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la citta futura

Neoliberismo e postmodernismo: alleati fra loro ma nostri nemici

di Alessandra Ciattini

Neo-liberismo e postmodernismo sono due espressioni opposte e conflittuali del tardo capitalismo o presentano significative convergenze? Cerchiamo di indicare alcuni punti di contatto 

c6379374f735387d16e3e70bd3a95caa LSi parla assai spesso e a ragione di “pensiero unico”, per sottolineare come la cultura mass-mediatica, in tutte le sue forme, comprese le sue rozze espressioni politiche, sia dominata da un'unica concezione del mondo, scaturita dalla cosiddetta fine delle ideologie, improntata ad un facile pragmatismo che incanta l'uomo pratico e concreto, e talvolta intrisa di un buonismo ipocrita auspice del rispetto dell'altro e pronto ad agitare la “cultura dell'accoglienza”.

Tale concezione del mondo si incarna nel neoliberismo, affermatosi negli ultimi decenni del Novecento a causa di un complesso di fattori, i quali hanno contribuito al consolidarsi di quello che Ernest Mandel definisce “tardo capitalismo” (Der Spätkapitalismus, Francoforte 1972). Naturalmente il richiamo al buonismo e alla “cultura dell'accoglienza” non sono elementi costitutivi del neoliberismo, che si presenta limpido nella sua spietatezza, ma che taluni amano rivestire di tali pietosi veli per non fa sobbalzare i ricettori del suo messaggio. 

L'emergere del neoliberalismo coincide con l'attacco condotto allo Stato sociale, e quindi con l'assalto ai diritti sociali dell'individuo che facevano di esso un membro della comunità, nel cui seno avrebbe dovuto trovare tutti quegli strumenti idonei a trasformarlo in un cittadino a tutti gli effetti. Con Margaret Thatcher abbiamo imparato che la società non esiste e che ognuno deve farsi carico individualmente del proprio “successo” sociale [1], anche nel caso in cui ciò significa il raggiungimento stento della mera sopravvivenza.

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orizzonte48

La "mano invisibile" che affida la sovranità ai liberi mercanti

Ieri, oggi, domani

di Quarantotto

inv F69011. Abbiamo già citato la trilogia di romanzi, sul tema della guerra dell'oppio (contro la Cina) e della colonizzazione inglese in India, scritti da un autore indiano di cultura anglosassone, Amitav Ghosh.

Dal romanzo centrale della trilogia, traiamo alcune interessanti "conversazioni" che illustrano perfettamente la cultura dei tai-pan, cioè dei mercanti imbevuti della neo-religione del libero mercato seguita alla "rivelazione" di Adam Smith. Per lo meno nel modo in cui fu intesa nei decenni successivi alla sua opera maggiore, "La ricchezza delle nazioni": un modo, a rigore filologico e "scientifico", discutibile e controverso, ma che, non di meno, è divenuto poi una vulgata ampiamente diffusa e appunto circondata da un'adesione acritica e fideistica di tipo essenzialmente religioso (una religione, come evidenzia Galbraith, che si fonda sul supremo "piacere di vincere in un gioco in cui molti perdono").

 

2. Sull'attendibilità delle conversazioni che vi riporterò, sotto il profilo della loro capacità di riflettere fedelmente questo "credo", aderendo in modo diretto al pensiero ed alle parole dei protagonisti del tempo, Ghosh ci rassicura, fornendo un'appendice poderosa sulle fonti utilizzate (pagg.383-386 de "Il fiume dell'oppio"): le conversazioni, infatti, sono riprese da dichiarazioni e "editoriali", a commento dei fatti storici narrati, pubblicati sui giornali inglesi editi a Canton in quegli stessi anni (nel 1838-39, alla vigilia e durante lo svolgimento stesso del conflitto, cioè la prima guerra dell'oppio, che vide l'Inghilterra attaccare con la sua flotta Canton).

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internazionale

Il capitalismo tecnologico rinuncia alla democrazia

Evgeny Morozov

lambert capBasta sfogliare un quotidiano per rendersi conto che il capitalismo democratico transatlantico, che è stato il motore dello sviluppo economico dopo la seconda guerra mondiale, sta vivendo un periodo difficile. Fame, povertà, disoccupazione giovanile, sostanze chimiche nell’acqua potabile, mancanza di alloggi a prezzi sostenibili: tutte questi problemi sono tornati d’attualità anche nei paesi più ricchi.

