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Destra e sinistra: una risposta a Costanzo Preve

di Domenico Losurdo

[Alcune settimane fa avevamo pubblicato le riflessioni di Costanzo Preve sul colloquio di Domenico Losurdo con alcuni studenti pisani. Preve muoveva dalla contestazione delle categorie di destra e sinistra per allargare il suo ragionamento, in maniera critica ma solidale, all'approccio complessivo che Losurdo propone rispetto alle questioni storiche e filosofiche dell'età contemporanea. Con lo stesso spirito Domenico Losurdo risponde adesso a Costanzo Preve, concentrandosi però sulla dicotomia destra/sinistra.]

Dalla mia intervista ovvero dalla mia conversazione informale con un gruppo di studenti pisani, condotta col linguaggio tipico delle conversazioni informali, Costanzo Preve prende lo spunto per una critica alla mia produzione intellettuale nel suo complesso. Sono lusingato dell’attenzione a me riservata da un autore, che a causa anche del suo stile chiaro e brillante io leggo sempre con interesse e piacere, e che ora con le sue osservazioni critiche mi stimola a chiarire ulteriormente il mio pensiero.

Se anche il suo intervento va ben al di là del contenuto dell’intervista, in questa sede per ragioni di tempo mi concentrerò sull’analisi delle categorie di destra e sinistra:

1) Come risulta dal saggio che ora inserisco nel blog e che risale a oltre dieci anni fa, la coppia concettuale sinistra/destra è da me assunta con un significato ben determinato: essa corrisponde sostanzialmente alle coppie progresso/reazione e emancipazione/deemancipazione, con il privilegiamento di quest’ultima, che rinvia in modo più chiaro e diretto alla lotta per il riconoscimento. E dunque, secondo il modello da me proposto, sono progressivi, emancipatori e di sinistra i movimenti che storicamente si sono battuti e che si battono contro la schiavitù, la servitù della gleba, la schiavitù salariata, l’oppressione colonialista e imperialista, le diverse forme di discriminazione politica e sociale a danno di individui e popoli, i movimenti che nelle diverse situazioni storiche esigono di conferire forma concreta al riconoscimento degli esclusi.

Così formulato il problema, l’origine temporale di determinate categorie non è particolarmente rilevante. Per fare un esempio, è noto che l’espressione «controllo delle nascite» è di conio abbastanza recente, ma gli uomini e le donne non hanno atteso l’invenzione di tale espressione per mettere in atto la pratica da essa indicata. A uno studioso impegnato a ricostruire la storia del conflitto ideale e politico sviluppatosi a proposito di tale pratica sarebbe privo di senso obiettare che alcuni gruppi, piuttosto che di «controllo delle nascite», hanno parlato o parlano di pianificazione famigliare. Non ha un valore superiore l’obiezione per cui, in determinati periodi o in determinati paesi, i movimenti di «sinistra» hanno preferito autodefinirsi «democratici». E’ una regola elementare di logica tener ben distinte la storia di una cosa e la storia del nome di una cosa. Nel teorizzare la «lotta di classe», Marx non ha alcuna difficoltà a evidenziarla anche in relazione a epoche storiche e a società in cui l’espressione in questione era non solo ignota ma anche difficilmente comprensibile. Ovvero, per dirla con Engels, «gli uomini hanno pensato dialetticamente molto tempo prima di sapere che cosa fosse la dialettica, proprio nello stesso modo in cui parlavano in prosa prima che esistesse la parola prosa».

