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Perché ancora l'operaismo

Mario Tronti

Alcune parole per rispondere alla domanda: perché ancora l’operaismo, malgrado ormai la palese assenza delle condizioni che l’hanno originato e prodotto? Tali condizioni si possono sommariamente riassumere nel neo-capitalismo grande-industriale, oggi deceduto, con cui per la prima volta ci si confrontava in Italia, nella fase fordista, anch’essa archiviata; in un ciclo di lotte operaie che hanno investito il paese nei primi anni Sessanta, con al centro la figura dell’operaio-massa, memoria rimossa e dimenticata. Credo che oggi il passaggio – ormai avvenuto – dalla centralità alla marginalità non riguarda solo gli operai. Questo passaggio riguarda anche il capitale. Nel senso proprio del Das Kapital marxiano, come lo intendeva Marx ma anche come lo intendevamo noi: il capitale cosiddetto sociale, o il piano del capitale, come si diceva nei «Quaderni rossi». Come gli operai, così anche questa forma di capitale è diventata da centrale a marginale.

La lotta era lotta di classe tra due centralità: ognuna aveva il proprio campo e il proprio blocco sociale, ognuna era centrale nella propria parte. Erano appunto campi socialmente omogenei, proprio perché avevano questa forza centrale che li unificava e concentrava.

 

È fatto noto, anche se non conosciuto, questo qui: che non c’è classe senza lotta di classe, poiché la classe non è una pura aggregazione sociologica; le classi sono potenzialmente potenze politiche. Questo lo aveva già individuato Marx. Le classi hanno bisogno l’una dell’altra, non stanno mai in sé. Diventano classi, diceva Marx, quando diventano per sé, quando diventano classe per la classe che sta contro di sé. E quindi si devono elevare, sosteneva Marx, a coscienza di classe. Lenin diceva che si devono fare organizzazione. E in questa lotta tra le classi, scatta l’hegeliana dialettica del riconoscimento, e il conseguente rapporto reciproco, nel senso che una classe, trovandosi di fronte al proprio avversario di classe, riconosce anche se stessa, acquista coscienza di sé.

Questa non era la dialettica en géneral, che noi chiamavamo così perché critici di essa; ma è la specifica dialettica hegeliana del servo-signore, in cui ognuno ha bisogno dell’altro, e non si sa chi è il servo e chi è il signore perché man mano – a seconda dei rapporti di forza – l’uno diventa servo e l’altro signore. Quando si dice che la lotta di classe è finita, diciamo più specificamente che è finita la lotta di classe in senso marxiano, che era il senso operaista vero e proprio. Se rinascerà altrove, per esempio fuori dall’Occidente e nei grandi processi di industrializzazione del mondo, questo non lo sappiamo. Anche perché non sappiamo se materialmente si ricostituiranno le condizioni dell’industrializzazione e di una crescita, oltre che quantitativa, anche qualitativa, del lavoro operaio. Il che presuppone forme di organizzazione e livelli di coscienza. Non siamo dunque sicuri che si ricostituisca quella dialettica alternativa di riconoscimento reciproco tra le classi che, per come l’abbiamo conosciuta, portava al rapporto tra operai e capitale.

Nelle nuove condizioni, che cosa resta dell’operaismo? È una domanda, questa, che dobbiamo farci, per comprendere il ritorno di interesse, che coinvolge, a livello di minoranze intellettuali di giovani generazioni, ormai anche reperti archeologici come Operai e capitale. Resta anzitutto il punto di vista. Un punto di vista parziale, unilaterale, anti-universale. L’idea-forza dentro l’operaismo è che soltanto dal punto di vista di parte si può conoscere il tutto. Perché la conoscenza che il tutto si propone di se stesso è sempre falsa e ideologica. Essa porta sempre a una falsa apparenza. L’unica conoscenza vera e realistica è quella che una parte può fare della totalità. Perché questa non è una semplice conoscenza: è anche una contrapposizione. Soltanto dal punto di vista di parte ci si può contrapporre al tutto, organizzare contro il tutto una postazione alternativa. Se ci si vuole contrapporre al tutto rivendicando la totalità, da qui non scaturirà mai una forza alternativa. Contrapporre un interesse universale a un altro universale non porta nessuna conseguenza di rottura della realtà, per un processo di negazione/superamento. Ciò che resta è dunque questa istanza critica e decostruttiva della realtà: decostruttiva, non distruttiva di tutto ciò che è. Qui bisogna dire che l’emergenza operaista viveva, nel clima generale degli anni Sessanta, una fase fortemente contestativa dell’ordine delle cose. Anche se poi, in un certo qual modo, le istanze operaiste hanno piegato questa generica istanza contestativa in qualcosa di più preciso, profondo e radicale, con degli attori specifici, con dei soggetti storicamente determinati.