La cosa non dovrebbe sorprendere: questo declino della qualità della vita, temporaneamente nascosto sotto il velo retorico dell’innovazione, ha radici profonde, e quarant’anni di politiche neoliberiste stanno finalmente presentando il conto.

Ma sommato alle conseguenze delle guerre mediorientali (prima i rifugiati e ora i sempre più frequenti attentati terroristici nel cuore dell’Europa), il disagio politico ed economico dell’occidente appare ancora più terribile. Non sorprende più di tanto che per i movimenti populisti antisistema, sia di destra sia di sinistra, sia così facile mettere in difficoltà le élite. Da Parigi a Flint, in Michigan, i governanti hanno dato tali prove di inettitudine e incompetenza che hanno finito per far sembrare Donald Trump un superuomo in grado di salvare il pianeta.

Sembra che il capitalismo democratico – quella strana creatura istituzionale che ha cercato di coniugare il modello economico capitalista (il governo implicito di pochi) con il sistema politico democratico (il governo esplicito di molti) – stia vivendo un’altra crisi di legittimità.

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micromega

La scienza economica dominante come religione pubblica

di Nicolò Bellanca

Plasmando i nostri modelli mentali e le nostre azioni, l’odierna teoria economica dominante si rivela in grado di convertirci, operando come una religione pubblica. Senza tenere in adeguato conto questa sua capacità si capisce poco dell’affermazione planetaria del neoliberismo. Una riflessione a partire dagli ultimi libri di Mauro Gallegati

economia religione 510In quest’articolo non esaminerò tutte le argomentazioni degli ultimi due libri di Mauro Gallegati. Mi concentrerò su una sua tesi particolarmente incisiva e provocatoria: «nonostante esteriormente assomigli alla fisica, e nonostante il presunto equipaggiamento di molte leggi, l’economia non è una scienza»,[1] e anzi «assomiglia a una religione».[2]

L’odierna teoria economica mainstream è caratterizzata, in linea generale, dalle seguenti assunzioni di base: agente rappresentativo (i consumatori o le imprese sono tutti identici, e quindi basta studiare l’agente-tipo), perfetta razionalità degli agenti (chiamata talvolta “olimpica”, poiché esprime requisiti che soltanto un dio potrebbe possedere), aspettative razionali (gli agenti usano le informazioni in modo efficiente, formulando quindi le previsioni più corrette) e scelte fondate sulla massimizzazione di una funzione obiettivo (l’agente individua e seleziona l’alternativa migliore tra quelle disponibili).[3]

La macroeconomia è quella parte della disciplina che (tra l’altro) dovrebbe spiegare le crisi, e quindi oggi la Grande recessione.

I macroeconomisti mainstream sostengono che la loro teoria dev’essere una versione aggregata della teoria dell’equilibrio generale, stabilendo uno sconcertante apriori metodologico per il quale l’equilibrio è il canone per studiare tutto quello che nega l’equilibrio: sentieri dinamici, processi innovativi, instabilità e crisi.

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manifesto

La performance zoppa e il cantiere del «comune»

Christian Laval

Christian Laval oggi alla «Scuola di politica» di Napoli. Un’anticipazione dell’intervento del sociologo sulla radicalizzazione del neoliberalismo

clt 3 dx basso jannis kounellisStiamo vivendo una forte accelerazione dei processi economici e securitari che stanno trasformando nel profondo le nostre società. Abbiamo a che fare con un’accelerazione del processo di uscita dalla democrazia. Da una parte vi è la potenza rinnovata dell’offensiva rivolta contro i diritti sociali ed economici dei lavoratori; dall’altra parte, la moltiplicazione dei dispositivi securitari rivolti contro i diritti civili e politici dei cittadini. Stato d’emergenza anti-sociale in nome della disoccupazione e della perdita di competitività da un lato; stato d’emergenza securitario permanente dall’altro: le due vie d’uscita dalla democrazia e dallo stato di diritto si completano e si appoggiano reciprocamente.