2) Sostanzialmente convergenti, le tre coppie concettuali da me richiamate (sinistra/destra, progresso/reazione, emancipazione/de-emancipazione) aiutano a rispondere a una domanda permanente e ineludibile: come orientarsi nella molteplicità e nella complessità dei movimenti e dei conflitti politico-sociali? Sono in gioco soltanto le ambizioni personali, la volontà di potenza degli individui e dei gruppi, oppure è possibile individuare una logica del conflitto e del discorso politico? Questo approccio, che possiamo definire di tipo hegelo-marxista, presenta alcune implicazioni teoriche sulle quali conviene riflettere: a) in una situazione storica concreta si intrecciano molteplici contraddizioni di carattere tra loro anche assai diverso; b) una classe sociale, un movimento politico può assumere un orientamento progressivo, emancipatore e di sinistra nell’ambito di una contraddizione e un orientamento diverso e persino contrapposto nell’ambito di un’altra contraddizione: Per desumere da Marx un esempio classico: la borghesia svolge un ruolo progressivo e rivoluzionario in relazione all’Antico regime, ma conservatore e reazionario in relazione al proletariato. Se poi dal piano nazionale ci spostiamo a quello internazionale, il quadro diventa ancora più complesso. Nella Polonia smembrata e oppressa della metà dell’Ottocento la stessa aristocrazia, una classe che pure rinvia all’Antico regime, può essere trascinata dal movimento di emancipazione nazionale su posizioni progressive e persino rivoluzionarie: sì, la «nobiltà» polacca – osserva Engels il 3 settembre 1848 – «si è allineata alla rivoluzione agraria-democratica con uno spirito di sacrificio senza precedenti» c) per definire la reale natura di un movimento politico, occorre indagare il suo atteggiarsi nei confronti delle molteplici contraddizioni e individuare di volta in volta l’aspetto principale.

Facciamo un esempio: infliggendo colpi all’aristocrazia feudale e alla servitù della gleba, Richelieu e la monarchia assoluta hanno rappresentato, sia pure in modo parziale e contraddittorio, la causa del progresso, dell’emancipazione, della sinistra. E’ questo il punto di vista di Hegel, Marx, Engels e Lenin, ed esso mi sembra pienamente valido, anche se le tre coppie concettuali sopra elencate erano ignote a Richelieu e ai suoi antagonisti. E’ da aggiungere che Hegel, Marx, Engels e Lenin argomentano nel modo che abbiamo visto non perché ignorino il valore della libertà ma perché, per dirla con Hegel, nell’Antico regime la «libertà dei baroni» comportava l'«assoluta servitù» della «nazione» e impediva la «liberazione dei servi della gleba». In una situazione storica determinata la libertà dei baroni risultava in contrasto con quella dei servi della gleba: si verificava un conflitto delle libertà che costringeva a scegliere; a lungo la soppressione della servitù della gleba e la conseguente liberazione del popolo sono stato il risultato della «repressione dei baroni» messa in atto dal potere monarchico (cfr. Hegel e la libertà dei moderni, cap. V, § 2). E cioè, in una situazione storica determinata l’assolutismo monarchico ha comportato l’avanzamento (contraddittorio) della causa della libertà oltre che dell’eguaglianza; nonostante tutti i suoi limiti e i suoi aspetti odiosi, esso ha rappresentato un processo storico progressivo, emancipatore e di sinistra.

Mi limito qui ad altri due esempi. Marx, Engels e Lenin hanno appoggiato con forza il movimento di liberazione nazionale del popolo irlandese, nonostante che esso fosse ispirato e diretto dal clero cattolico, spesso affetto da nostalgie pre-moderne; in modo analogo Lenin ha salutato la lotta dell’emiro afghano contro il dominio coloniale inglese. In entrambi i casi l’ideologia clericale (rispettivamente cattolica e islamica), con il suo carico di oscurantismo e di reazione, costituiva l’aspetto secondario, mentre l’aspetto principale era costituito dai colpi inferti dai due movimenti nazionali al sistema mondiale del colonialismo e dell’imperialismo e dal conseguente impulso impresso alla causa della libertà, dell’eguaglianza e dell’emancipazione.