Dell’operaismo resta, in secondo luogo, il nesso tra teoria e pratica. Una volta forse si sarebbe detto il nesso tra pensiero e azione. Operai e capitale ha come obiettivo di indicare le linee di scardinamento della realtà. Anche questo è un nesso profondamente marxiano. Il pensiero non serve per produrre altro pensiero, ma per produrre azione. E azione conflittuale. L’operaismo è una politica del conflitto e della differenza. Forse una delle ragioni della riemergenza di interesse per l’operaismo è proprio il bisogno di conflitti che continua a esistere dentro la forma di società occidentale e dentro i suoi sistemi politici, fondamentalmente divisi, gli uni e dagli altri, ma come dentro a una gabbia, da cui, secondo il detto comune, non si può e non si deve uscire. I livelli di potere che si scambiano nella formalizzazione delle alternative politiche sono infatti abilitati, costituiti, al fine di coprire e mascherare il conflitto, almeno quello vero, suscitando magari conflitti falsi. Sono però soprattutto politiche di mediazione. L’operaismo, al contrario, è una politica del conflitto: questo spiega perché rimane una sorta di limbo nelle esperienze di movimento. C’è una mitologia dell’operaismo in tutte le esperienze di movimento contestativo, in quelle esperienze in cui viene individuata in modo forte l’esigenza di riproporre la pratica del conflitto. Il terzo motivo di permanenza dell’operaismo è il suo anti-riformismo. Nel senso comune, politico-intellettuale, oggi invadente e totalizzante, in cui tutti sono riformisti, in questa generale norma, o normalità, riformista, l’operaismo, cioè la politica del conflitto operaista, risulta una sorta di eccezione, di eccedenza, qualche cosa di non integrabile né assimilabile. L’operaismo fa parte, a pieno titolo, della tradizione rivoluzionaria del movimento operaio, con caratteristiche specifiche, anche qui in condizioni determinate, espressione della volontà politica, non estremistica, non minoritaria, se volete, con qualche punta di ingenuità e qualche eccesso, non di astrattezza, come si dice, piuttosto di illusione sulle possibilità effettive, volontà politica comunque di riproporre il grande tema della rivoluzione in Occidente.

L’operaismo dobbiamo concepirlo e declinarlo come evento del Novecento. Il contesto vero è quello. Quella è l’epoca. Più che gli anni Sessanta, che sono piuttosto la causa occasionale che fa sorgere questa esperienza e forma di pensiero, la causa strategica che produce l’operaismo è il grande Novecento. L’operaismo deve essere letto in questo senso, e non a caso è stato meno effimero del sessantottismo. In questo l’operaismo è simile al femminismo, perché ha indicato una sorta di forma mentis radicale rivoluzionaria. Questo viene verificato compiutamente dalle produzioni culturali che queste insorgenze hanno prodotto. Il Sessantotto ha prodotto una élites che facilmente è stata integrata in un processo di generale modernizzazione di sistema, si è sostanzialmente rovesciato in un ricambio di classi dirigenti dentro un identico segno del potere. Sia l’operaismo che il femminismo, come rivoluzioni culturali, invece, hanno prodotto élites che non hanno subìto questa assimilazione. Quindi, è da tenere fermo questo punto: l’operaismo come cultura del Novecento, pratica del Novecento, politica del Novecento.

Mi capita di ripetere spesso che nel Novecento ci sono state due rivoluzioni: una è la rivoluzione operaia, l’altra è la rivoluzione conservatrice. Due forme di rivoluzione su campi opposti che hanno prodotto una vera e propria epoca rivoluzionaria, dentro l’età delle guerre civili europee, indipendentemente dal fatto che l’una e l’altra di queste rivoluzioni abbiano poi prodotto l’inverso e l’opposto di sé. Ma la rivoluzione conservatrice non è responsabile delle forme del totalitarismo politico, la rivoluzione operaia non lo è delle forme di realizzazione del socialismo. Anzi, perseguire la logica dei due processi rivoluzionari sarebbe stato forse l’unico modo per evitare gli esiti contraddittori. In realtà, questa eterogenesi dei fini non è una eccezione, quanto piuttosto una ricorrenza della storia, quasi una regolarità della politica. Quando i grandi progetti si rovesciano nel proprio opposto, ciò non annulla mai la causa del progetto. Ed è sempre un errore giudicare il progetto dall’esito in cui poi si è realizzato. Bisogna salvare l’idea del progetto in sé. L’operaismo si è posto sulla linea di confine tra il progetto rivoluzionario e il fallimento della sua realizzazione. Proprio nel momento in cui l’operaismo emergeva, si verificava il fallimento della rivoluzione operaia che tendeva alla costruzione di un’altra forma di società. Lì per lì noi non mettemmo a fuoco questo tema, in parte lo abbiamo fatto, o meglio, alcuni di noi lo hanno fatto, dolorosamente in seguito.