Uscita accelerata dalla democrazia per mezzo di questa duplice e connessa radicalizzazione, neoliberale e securitaria: questa è la diagnosi che si può fare della dinamica politica dominante nella quale siamo coinvolti. La radicalizzazione neoliberale è proprio uno dei fenomeni che maggiormente caratterizzano il periodo che stiamo vivendo. Come spiegare questa radicalizzazione neoliberale? Perché e in che modo il neoliberalismo è uscito più forte dalla crisi? Questa radicalizzazione deriva dalla razionalità dello stesso neoliberalismo. La crisi, che è la conseguenza delle politiche neoliberali, è in effetti anche la causa di questa radicalizzazione neoliberale. La crisi, in tutte le sue forme, e alla luce degli aspetti più oggettivi come di quelli più retorici della propaganda ufficiale, è al tempo stesso il principale strumento e il principale argomento della disciplina che è oggi imposta alla popolazione e ai lavoratori. Questa crisi, al tempo stesso conseguenza e causa della radicalizzazione, è diventata uno strumento di governo, una razionalità per governare, un argomento costante delle riforme dette strutturali.

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manifesto

Il virus letale della condivisione

Benedetto Vecchi

Parassiti che si nutrono delle relazioni sociali e si appropriano dei profili personali. Occhi puntati sulla sharing economy e sull’industria dei Big Data. «Silicon Valley: i signori del silicio» di Evgeny Morozov per Codice edizioni. Sempre dagli Stati Uniti arriva il saggio del teorico Trebor Scholtz "Platform Cooperativism", dove viene proposta la strategia di mettere in Rete le cooperative di produzione e di servizi attraverso l'uso di piattaforme digitali aperte

fotolia 48392331 subscription monthly mSharing economy è una espressione che si è fatta largo tra la selva delle definizioni che caratterizzano il capitalismo che ha nella Rete il suo medium. Segue quella dal sapido sapore controculturale della peer to peer production, che metteva l’accento sulla condivisione alla pari di conoscenze e mezzi di produzione nella quale Internet è una neutra piattaforma per determinate attività economiche separate tuttavia da quanto accade al di fuori dello schermo. Soltanto che il confine tra dentro e fuori la Rete è svanito. La logica della condivisione, infatti, è ormai riferita ad attività produttive, di informazione, conoscenza, software. Coinvolge infatti ogni attività di intermediazione tra produzione e consumo. Inoltre la sharing economy non prevede un rapporto alla pari, bensì una relazione mercantile, dove l’attività di intermediazione prevede un pagamento di una percentuale tra produttore e consumatore. Non è un caso che i nomi usati per esemplificare la sharing economy sono Uber e Airbnb, cioè servizi di taxi e di affitto di una stanza o di un appartamento per viaggi di lavoro o di piacere. Il tutto accompagnato da una melassa ideologica sul potere del consumatore di poter scegliere il miglior prodotto a prezzi accessibili e sulla possibilità di vedere realizzati il proposito neoliberista di trasformare ogni uomo o donna in imprenditore di se stesso.

 

In nome del municipalismo

Sarebbe un errore ridurre la sharing economy a mera ideologia, perché individua una forma specifica di organizzare tanto la produzione che la distribuzione o il consumo di merci, poco importa se tangibili o «immateriali».

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illatocattivo

Gilles Dauvé e Karl Nesic, Oltre la democrazia

Introduzione

di Fabrizio Bernardi e Robert Ferro

La democrazia europea leuro e le corti Dai tempi in cui Francis Fukuyama proclamava la vittoria definitiva del capitalismo democratico e, con essa, «la fine della Storia» (cfr. La fine della Storia e l'ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1992), qualche cosa è indubitabilmente cambiata. E «la fine della fine della Storia» (come titolava poco tempo fa un articolo di Le Monde, 16-10-2014) non può che rimettere in discussione tutto ciò che, con quelle tesi, pareva acquisito: la democrazia come orizzonte politico insuperabile della contemporaneità, la fine delle classi sociali e della loro lotta, la perdita di centralità del lavoro salariato, la capacità del capitalismo a perpetuarsi indefinitamente senza «generalizzare le proprie contraddizioni» (Marx). E, almeno su questi punti, tra i vari maitres à penser del postmoderno, da quel Samuel Huntington teorico dello Scontro di civiltà (Occidente vs. Islam) fino a Impero di Toni Negri e Michael Hardt, i più strenui oppositori e antagonisti potevano, nonostante tutto, trovare un qualche terreno d'accordo.