3) Questo approccio dialettico, che esige «l’analisi concreta della situazione concreta» al fine di individuare quello che di volta in volta rappresenta il progresso, l’emancipazione, la sinistra, è agli antipodi dell’approccio liberale che vede contrapporsi due schieramenti stabili nel tempo e nello spazio: gli amici e i nemici della «società aperta» (Popper), i difensori della «libertà» e i suoi «traditori» (Berlin). Ma chi incarnava la causa della «società aperta» e della «libertà» nello scontro tra assolutismo monarchico e aristocrazia feudale? E chi la incarnava negli Stati Uniti allorché, a conclusione della Guerra di secessione, l’esercito dell’Unione imponeva nel Sud al tempo stesso la dittatura militare e l’abolizione della schiavitù?

Fuorviante è altresì lo schema di Tocqueville, che contrappone la Francia sempre pronta a sacrificare la libertà sull’altare dell’eguaglianza (e quindi incline ad appoggiare o a subire prima
l’assolutismo monarchico, poi il giacobinismo e infine il bonapartismo) agli Usa perennemente fedeli al valore della libertà: il colmo dell’assurdità è che il liberale francese istituisce questa contrapposizione mentre nella repubblica d’oltre Atlantico infuria la schiavitù, abolita dai giacobini francesi, i quali così riconoscono anche ai neri il diritto alla libertà.

In conclusione, la logica binaria si rivela incapace di comprendere il conflitto politico-sociale e il processo storico. Una volta dileguati i contrastanti interessi di classe, l’intreccio delle contraddizioni e il conflitto delle libertà, una volta che tutto si riduce con assoluta evidenza allo scontro tra i difensori della «società aperta» e della «libertà» e i nemici dell’una e dell’altra, questi ultimi finiscono necessariamente con l’apparire quali tarati e degenerati sul piano psicologico ovvero su quello razziale. La logica binaria stimola la deriva psicologica e antropologica e persino razzista. Nei primi decenni dell’Ottocento Tocqueville spiega la più tranquilla evoluzione degli Usa rispetto alla Francia col più robusto senso pratico e la più acuta sensibilità morale degli statunitensi: sennonché, l’attaccamento tenace alla schiavitù nera può forse essere letto quale espressione di spirito pratico ma certo non di sensibilità morale. Quando poi vede profilarsi la guerra civile tra Nord e Sud, piuttosto che mettere in discussione lo stereotipo precedente, Tocqueville ne aggiunge un altro ancora più grottesco: la catastrofe all’orizzonte si spiegava col massiccio afflusso negli Usa di immigrati meridionali, di sangue estraneo al ceppo anglosassone. In modo analogo J. S. Mill contrappone l’amore della libertà e dell’autonomia individuale proprio di inglesi e americani alla pervicace tendenza alla sordità a tale valori che caratterizzerebbe, oltre che i popoli orientali, anche quelli dell’Europa continentale. Sono gli anni in cui nell’Inghilterra liberale si ama dire che «i negri cominciano a Calais», appena attraversata la Manica (cfr. Controstoria del liberalismo, cap. VIII, §§ 6-8).

4) Non solo la coppia concettuale, anche la terminologia destra/sinistra è ben presente in Marx e Engels, che se ne servono ad esempio per delimitare lo schieramento scaturito in Germania dalla rivoluzione del 1848. Leggendo la ricostruzione che essi fanno dei dibattiti nel Parlamento di Francoforte, ci imbattiamo nelle categorie di «destra», «sinistra», «estrema sinistra». Ma, come ho già detto, la cosa è più importante del suo nome. Pur senza fare esplicito riferimento a quelle categorie, il Manifesto del partito comunista si conclude affermando che «i comunisti appoggiano ovunque ogni movimento rivoluzionario contro le condizioni sociali e politiche esistenti» e «lavorano ovunque all’unione e all’intesa dei partiti democratici di tutti i paesi». E cioè, i comunisti sono il settore più avanzato di uno schieramento che tra dubbi, incertezze e oscillazioni di ogni genere, tende o può essere sollecitato a condividere, sia pure parzialmente o in determinate circostanze, la causa del progresso e dell’emancipazione, la causa della lotta contro la reazione (e la destra). Pur distinguendo tra le forze politico-sociali da colpire e quelle in qualche modo da guadagnare o almeno da neutralizzare, anche nei confronti di queste ultime – sottolinea sempre il capitoletto conclusivo del Manifesto – i comunisti intendono rivendicare il «diritto di un atteggiamento critico».