Quell’epoca rivoluzionaria è stata seguita da una vera e propria restaurazione. Cioè l’età rivoluzionaria, come tutte le età rivoluzionarie, è stata seguita da una età della restaurazione. Quando si sono concluse le guerre civili europee e mondiali, e si è conclusa quella età con la vittoria di un campo sull’altro, ne è seguita un’epoca di vera e propria restaurazione democratica. Una forma di restaurazione di tipo nuovo, che non ha assunto il carattere tradizionale, ma che si è marcata di una forte innovazione. Direi che quello che ci ha riservato l’uscita dal Novecento è stata una modernizzazione senza rivoluzione, un’innovazione tecnico-economico-finanziaria senza pensiero della trasformazione, anche dalla parte e nel campo delle classi dominanti. Di qui, le difficoltà maggiori per le forze antagonistiche. L’età della restaurazione democratica ha chiuso tutti i varchi conflittuali che potevano minacciare la stabilità-mondo dell’ordine a livello di capitalismo avanzato, anche facendo riemergere un complesso militare-ideologico di contraddizioni secondarie. Lo scontro di civiltà, l’operaismo lo voleva tra operai e capitale. È venuto dopo, tra parti interne della mondializzazione capitalistica. E nemmeno questo è esploso, appunto perché la mediazione politica democratica ha preso il controllo sia della pace interna che della guerra esterna.

È dentro questo contesto, in questo tipo di contingenza storica, che si è sviluppato un certo controverso cammino politico-intellettuale. A un certo punto mi sono accorto, nel corso stesso dell’esperienza di «Classe operaia», nel percorso ripido degli operai in lotta, che non eravamo noi a non farcela: era la classe operaia che non ce la faceva. Non ce la faceva ad abbattere l’avversario di classe. Non ce la faceva senza dotarsi di una armatura politica. E questa non poteva che essere la forma dell’organizzazione politica, anche se cercavamo una forma dell’organizzazione politica nuova. Ma c’è un paradosso, che forse non ha una spiegazione razionale: mentre Operai e capitale chiudeva il mio operaismo, in realtà apriva una stagione operaista.

Questo è stato il passaggio paradossale.

La fase dell’«autonomia del politico» è stata il tentativo di aggirare la postazione nemica per prenderla alle spalle. Fondamentalmente era questo che io pensavo. Era la continuazione della guerra di classe con altri mezzi. L’idea poi si è impicciata con il compromesso storico. In realtà io ho pensato che l’armatura politica della classe operaia, almeno in Italia, si sarebbe potuta dare nell’unica forza politica che esisteva sul terreno, che era il Pci. Io andavo alla ricerca di una forza politica che mi sembrava di trovare lì. Ma ce ne siamo accorti, purtroppo, quando questa forza politica era ormai entrata in una fase discendente, che avrà momenti di ripresa e ritorni di radicamento, all’interno però di un ciclo che inesorabilmente la porterà alla scomparsa.

L’esperienza operaista ha avuto questo rapporto, per quanto mi riguarda, con un tipo di forza politica che probabilmente non rispondeva alle sue domande. Contemporaneamente avvenivano quelle trasformazioni oggettive delle condizioni che avevano costituito la ragione dell’operaismo, trasformazioni di fondo che sono state molto più precoci, oltre che più profonde, di quanto venga solitamente ricordato. È vero quanto si dice degli anni Ottanta, ma già da prima era in atto quella che era la mutazione dello storico, tradizionale, capitalismo industriale nella sua nuova forma.

Che cos’è che veniva meno? Venivano meno le forme concentrate del rapporto sociale, la concentrazione sia del capitale che della forza-lavoro. Quindi veniva meno la dualità forte tra gli antagonismi. Si confondevano le opposizioni e si andava verso una ricomposizione tutta al centro della società. Non a caso c’è stata questa riproduzione allargata di ceto medio. Il ragionamento che ha fatto Sergio Bologna sul lavoro autonomo di seconda generazione è molto importante, ma non andrei a cercare lì i nuovi soggetti, non dico antagonisti ma protagonisti. Che cosa è questa se non la figura in cui il padrone e l’operaio tendono a identificarsi nella stessa persona? Viene meno la scissione tra lavoratore e padrone e quella tra il lavoratore e il suo lavoro. Si interrompe cioè ogni condizione di antagonismo.

Diverse sono le varie forme di lavoro immateriale, basato sul sapere. Qui il conflitto è potenzialmente più presente, data la espropriazione di soggettività che vi si esercita. Ma il riconoscimento delle forme nuove di sfruttamento, da dove parte e dove arriva? Non c’è bisogno qui, più ancora che nella vecchia condizione operaia, di una coscienza politica di classe portata dall’esterno? Il dato di realtà con cui dobbiamo fare i conti è che la proletarizzazione crescente si è rovesciata in una borghesizzazione crescente. Al posto, centrale, dell’operaio-massa, prodotto della grande industria, abbiamo il borghese-massa, prodotto della grande società. La democrazia politica, plebiscitaria o partecipativa che sia, descrive, legalizza e legittima questo stato delle cose.