Che le classi esistano e che la lotta di classe possa condurre oltre il capitalismo e oltre la democrazia è invece l'assunto di fondo che permea tutto il saggio di Dauvé e Nesic che qui presentiamo. E benché i temi e i riferimenti siano tutt'altro che nuovi, e non mancheranno di far storcere il naso per cotanto vecchiume, il libro che ne risulta è unico o quasi; e il suo merito fondamentale è quello di prendere finalmente sul serio il proprio bersaglio.

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contropiano2

Crisi, centralizzazione dei capitali e nuovo internazionalismo del lavoro

V. Maccarrone intervista Emiliano Brancaccio

Pubblichiamo ampi stralci di un’intervista a Emiliano Brancaccio, la cui versione integrale uscirà in cartaceo sul prossimo numero de Il Ponte

7a5c571b26903165ac7bb1ba46f04193 LUn confronto a tutto campo sui temi teorici e politici del nostro tempo, per mettere alla prova l’attualità del metodo di analisi marxista. Ma anche un’occasione per commentare le posizioni di alcuni studiosi annoverabili nella “foto di famiglia” del marxismo, tra cui Negri, Fusaro e Losurdo. Conversazione con l’autore del saggio “Anti-Blanchard”, appena uscito in edizione aggiornata, dedicato a una critica del modello macroeconomico prevalente insegnato dall’ex capo economista del FMI.

Era il 2003 quando Robert Lucas, esponente di punta del pensiero economico ortodosso nonché premio Nobel, dichiarò trionfante che «il problema centrale della prevenzione delle recessioni è stato risolto». Da allora non è passato molto tempo, eppure quell’ottimismo sembra appartenere a un’epoca lontana. L’emergere di quella che il Fondo Monetario Internazionale ha definito la “grande recessione” ha riportato alla ribalta una visione alternativa, tipica delle scuole di pensiero critico, secondo cui il capitalismo tende strutturalmente a entrare in crisi. Tuttavia, anche tra i critici dell’ortodossia le valutazioni sulle cause del disastro attuale non sono univoche. Ne discutiamo con Emiliano Brancaccio, docente di Economia politica presso l’Università del Sannio, autore di vari saggi dedicati al tema marxiano della “centralizzazione del capitale” pubblicati sul Cambridge Journal of Economics e su altre riviste internazionali.

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azioni parallele

Pierre Dardot e Christian Laval, Del Comune

di Antonino Infranca

Schermata 2015 04 13 alle 09.59.38 742x380Come ogni buon libro di filosofia, anche Del Comune parte dalla etimologia della parola. Munus in latino è “dono”; da munus viene mutuum, che indica la “reciprocità” (cfr. p. 22). Aggiungo io che risalendo all’indoeuropeo si scopre che mit, da cui proviene mutuum, indica “mettere un limite (mi)tra due punti (t)”, “formare una coppia”, “alternare”, “unire”, “capire”, “comprendere”. D’altronde il greco μάθησις è apprendimento e μάθος è conoscenza. La congiunzione tedesca mit mantiene molti di questi significati o permette, unita a verbi o sostantivi, di dare il senso dell’unità o della comprensione; ancora in tedesco rimane una presenza del munus nel gemein, “comune”, ad evidenziare che anche le lingue germaniche mantengono la stessa radice indoeuropea del latino. Ritornando a Dardot e Laval, essi concludono rilevando che cum e munus formano la parole communis e, quindi: «Il termine “comune” è particolarmente adatto a designare il principio politico di una co-obbligazione per tutti coloro che sono impegnati in una stessa attività» (p. 22) e proprio in questo senso lo usava Kant. Se c’è una co-obbligazione, questa si fonda su una co-partecipazione, quindi il comune è compartecipazione, se non si partecipa insieme non si è obbligati. Nella Rivoluzione ungherese del 1956, i due autori, riprendendo una suggestione di Castoriadis, vedono la prima rivoluzione, cioè il superamento della divisione tra la politica professionalizzata, il Partito comunista ungherese, e la società civile (cfr. p. 70). In quei giorni, tra il 23 ottobre e il 4 novembre 1956, la società civile ungherese instaurò una “politicizzazione universale della società”, che esercitava una democrazia diretta, fondata sulla vera eguaglianza politica, radicata in collettività concrete ed autogestite, i Consigli, o, per dirla in russo, i Soviet.