Di tale diritto Marx e Engels fanno ampio uso. Ad esempio, sulla «Nuova Gazzetta Renana» del 14 dicembre 1848 il primo mette in guardia la «sinistra» nel suo complesso: essa potrebbe conseguire la «vittoria parlamentare» ed essere tuttavia sconfitta nel paese e sul piano militare dalle forze della reazione; è quello che poco dopo si verifica. Disgraziatamente – fa notare Engels il 14 febbraio 1849 – la «sinistra» non ha tenuto conto del monito di Marx, sicché la sua «profezia» si è realizzata «alla lettera». Come si vede, le prese di posizione di Marx e Engels cadono quattro decenni prima del 1889, la data da Preve indicata come l’anno iniziale del secolo di «vigenza integrale» in senso stretto della dicotomia destra-sinistra.

5) Ma, come ho già detto, non è la cronologia il punto essenziale. Preve obietta che, se ci si attiene alla coppia concettuale destra/sinistra, Berlusconi sarebbe «di sinistra quando va a visitare Lukaschenko e mantiene buoni rapporti con Putin», mentre «è di destra quando appoggia diplomaticamente i massacri sionisti a Gaza e invia nuove truppe in Afghanistan». Preve crede di procedere ad una reductio ad absurdum della dicotomia destra/sinistra e del mio modello interpretativo nel suo complesso, ma dove sono l’assurdo e lo scandalo intellettuale nella proposizione da lui polemicamente formulata? La politica di guerra, di minaccia di guerra e di arroganza imperiale è sempre stata considerata di destra, e allorché questa politica è rivendicata dai vari Veltroni e Rutelli ecc. anche nei confronti dell’Europa orientale, è chiaro che questi signori si collocano a destra dello stesso Berlusconi.

Il fatto che una personalità o un movimento politico sia per un verso da collocare a destra e per un altro verso a sinistra è così poco assurdo da costituire piuttosto la regola del processo storico. L’abbiamo visto per la monarchia assoluta, per la borghesia nel suo complesso, per la nobiltà polacca in qualche modo trascinata nella lotta di liberazione nazionale. Ma si può fare un altro esempio. Nell’estendere i diritti politici e la partecipazione politica nell’ambito della comunità bianca, i coloni americani che alla fine del Settecento si ribellano contro l’Inghilterra rappresentano la causa del progresso, dell’emancipazione, della sinistra; nel rendere ancora più invalicabile l’abisso che separa la «superiore» razza bianca dalle razze «inferiori» destinate alla schiavitù o all’annientamento, i coloni americani che si ribellano all’Inghilterra incarnano invece la reazione, la de-emancipazione, la destra. Naturalmente, si tratta di vedere qual è l’aspetto principale. Autorevoli storici leggono la «rivoluzione americana» come una secessione reazionaria a causa del rafforzamento che essa ha comportato della schiavitù nera e dell’impulso che ha conferito al processo di deportazione e decimazione dei pellerossa. A tale conclusione si può obiettare che, nonostante tutto, la rivolta dei coloni inglesi in America ha oggettivamente stimolato la rivoluzione francese…