Qui c’è stato un passaggio epocale che occorre avere il coraggio di decifrare e di denunciare. È più facile farlo sulla base di quel punto di vista parziale, unilaterale, scoperto dall’operaismo. Il fallimento della rivoluzione socialista ha messo a nudo il fallimento del progetto moderno. Questo ci fa vedere come quel tentativo fosse all’interno della modernità, e come la critica della sua realizzazione implica una critica ancora più forte del moderno. Credo che a questo punto non possiamo più dire quello che ci dicevamo quando eravamo operaisti: bisogna essere assolutamente moderni. Anche la critica del moderno diventa, deve diventare, un’altra della grande critica di parte. Critica del moderno è inoltre anche critica del socialismo, che si è presentato alla fine come modernizzazione subalterna. E su questo in fondo è caduto. Questo ci espone su una frontiera pericolosa, cui ho già fatto riferimento quando collocavo la rivoluzione conservatrice accanto alla rivoluzione operaia. Mai come oggi risultano attuali quei riferimenti di battaglia delle idee individuati dall’operaismo nella cultura della crisi e nel pensiero negativo.

Ora lo dico un po’ scherzando, riteologizzando i concetti secolarizzati. La differenza tra me e Toni Negri non è tanto riconducibile a Spinoza o Hobbes, è piuttosto di altro tipo. Toni mantiene il paradigma escatologico, io invece assumo il paradigma katecontico. Penso che noi non possiamo più dire o credere che ci sia un’idea lineare della storia, quindi che comunque sia dobbiamo andare avanti nello sviluppo poiché esso comporterà contraddizioni nuove. Credo che bisogna trattenere, non lasciar scorrere il fiume della storia. Bisogna rallentare l’accelerazione della modernità. Perché questo tempo più lento permette di ricomporre le nostre forze. Assumere come nostro il «frattempo»: solo lì puoi riscoprire le tue forze, ritrovare le soggettività alternative e comporle in forme organizzate, storicamente nuove. L’accelerazione produce sì moltitudini potenzialmente alternative, ma queste si bruciano immediatamente. Non reggi l’accelerazione, se non hai ancora la forza per organizzarle nell’immediato e sulla durata.

Il discorso sulla fine della politica moderna proviene molto dall’istanza operaista, ha lo stesso segno e lo stesso senso di ricerca e di scoperta. Ha poi il tratto di un qualche cosa che fuoriesce dal discorso corrente, fa la differenza rispetto al sentire intellettuale comune, e fa capire come quella operaista sia un’esperienza che tutti dovrebbero fare, anche le nuove generazioni. Io consiglio di considerarla come un punto di partenza. L’assunzione di uno stile di presenza propria nella società e nella politica, uno stile che deve essere introiettato profondamente per andare poi oltre. Non bisogna cedere alla tentazione di pensare che possano essere riproposti i contenuti del discorso. Occorre inoltre fare una critica di quanto di mitologico può esserci nel ricordo dell’operaismo, per assumerlo realisticamente come un’esperienza che ha fratturato la continuità storica, ha ripensato la tradizione, l’ha veramente innovata, e ha funzionato come esercizio di liberazione. E funziona ancora, per chi lo sperimenta nelle condizioni nuove, come qualcosa che permette di essere libero per il futuro. A condizione di non dimenticare mai quelle caratteristiche dell’operaismo: il punto di vista parziale, il rapporto tra teoria e pratica, l’istanza fondamentalmente rivoluzionaria. Tenendo fermi questi punti, poi si può andare ovunque. Sapendo, e dicendo, in gergo politicamente e stilisticamente scorretto: voi, a me, non mi prenderete.

Mario Tronti
Noi operaisti
pagg. 132
€10
In questo testo il filosofo della politica Mario Tronti raccoglie una serie di suoi scritti brevi sull’identità e la storia dell’«operaismo» italiano, la corrente di pensiero «neomarxista» originata dalla rivista di teoria politica «Quaderni Rossi» all’inizio del decennio ’60. In questi scritti Tronti riassume con straordinario acume le categorie teoriche dell’operaismo dimostrando quanto esse, ben lungi dall’aver esaurito la loro potenza, risultino ancora assolutamente attuali e quindi utili a interpretare la realtà e a informare progetti di trasformazione sociale. Un testo che si vuole prologo propedeutico ai testi pubblicati nella nostra collana «Biblioteca dell’operaismo», che ha riscontrato un buon successo di vendita presso studiosi dei movimenti politici, operatori dell’informazione e militanti dei movimenti sociali. 

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