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manifesto

Gli spettri dell’innovazione

Benedetto Vecchi

Il capitalista di ventura, l’ingegnere e il pubblicitario. In tre saggi la descrizione di altrettante figure che operano per normalizzare la produzione di nuovi manufatti e idee. Wall Street è diventato il motore della ricerca scientifica di base e applicata. Parola dell’economista e capitalista finanziario William H. Janeway. Per il fisico Guru Madhavan, serve un pensiero sistemico modulare. È questo infatti il segreto per dare via libera alla creatività e produrre buoni manufatti. I cacciatori di idee devono infine conoscere bene «la cultura di strada» per vendere una merce sinonimo di uno stile di vita. Il saggio di Wally Olin per Einaudi

16clt1cloudphoto1 doug wong1Il capitalista di ventura, l’ingegnere, il pubblicitario. Tre figure attorno alle quali è stata cesellata la retorica dell’innovazione, la parola magica per legittimare socialmente il capitalismo come la forma forse imperfetta ma migliore di tante altre nell’organizzare le relazioni umane.

Il capitalista di ventura è, recita la vulgata, colui che mette in rapporto il denaro con le idee. Ha cioè il compito di raccogliere gli iniziali finanziamenti per far decollare iniziative economiche tese alla produzione di prototipi, che in secondo momento possono diventare prodotti da mettere sul mercato. Definisce dunque lo spazio per l’incontro tra la finanza e la produzione.

Nell’immaginario collettivo è rappresentato come un personaggio eccentrico restio a mostrarsi in pubblico. Opera dietro le quinte, da dove svolge un’opera di paternage rispetto a uomini – le donne sono poco presenti – che possono avere idee brillanti ma sono incapaci di fare i conti con la realtà.

Nella ormai vasta pubblicistica sull’innovazione il venture capitalist è altresì qualificato come un avido ma pragmatico e lucido corsaro: il suo è il pragmatismo del giocatore d’azzardo. Tutto deve essere calcolato, pianificato, anche il rischio di fallimento.

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linterferenza

Il sessantotto

Armando Ermini

Proseguiamo la riflessione sul ’68 che abbiamo iniziato alcuni giorni fa in seguito alla pubblicazione di una breve ma significativa testimonianza del compianto filosofo marxista Stefano Garroni, con questo interessante contributo  di  Armando Ermini che riportiamo di seguito. Si tratta di un argomento molto controverso in grado di suscitare ancora, a distanza di tanti anni, un vivace e accesissimo dibattito. Saremo ovviamente felici di ospitare i contributi di tutti coloro che volessero esprimere la loro opinione sul tema. 

734“Ripensare quel periodo della nostra storia non solo è legittimo ma anche doveroso. Oggi, lontano dal fuoco della lotta di quegli anni, lo possiamo fare con più razionalità e realismo, solo che  si abbia la volontà e la lucidità necessarie.  Proprio quello che la grande maggioranza di chi a quel movimento partecipò si rifiuta  di fare fino in fondo.  Non si tratta  di nostalgia per i giovanili anni ruggenti, né di fare i cantori  dell’immobilismo ideologico.  Il cambiamento,  nello sforzo di capire la realtà che ci circonda, anche per trasformarla,  è  non solo normale ma anche inevitabile. Non si tratta nemmeno di rinnegare alcunchè, di fare abiure del passato o simili penose pratiche. Si tratta “solo” di  tentare di capire se, dove e perché sbagliavamo; non nel desiderare astrattamente un mondo diverso, ma nel come realizzarlo concretamente.  Non sto pensando, ovviamente,   a quei figli dell’alta/media borghesia in “libera uscita”,  passati in breve tempo con la nonchalance degli snob, dai gruppi dirigenti duri e puri  di Potere Operaio o Lotta Continua al board di una Società per azioni. E nemmeno a coloro i quali,  bloccati in ferree e malintese armature ideologiche, sono sconfinati nella follia terroristica scambiandola per lotta di classe. Sto invece pensando alla massa di studenti di estrazione piccolo borghese diventati il nucleo forte dell’intellighenzia,  nei giornali, nelle TV, nelle case editrici , nella scuola e nell’università, insomma in tutti quei luoghi dove si forma il consenso. Essi si ostinano a  credere di aver fatto qualcosa di grande e di rivoluzionario, magari non concluso causa il destino cinico e baro, ma comunque nel flusso di una trasformazione sociale positiva e rivolta ad una più ampia libertà.

