usi come sinonimi. La direzione di tale dibattito è complessa e approfondita, per un breve riassunto vedi R. Fineschi, Marx, Editrice Morcelliana, Brescia, 2021, pp. 116-119.
[27] G. Lukács, Storia e coscienza di classe, op. cit., p. 31.
[28] Questa prefazione non è stata sufficientemente analizzata dalla critica.
[29] Va ricordato che a partire dal 1960 l’autore stava elaborando a sua volta l’idea del marxismo come ontologia, ma su presupposti molto diversi rispetto a quelli di Engels. Si trattava infatti di un’ontologia dell’essere sociale sulla quale torneremo.
[30] G.Lukács, Prefazione del 1967, in Id., Storia e coscienza di classe, op. cit., p. LXX.
[31] Ivi, p. LXXI.
[32] Ivi, p. XCIV.
[33] Ivi, p. LXXII.
[34] Ivi, pp. LXXII -LXXIX.
[35] Ivi, p. LXXVIII. Vedi le annotazioni dello stesso Lukács.
[36] Ivi, p. LXXIX.
[37] Ivi, p. LXXX.
[38] Ibidem.
[39] Anche qui l’autore ha parole di feroce autocritica, definendo la sua vecchia idea di coscienza di classe come un che “dattribuito di diritto” al proletariato e non a un lavoro politico d’avanguardie, come sosteneva Lenin, secondo la tesi per la quale la coscienza di classe viene sempre dall’alto, dall’esterno dei rapporti antagonistici tra capitale e lavoro. Lukács considerava la sua vecchia posizione come idealistica e “miracolosa”. Cfr. ivi, p. LXXIII.
[40] Va ricordato che l’impostazione della questione da parte di Lukács prende di mira quelle interpretazioni che immaginavo la teoria del riflesso di matrice leniniana come qualcosa di “fotografico” e puramente gnoseologico, difatti come ricordato in questa prefazione «la praxis può soddisfare la teoria ed esserne il criterio solo perché alla sua base si trova, ontologicamente, come presupposto reale, di qualsiasi posizione teologica reale, un rispecchiamento che si ritiene corretto nella realtà» Ivi, pp. LXXX-LXXXI. Confrontiamo qui due citazioni, la prima di Engels dal Ludovico Feuerbach «il mondo non deve essere concepito come un complesso di cose compiute ma come un complesso di processi» la seconda, come un’ideale risposta, di Lukács stesso «se non vi sono cose che cosa viene riflesso nel pensiero?». Crediamo che tale dibattito sia molto significativo anche nei riguardi dello sviluppo della fisica contemporanea, con le dovute differenze, sul piano di metodo, e di divisione disciplinare del lavoro, ci pare avvicinarsi alla posta in gioco nel dibattito tra Heisenberg ed Einstein sul realismo scientifico, in relazione alle implicazioni epistemologiche della fisica quantistica. Per alcuni aspetti di questo dibattito con riferimento al marxismo vedi C. Rovelli, Helgoland, Adelphi, Milano, 2020, pp. 125-156.
[41] G. Lukács, Prefazione del 1967, in Id., Storia e coscienza di classe, PGRECO, Milano, 2022, p. LXXIV.
[42] Ivi, p. LXXV.
[43] G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, Volume I – Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale, PGRECO EDIZIONI, Milano, 2012, p. 4.
[44] Ivi, p. 11.
[45] Ivi, p. 10.
[46] Per Lukács, Hegel «intende il processo di questa genesi per sua natura come una deduzione logica del concreto dall’astratto, finisce per non vedere le vere categorie evolutive dell’essere processuale, per mettere quindi lo sviluppo sulla testa e per interpretare la deduzione logica del concreto dall’astratto – deduzione che si verifica sempre post festum – come il processo vero e proprio». Ivi, pp. 128-129.
[47] Nel poscritto alla seconda edizione tedesca del Capitale, Marx scriveva: «il mio metodo dialettico non è soltanto diverso da quello hegeliano, ma ne è l’antitesi diretta. Per Hegel, il processo del pensiero, che egli trasforma addirittura in un soggetto indipendente sotto il nome di Idea, è il demiurgo del reale, che costituisce soltanto la sua apparenza fenomenica o esterna. Per me, viceversa, l’Ideale non è che il materiale, convertito e tradotto nella testa dell’uomo». K. Marx, Il capitale, Libro I, op. cit. p. 87. Per una ricostruzione complessiva della questione si rinvia a R. Fineschi, Marx e Hegel. Contributi a una rilettura, Carocci, Roma, 2006.
[48] G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, Volume I – Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale, op. cit., p. 121.
[49] Ivi, p. 132.
[50] Ivi, p. 142.
[51] F. Engels, Anti-Dühring, citato in Ivi, p. 130.
[52] G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, Volume I – Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale, op. cit., p. 130.
[53] Ivi, p. 142.

Note parte II:
[1] Per una ricostruzione della vicenda di questo testo si veda R. Bellofiore, Materialismo, dialettica e prassi emancipatrice: l’attualità inattuale di Alfred Schmidt, in A. Schmidt, Il concetto di natura in Marx, Punto Rosso, Milano, 2017.
[2] A. Schmidt, Il concetto di natura in Marx, Punto Rosso, Milano, 2017, p. 69.
[3] Ivi, p. 70.
[4] Ivi, p. 81.
[5] Ivi, p. 82.
[6] Ivi, p. 83.
[7] Ivi, p. 84.
[8] Ivi, p. 90.
[9] Ibidem.
[10] Ivi, p. 91.