Indagare attraverso un’analisi concreta della situazione concreta le diverse contraddizioni e i diversi aspetti di ogni singola contraddizione è la definizione stessa della dialettica; gridare allo scandalo per questa «assurdità» significa ignorare o respingere la dialettica. Al contrario della logica binaria, che costruisce le sue contrapposizioni sotto il segno dell’«evidenza» dogmatica, la dialettica e l’analisi concreta della situazione concreta comportano sempre un carattere più o meno accentuato di problematicità. Per venire all’oggi, per quanto riguarda l’Iran, non c’è dubbio che al regime islamico è intrinseco un elemento di regressione e di reazione (si pensi alla clericalizzazione della vita politica e alle discriminazioni imposte alle donne); per un altro verso, però, l’eventuale conquista del potere da parte dei «verdi» rappresenterebbe la vittoria sul piano interno della ricchezza più parassitaria e, sul piano internazionale, il trionfo del colonialismo sionista e dell’imperialismo nonché la consacrazione del golpismo mascherato da «rivoluzione colorata». E, dunque, nell’ambito dello scontro tra Ahmadinejad e Musavi, è il secondo a incarnare complessivamente la linea della reazione, della de-emancipazione e della destra. Per quanto riguarda l’Italia, se anche in certe occasioni e su certi punti esso è scavalcato a destra dai vari Veltroni, Rutelli ecc., nel complesso è Berlusconi a rappresentare la destra più radicale e più pericolosa: il governo da lui diretto realizza una concentrazione del potere politico, economico e multimediale assai inquietante, rafforza le spinte secessioniste, stimola lo spirito xenofobo e razzista, mentre sul piano ideologico è impegnato a liquidare tutto quello che di democratico e progressivo vi è nella storia del nostro paese (il Risorgimento, l’antifascismo, la Resistenza, la Prima repubblica).

Questo modo di argomentare appare troppo complicato a Preve, il quale mi accusa di trasformare i movimenti politici nel «Dottor Refill e Mister Hyde», il protagonista dalla doppia personalità del romanzo di Stevenson. In realtà, chi ironizza in questi termini rischia di rifuggire dalla complessità del conflitto politico e del processo storico e di cedere alla nostalgia per la semplice e agevole logica binaria, grazie alla quale sarebbe possibile definire in modo netto e univoco i movimenti politici, risparmiandosi la fatica dell’analisi concreta della situazione concreta e dell’individuazione dell’aspetto principale e di quello secondario.

Le medesime argomentazioni utilizzate per delegittimare la coppia concettuale sinistra/destra possono essere fatte valere contro le coppie concettuali emancipazione/deemancipazione, progresso/reazione. Ritorniamo alla rivolta dei coloni americani contro il governo di Londra: se per un verso è un momento di emancipazione e di progresso, per un altro verso essa, come ho già spiegato, è il contrario. Oppure, procedendo a ritroso, prendiamo la Glorious Revolution del 1688-89: il rovesciamento in Inghilterra dell’assolutismo monarchico e l’avvento del governo della legge hanno una reale portata rivoluzionaria, ed essa non è certo ignota a Marx. Sennonché, c’è l’altra faccia della medaglia: grazie alla svolta del 1688-89, l'aristocrazia terriera inglese può consolidare il suo dominio sugli sfortunati irlandesi (gli indiani e i neri della situazione) e dare impulso alla recinzione delle terre comuni e all'espulsione dei contadini. E’ per questo che Marx definisce la Glorious Revolution come «un colpo di Stato parlamentare». E dunque: rivoluzione o colpo di Stato? Una cosa e l’altra nello stesso tempo. Come si vede, anche rinunciando alla coppia concettuale sinistra/destra, non dilegua l’ombra del «Dottor Jeckill e Mister Hyde».