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manifesto

A tutto profitto

Paolo Ercolani

Friedrich Hayek: un ritratto a tutto tondo del pensatore austriaco di quel liberismo reazionario che è tornato di moda con il dominio del potere tecno-finanziario. Le sue controverse teorie sembrano essere un vademecum per i governanti di oggi

um 1920 richard ruisinger privatarchiv michael eisenrieglero1Le cronache giornalistiche del tempo riferiscono che, durante una concitata riunione del suo governo, Margaret Thatcher di fronte ai suoi ministri che litigavano fragorosamente, sbatté un grosso tomo sul tavolo esclamando: «Basta signori, è inutile dividersi. La nostra bibbia è contenuta in questo libro. Esso ci indicherà la strada!».

Quel librone degli anni Sessanta del secolo scorso (The Constitution of Liberty) era lo stesso in cui Friedrich Hayek si lanciava in un’accorata e nostalgica esaltazione della Svizzera in cui le donne non avevano il diritto di voto (e in generale i diritti politici) e, nella ricostruzione dello stesso autore, erano per giunta contente di questo fatto.

Le possibilità allora sono due: o la signora Thatcher, donna e primo ministro inglese, non aveva letto quella che lei stessa considerava la bibbia del suo governo, oppure non si riteneva appartenente a un genere specifico e, quindi, accettava di conferire a quel volume un così grande valore, malgrado la discriminazione anacronistica nei confronti della popolazione femminile, contenuta fra le sue pagine.

In ogni caso, i conti non tornavano. O meglio, non tornavano per quel tempo, quando il liberalismo riteneva di aver costruito da solo le democrazie occidentali (sconfiggendo il comunismo), e Hayek veniva da molte parti presentato come «il più grande liberale del Novecento».

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micromega

Il fordismo individualizzato e lo storytelling della sharing economy

di Lelio Demichelis

sharing economy 510 sNon crediamo più a Babbo Natale e neppure alle sue renne, però crediamo alla rete, ai motori di ricerca, a Facebook e oggi anche alla sharing economy. Abbiamo creduto – e in molti lo credono ancora - che la rete fosse libera e democratica e magari anche un poco anarchica. Che si potessero fare le rivoluzioni via Facebook e via Twitter. Credendoci, abbiamo adottato senza accorgercene ma pieni di tecno-entusiasmo il nuovo dizionario che veniva proposto e imposto, necessario per la costruzione di una nuova lingua universale, omologante, pedagogica, a una sola dimensione (tecnica & economica), fatta per integrare tutti in rete, per diventare tutti capitalisti, competere contro tutti, crederci individui liberi e libertari, essere in una nuova era, in una nuova economia, in una vita tutta nuova.

Recentemente l’abbiamo definita come LII, Lingua Internet Imperii - attualizzando le riflessioni e il titolo del libro Lingua Tertii Imperii del filologo tedesco Victor Klemperer. Analisi di come il nazismo sia arrivato a conquistare il potere anche usando la parola e non solo la violenza, attivando un processo minuzioso, incessante e pervasivo di sostituzione del senso delle parole con quello dettato/richiesto dall’ideologia nazista, dando cioè alle parole un significato progressivamente diverso (e a farlo condividere) da quello che avevano per tradizione e per dizionario. Una trasformazione della lingua e del linguaggio utile/necessaria alla costruzione e poi alla accettazione di massa (il conformismo, oggi si chiama effetto rete) della nuova lingua del potere e alla introiezione da parte di ciascuno di ciò che il potere voleva (e che vuole oggi: la connessione di tutti con tutti e con la rete e con il mercato, ma tutti rigorosamente separati dagli altri, incapaci di fare società e di autonomia, ma attirati da tutto ciò che fa comunità).