[11] Questo è evidente dalla nota 122 del Concetto di natura in Marx, dove Schmidt fa riferimento a Götz Redlow e George L. Kline, per argomentare come in Urss il carattere del materialismo dialettico abbia conosciuto una prima fase ontologica legata all’influenza del filosofo Deborin per poi orientarsi, dopo lo stalinismo, verso una variante ontologico-realista, vicina alle posizioni di N. Hartmann, che è una delle influenze filosofiche maggiori per il Lukács dell’Ontologia dell’essere sociale. Cfr. Ivi, pp. 91-92.
[12] Ivi, p. 92.
[13] Ivi, p. 93.
[14] Ivi, p. 99.
[15] Ivi, p. 100.
[16] Ibidem.
[17] Ecco il contenuto della nota: «Darwin ha richiamato l’interesse sulla storia della tecnologia naturale cioè sulla formazione degli organi della pianta e dell’animale come strumenti di produzione della loro vita: non merita forse uguale attenzione la storia degli organi produttivi dell’uomo sociale, che costituiscono la base materiale di qualunque organizzazione della società? E non sarebbe più facile ricostruirla dal momento che, come dice Vico, la storia umana si distingue dalla storia naturale perché noi non abbiamo fatto la seconda e abbiamo fatto la prima? La tecnologia svela il comportamento attivo dell’uomo nei confronti della natura, il processo di produzione immediato della sua vita e, quindi, anche dei suoi rapporti sociali e delle idee che ne provengono.» K. Marx, Il capitale, Libro I, op. cit. pp. 502-503.
[18] A. Schmidt, Il concetto di natura in Marx, op. cit., p. 104.
[19] K. Marx, Introduzione alla critica dell’economia politica, Quodlibet, Macerata, 2010, p. 41.
[20] A. Schmidt, Il concetto di natura in Marx, op. cit., p. 105.
[21] Ibidem. Sul punto mi permetto di rinviare al mio articolo F. Bugli, La natura come categoria sociale e la società come categoria naturale. Note su Marx e Darwin in Sulla guerra, in “Altraparola”, 8, 2022, pp. 159-168.
[22] A. Schmidt, Il concetto di natura in Marx, op. cit., p. 109. «La scienza della natura sussumerà in futuro sotto di sé la scienza dell’uomo, così come la scienza dell’uomo la scienza della natura: non ci sarà che una scienza» K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Feltrinelli, Milano, 2018, p. 78.
[23] Ivi, p. 110.
[24] Ivi, p. 112.
[25] Ivi, p. 115.
[26] Ibidem.
[27] Per un approfondimento si rinvia sempre a R. Bellofiore, Materialismo, dialettica e prassi emancipatrice: l’attualità inattuale di Alfred Schmidt, in A. Schmidt, Il concetto di natura in Marx, Punto Rosso, Milano, 2017.
[28] Ivi, p. 116.
[29] Ivi, p. 118.
[30] Ibidem.
[31] Cfr. Ivi, p. 122.
[32] Ivi, p. 124.
[33] Ivi, p. 127.
[34] Ivi, pp. 127-128.
[35] Ivi, p. 130.
[36] Ivi, p. 131.
[37] Ivi, p. 132.
[38] Cfr. G. Lukács, Storia e coscienza di classe, op. cit., p. 291.
[39] A. Schmidt, Il concetto di natura in Marx,op. cit., p. 131.
[40] Schmidt osserva giustamente che la critica di Bauer è fuori fuoco rispetto ad Hegel. In questa critica, infatti, lo spirito è ridotto a un’autocoscienza di sapore fichtiano e schellinghiano piuttosto che hegeliano. Lo stesso Lukács aveva individuato i limiti di tale lettura di Hegel nella prefazione del 1967 a SCC. Trovo utile riportare una citazione dello stesso Schmidt: «anche Marx nella sua polemica mette talvolta in uno stesso mazzo l’idealismo hegeliano con quello dei giovani hegeliani, egli però è consapevole della differenza essenziale fra idealismo oggettivo e i vari tipi d’idealismo soggettivo.» Nota 270, Ivi, p. 134. Per una ricostruzione della lettura marxiana di Hegel e del suo rapporto con quella dei giovani hegeliani vedi R. Fineschi, Marx e Hegel. Contributi a una rilettura, Carocci, Roma, 2006, la valutazione di Fineschi è meno ottimistica sulla contezza della lettura marxiana di Hegel rispetto a Schmidt.
[41] A. Schmidt, Il concetto di natura in Marx, op. cit., p. 164.
[42] Ivi, p. 165.
[43] Ivi, p. 150.
[44] Ivi, p. 152.
[45] Ivi, p. 209.
[46] Ivi, p. 213.
[47] Secondo Schmidt lo sviluppo delle forze produttive (nell’era atomica) rischia di portare verso «il disastro totale: quasi una atroce parodia del mutamento pensato da Marx, in quanto soggetto e oggetto vengono non conciliati ma distrutti». Ivi, p. 242.
[48] «La nostra impressione, a parlar franco, è che Schmidt sia assai più positivo e concreto dei suoi maestri; e che, nel corso dei suoi pensieri, essi abbiano inciso assai poco, salvo forse che in alcune delle pagine meno felici del capitolo quarto» L. Colletti, Introduzione, in Ivi, p. 62.
[49] Vedi G. Sgrò, Friedrich Engels e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca, Orthotes, Napoli-Salerno, 2017.
[50] L. Coletti, Il Marxismo ed Hegel, Laterza, Bari, 1969, p. 100.

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