6)  In quanto favorevole all’eguaglianza e contrario al colonialismo, all’imperialismo e all’egemonismo unipolare, piuttosto che di sinistra, Preve preferisce considerarsi «dalla parte giusta»: la dicotomia sinistra/destra cede così il posto alla dicotomia «parte giusta/parte sbagliata» e persino alla dicotomia «ragione/torto»: sì, «gli insorgenti irakeni hanno ragione; gli insorgenti afghani hanno ragione», e ragione ha altresì l’Iran di Ahmadinejad; nel torto sono invece i loro nemici. E’ subito da notare che neppure questa sostituzione riesce a fugare l’ombra del «Dottor Jeckill e Mister Hyde»: per un verso Ahmadinejad e i talebani sono dalla «parte giusta» e hanno ragione (si oppongono all’arroganza imperiale e sono a favore dell’eguaglianza tra le nazioni), per un altro verso sono dalla parte «sbagliata» e nel torto (non si può dire che essi siano a favore dell’eguaglianza uomo-donna). Per sfuggire all’ombra che l’ossessiona, Preve dovrebbe identificarsi in toto con gli ayatollah iraniani e i talebani afghani e battersi quindi perché sia imposto anche alle ragazze italiane l’uso del velo o addirittura del burqa.

Ma se esse stesse continuano a essere inseguite dall’ombra del «Dottor Jeckill e Mister Hyde», perché le coppie concettuali proposte da Preve dovrebbero essere preferibili alla coppia concettuale sinistra/destra? Quest’ultima terminologia, scaturita nel corso della rivoluzione francese, continua a rinviare già per la sua origine a un conflitto politico-sociale. Proviamo ora, invece, a seguire il percorso che ci viene raccomandato da Preve. Dunque, il banchiere pervicacemente attaccato al superbonus e il colono impegnato a strappare la terra ai palestinesi sono dalla «parte sbagliata» ovvero nel torto. Sembrerebbe però che, con uno sforzo supplementare di persuasione, sia possibile portare anche loro dalla «parte giusta», nello schieramento di quanti hanno ragione. Assieme agli interessi di classe sono dileguate anche l’ideologia e la falsa coscienza. Che siano dalla «parte sbagliata» o dalla «parte giusta», i banchieri e i coloni così come i lavoratori dipendenti licenziati e i contadini espropriati appaiono tutti mossi in primo luogo dalla ricerca della verità. E cioè, la critica che a ragione Preve rivolge a Habermas di confondere conflitto politico-sociale e seminario accademico colpisce in pieno anche il modello proposto dal primo.

7)  Preve (e Di Martino) sollevano un’ulteriore obiezione a proposito della coppia concettuale sinistra/destra. Almeno a partire dal 1989 essa non avrebbe più senso. Perché mai? Per tutto un periodo storico, la sinistra si è battuta per il sistema proporzionale, considerandolo a ragione come il completamento, anzi come un elemento costitutivo del suffragio universale (l’uninominale e il maggioritario reintroducono dalla finestra la discriminazione censitaria cacciata dalla porta). In effetti, per quanto riguarda l’Italia del primo dopoguerra, la sinistra nel suo complesso da Gobetti a Gramsci ha salutato l’avvento del proporzionale, mentre a denunciare i «due errori grandissimi» che sono il «suffragio universale» e la «rappresentanza proporzionale» è stato un autore dichiaratamente di destra quale Gaetano Mosca. Com'è noto, la Seconda Repubblica ha smantellato il sistema proporzionale: tale smantellamento, che rafforza enormemente il peso politico della ricchezza, non dovrebbe essere più considerato di destra, solo perché è stato messo in atto dopo il 1989? In realtà, mentre non ha molto senso dire che i nemici della proporzionale e i sostenitori del maggioritario sono dalla «parte sbagliata» o «nel torto» (essi non incorrono in alcuna contraddizione logica), ha ben senso dire che essi sono di destra, per il fatto che portano avanti un disegno reazionario di de-emancipazione delle classi popolari. Gli esempi si potrebbero moltiplicare: per il tentativo di mettere fuori legge il Partito comunista di Boemia e Moravia non sarebbe più lecito parlare di colpo di mano della «destra», dato che esso avviene a venti anni di distanza dall’Anno del Signore che a quanto pare è il 1989? Com’è noto, è successivamente a questa data che in Germania si è costituita Die Linke, «la Sinistra». Pur con le sue debolezze, oscillazioni e contraddizioni, questo raggruppamento (che difende lo Stato sociale e critica in una certa misura le guerre Usa e Nato) è, rispetto al partito socialdemocratico e ancor più rispetto a quello democratico-cristiano, più vicino alla «parte giusta», così come questa viene definita da Preve. Dovremmo proporre a Die Linke, ostinatamente attaccata a una terminologia a quanto pare superata, di chiamarsi d’ora in poi La parte giusta; e, per passare dalla Germania all’Inghilterra, dovremmo proporre alla New Left Review, anch’essa restia alle novità che a quanto pare si impongono, di chiamarsi d’ora in poi La rivista della nuova parte giusta? Siamo veramente sicuri che questo impegno a ribattezzare organizzazioni e riviste politiche contribuirà alla chiarezza politica e ci aiuterà a contrastare la politica di smantellamento dello Stato sociale sul piano interno e di aggressione e di guerra sul piano internazionale?