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il ponte

Il naufragio della «modernità» del capitalismo

di Lanfranco Binni

naufragioOrmai siamo ai bollettini di guerra, di una guerra postmoderna in cui implode il cortocircuito tra «antico» e «moderno», tra mezzi convenzionali (i bombardamenti, il terrorismo, le rappresaglie, la propaganda, la disinformazione) e nuove tecnologie di distruzione (le campagne di comunicazione, i nuovi armamenti hi-tech). Dietro la «strategia del caos», della guerra di tutti contro tutti (dalla geopolitica all’esercizio quotidiano del dominio di potere sulle singole esistenze), un lucido e «antico» disegno di natura esclusivamente economica: la tenace resistenza del modo di produzione capitalistico alla crisi del suo insostenibile «modello di sviluppo» che sta devastando il pianeta. Le devastazioni strutturali, in nome delle necessità dei mercati finanziari (l’«uovo del serpente»), procedono in stretto rapporto con devastazioni politico-culturali sempre più rabbiose: la supremazia indiscutibile (da non mettere in discussione) della «civiltà» dell’imperialismo occidentale, lo svuotamento della democrazia formale a cui contrapporre i «valori» della predazione economica e del consumo forzato di merci, del malthusianesimo, della xenofobia, la divisione profonda tra le vittime della guerra economica e militare, schierate come complici subalterni e «rifiuti» da schiacciare.

La guerra è apparentemente «a pezzi», in scenari geografici diversi, ma in realtà è globale, unificata da un modo di produzione complesso e articolato, con differenze al suo interno e retroterra storici che determinano strategie diverse.

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militant

L’impossibile economia pubblica

Il paradosso ideologico dell’articolo 81 della Costituzione di fronte al nuovo ciclo di privatizzazioni

Militant

coor operaio amaL’approvazione del nuovo articolo 81 della Costituzione, avvenuta con il consenso di tutto l’arco parlamentare nel maggio 2012, è all’origine del nuovo paradossale ciclo di privatizzazioni dei restanti lembi di economia pubblica italiana. Nel giro di pochi mesi sono state privatizzate Poste e Ferrovie (quest’ultime ancora in corso di privatizzazione), gli ultimi due colossi economici ancora di proprietà statale, senza che nessuno abbia avuto da ridire e anzi con il benestare di tutte le forze politiche. Le stesse che da anni spingono per la definitiva privatizzazione di tutta l’economia “municipalizzata”, quella cioè legata ai servizi pubblici comunali. E questo per l’ormai dichiarato motivo per cui se tra ceti politici c’è una lotta allo spodestamento del gruppo concorrente, socialmente tutti i “rappresentanti” politici in parlamento condividono lo stesso modello economico, il liberismo, nelle sue vesti corporative (centrodestra) o transnazionali (centrosinistra). Se però nel precedente ciclo di privatizzazioni, tra la metà degli anni Novanta e i primi Duemila (sempre inequivocabilmente a trazione centrosinistra, tanto per non confondere i protagonisti in campo), le giustificazioni erano sostanzialmente di due tipi: da una parte “fare cassa” con la vendita di determinati beni pubblici; dall’altra migliorare l’efficienza delle imprese sottratte al controllo statale, oggi è intervenuta una nuova e più sottile opera di convincimento: la privatizzazione è la soluzione al problema degli investimenti produttivi, investimenti impossibilitati allo Stato per via del “debito pubblico” o dei “vincoli europei” (qui, quo e qua per rendersi conto di cosa parliamo, ma ancora qui). Ci troviamo di fronte però ad un paradosso zenoniano, stranamente poco rilevato da chi vorrebbe opporsi al governo Renzi. Secondo tutti gli analisti economici, l’unico modo per far ripartire la domanda e dunque l’occupazione è quello di far ripartire gli investimenti.