8) In realtà, ben lungi dall’aver provocato la messa fuori gioco delle coppie concettuali progresso/reazione, emancipazione/de-emancipazione, sinistra/destra, il 1989 può essere spiegato solo da queste coppie. Non mi sembra invece particolarmente produttivo chiedersi se la svolta rappresentata dal 1989 sia dalla «parte giusta» o quella «sbagliata», abbia «ragione» o «torto». Bene, come rispondere alla domanda implicita nelle coppie concettuali alle quali mi richiamo?

Pensiamo alla vicenda iniziata con la rivoluzione francese: al momento in cui si verifica quella che ogni manuale di storia definisce come la Restaurazione, sembra difficile contestare il fallimento del progetto o delle speranze del 1789, cui hanno fatto seguito il Terrore, la corruzione sfrenata degli anni successivi al Termidoro, la dittatura militare e poi l’Impero, con un imperatore-condottiero il quale conquista immensi territori e li distribuisce a parenti ed amici, secondo una concezione patrimoniale dello Stato che non solo calpesta ogni principio di democrazia, ma sembra riprodurre l’Antico regime nei suoi tratti peggiori. C’è di più: abbattendo l’assolutismo monarchico e il feudalesimo, i rivoluzionari francesi avevano assicurato di mirare a divellere le radici stesse della guerra in modo da instaurare la pace perpetua; e, invece, per dirla con Engels, col «dispotismo napoleonico», «la pace perpetua che era stata promessa si trasformò in una guerra di conquiste senza fine» (MEW, vol. XX, p. 239). Dunque, del tutto irriconoscibili erano, nel 1814, i progetti e le speranze che avevano alimentato il 1789; il ritorno dei Borboni realizzò un regime senza dubbio più liberale del Terrore, della dittatura militare e dell’Impero guerriero e espansionista che avevano fatto seguito agli entusiasmi rivoluzionari; resta tuttavia il fatto che quel ritorno rappresenta un momento di restaurazione, di reazione che cerca di soffocare il nuovo che andava faticosamente emergendo tra tentativi, errori, vicoli ciechi, contraddizioni, regressioni, deformazioni di ogni genere. Non c’è motivo per procedere diversamente dinanzi ai mutamenti verificatisi nell’Est europeo, nonostante la lettura impietosa che possiamo e dobbiamo fare della storia dei regimi crollati nel 1989. Tanto più convincente mi sembra il bilancio qui proposto per il fatto che nello stesso Occidente capitalistico la crisi prima e il crollo poi del «socialismo reale» hanno stimolato dei gravi fenomeni di involuzione: si pensi allo smantellamento dello Stato sociale, alla crescente precarizzazione del lavoro e, sul piano internazionale, all’accresciuta aggressività dell’imperialismo statunitense e del colonialismo sionista.

Per fortuna che il disegno reazionario e di destra del 1989 è stato sconfitto in Cina! E’ grazie anche a questa sconfitta che ai giorni nostri i movimenti rivoluzionari dell’America latina possono resistere alla politica di accerchiamento diplomatico-militare e di strangolamento economico portata avanti da Washington.

9)  Anche a proposito della Cina, Preve si affretta a sottolineare il suo dissenso: contrariamente al sottoscritto che rinvia anche al piano interno, egli valuta positivamente il ruolo del grande paese asiatico solo in «considerazione dell’elemento geopolitico». Si verifica così un singolare rovesciamento di posizioni. La critica da Preve in precedenza a me rivolta, in base alla quale con le mie distinzioni trasformerei i movimenti politici nel personaggio del romanzo di Stevenson, cede ora il posto a una critica esattamente contrapposta. Ora è il mio polemico interlocutore a sottolineare l’assoluta necessità delle distinzioni: se sul piano internazionale la Cina è dalla «parte giusta» e «ha ragione», sul piano interno, essendo un paese capitalista al pari degli altri, essa è chiaramente dalla «parte sbagliata» e «nel torto». Se anche interviene al momento sbagliato e in modo involontario, questa rievocazione del «Dottor Jeckill e Mister Hyde» sarebbe da salutare positivamente, se non fosse per il fatto che Preve continua in realtà a essere schematico. Ai suoi occhi è solo la presenza dell’imperialismo Usa che impedisce di accodarsi al coro anticinese. Dunque, il fatto che centinaia di milioni di uomini e donne superino una condizione che li condannava alla fame e alla morte per inedia è qualcosa di insignificante; così come è insignificante il fatto che più di un quinto dell’umanità, a lungo umiliato e de-umanizzato dal colonialismo e dall’imperialismo («Vietato l’ingresso ai cani e ai cinesi»), ritrovi ora la sua dignità umana e nazionale. Di fatto è considerato irrilevante quello che si configura come il più grande processo di emancipazione in corso ai giorni nostri. Gli alberi che impediscono di vedere la foresta dell’emancipazione nella filosofia di Preve sono la «mancanza di socialismo», nell’ideologia dominante sono la «mancanza di democrazia», mentre dal punto di vista del «Manifesto» e di «Liberazione» sono la mancanza sia di una cosa che dell’altra.

10)  Mentre stimola sviste e disattenzioni, la proclamazione della fine della coppia concettuale sinistra/destra tenta comunque di esprimere un’esigenza reale. Sia pure in un modo che ritengo errato, quella proclamazione ci invita a prendere atto della bancarotta ideale, politica e morale di gruppi dirigenti che dichiaravano di essere di sinistra e persino comunisti. Non c’è dubbio, nel 1989 assieme al muro di Berlino è crollata definitivamente l’intelligenza critica di quei gruppi dirigenti, che ora si rivelano capaci solo di inseguire questa o quella moda dell’ideologia dominante, sicché oggi si tratta di ricostruire non solo il partito comunista ma anche la sinistra. Ma è un grave errore voler dedurre dall’ottenebramento e dalla dispersione di un partito politico l’obsolescenza della logica del discorso politico, così come sarebbe un grave errore voler dedurre dalla disfatta e dalla fuga disordinata di un esercito l’obsolescenza della scienza militare. Sì, quella che un tempo era la sinistra ha oggi disimparato persino la grammatica e la sintassi del discorso politico; è tuttavia c’è da chiedersi se di questo disorientamento radicale non sia parte integrante la proclamazione della fine della dicotomia sinistra/destra, emancipazione/de-emancipazione, progresso/reazione. Su un punto sono
chiamati a riflettere anche i miei polemici interlocutori: la data salutata a Ovest come la Fine delle ideologie e persino come la Fine della storia o che secondo Habermas (La rivoluzione in corso, Feltrinelli, 1990, p. 180) mette fuori gioco, almeno per quanto riguarda l’Europa orientale, lo «schema marxista» e la «storia ortodossa di lotte di classe», questa data (il 1989) è letta da Preve e Di Martino come la Fine della coppia concettuale sinistra/destra.

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