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“Come finira’ il capitalismo?” Anatomia di un sistema in crisi

di Sergio Leoni

IMMAGINE LIBRO STREEK Recensione LeoniNel punto interrogativo del titolo di questo libro è già espresso il senso e il tema che l’autore sviluppa in più di trecento pagine fortemente argomentate, di lettura chiara ma non facile e che dunque richiede una buona dose di volontà di comprendere tesi che oggi, rispetto al “senso comune”, appaiono quantomeno eccentriche se non eretiche.

L’autore, secondo le stringate note nella terza di copertina , è “sociologo ed economista tedesco”. Direttore emerito del Max Planck Institute for the Study of Societes di Colonia. Membro dell’ Accademia delle Scienze di Berlino e Corresponding Fellow della British Academy”.

Qualcosa di più è possibile sapere su questo autore attraverso i soliti canali (wikipedia in questo caso): ha studiato nella Università Goethe di Francoforte, negli anni in cui l’omonima scuola di Horkeimer e Adorno è stata al centro o comunque parte essenziale del dibattito filosofico e politico a cavallo degli anni 60/70.

In ogni caso, questo testo si colloca del tutto al di fuori di quello che è stato, negli ultimi decenni, un mainstream cui si sono adeguati, in maniera più o meno convinta, la gran parte degli storici, dei filosofi, degli economisti. Senso comune, detto in parole povere, secondo cui, con la caduta del muro di Berlino, con la fine, evidentemente più dichiarata che effettivamente realizzata, della guerra fredda, il modello capitalistico, non solo occidentale ma perfino “mondiale”, sarebbe diventato il solo e unico scenario, l’unico modello economico possibile, l’unica forma di strutturazione della società, l’unica e definitiva “visione del mondo”.

Fukuyama arrivò addirittura a parlare, nel suo “La fine della storia e l’ultimo uomo” della fine, appunto, di quel meccanismo complesso, talvolta difficilmente decifrabile, che è rappresentato dalla dialettica costante e senza fine dei rapporti umani che chiamiamo normalmente “lo studio della storia”. Quello stesso meccanismo che gli storici considerano il loro campo di studio specifico, ma che è anche campo di riferimento per altra discipline, a partire dalla filosofia con la sua pretesa, spesso fondata, di saper sintetizzare gli epifenomeni in un quadro leggibile e duraturo.

Gli avvenimenti che si sono susseguiti, intanto, già a ridosso della caduta del muro di Berlino, ma soprattutto negli anni successivi, hanno fatto diventare questa proposizione, a dir poco semplicistica, più un auspicio che una obiettiva analisi, e ha finito per collocarsi nell’ambito di tesi suggestive di autori che godono di una effimera notorietà per un breve periodo e sono poi inesorabilmente consegnati all’oblio; oppure, e forse è un destino ancora peggiore, sono ricordati, in senso negativo, per aver del tutto sbagliato analisi e previsioni.

Streeck, in qualche modo, smonta la struttura di questa vulgata che, Fukuiama a parte, vorrebbe il capitalismo vincente a livello mondiale in una realtà in cui questo stesso capitalismo sarebbe l’unica struttura possibile, destinata ad essere l’unica forma possibile di organizzazione della società.

Ora, non si può certo dire che Streeck ribalti in maniera aprioristica queste improbabili posizioni, con quella che sarebbe, tra l’altro, e a sua volta, una altrettanto rigida e infondata lettura della realtà.

Il suo modo di procedere, al contrario, è del tutto piano e razionale, guarda ai dati, si esprime attraverso proposizioni che hanno nella logica la loro essenza e il loro fondamento.

Alla base del suo pensiero, e comunque ben presente come premessa, pare di cogliere un dato che dovrebbe essere razionale e condiviso e che, al contrario, viene puntualmente ignorato: in tutta la storia dell’umanità che conosciamo (e ne conosciamo la stragrande maggioranza), nessuna struttura politica, sociale, economica, è durata per sempre. Ognuno dei grandi epifenomeni, sociali, economici e politici, hanno invariabilmente avuto un inizio e una fine. E semmai si sono solo potuti distinguere tra loro per il tempo in cui si sono consolidati e poi sono invariabilmente finiti. L’unica distinzione sarebbe dunque la “durata”

La storia, quella che chiunque abbia fatto un minimo di scuole, è piena di esempi che sostengono e rafforzano questa evidente tesi. Citiamo solo un paio di esempi, eclatanti del resto: l’impero romano, della cui fine molti soggetti in anni che si spingono fin dentro all’alto medioevo, ma anche oltre, non si sono potuti rassegnare e hanno coltivato il sogni impossibile di una sua rinascita; le monarchie europee, l’impero Austro Ungarico, l’Impero Ottomano, la Germania di Guglielmo II,tutti crollati all’indomani della sconfitta patita sui campi “dell’inutile strage” della Prima Guerra Mondiale.

Si potrebbero del resto fare altri moltissimi esempi.

Ma qui conviene forse porsi una domanda di non poco conto.

Se tutto è destinato a finire (e vedremo presto che questa idea è quantomeno “imprecisa”), in che modo è possibile conciliare il senso “comune”, che sembra più uno slogan che una reale analisi della realtà, con la percezione vissuta dal singolo individuo come una “impossibilità”, un cambio di orizzonte di cui sente di non poter essere partecipe, che gli sembra appartenere ad una dimensione a cui egli stesso non ha accesso? La realtà, nel senso comune, appare immutabile. La “storia” sembra appartenere ad un ambito che in nessun modo può coinvolgere il singolo individuo, se non nel senso di costringerlo a scelte che forse non avrebbe, nella maggioranza dei casi, voluto affrontare.

Ora, la tentazione di fare paragoni, creare parallelismi tra avvenimenti anche molto lontani nel tempo, continua, non senza ragione in certi casi, a informare una lettura della realtà secondo cui la storia dell’umanità si riprodurrebbe sempre uguale a se stessa, salvo cambiare ogni volta la “forma” con cui si presenta.

Le cose, una avvertita storiografia lo sostiene da tempo, sono un po’ differenti.

Provo a dirlo con un esempio.

Nel 1971 la casa editrice di Bologna, “Il Mulino”, edita un testo uscito nell’allora Unione Sovietica nel 1958: “Popolo e movimenti popolare nell’Italia del ‘300 e ‘400”. L’autore , Victor Rutemberg, era al tempo professore di Storia italiana e di Storia medievale all’ Università di Leningrado.

La tesi di fondo di questo libro, che presto divenne nell’ambiente universitario, e non solo, un testo di riferimento per tutti coloro che volevano “leggere” la storia in un’ottica non conformista ma al contrario attenta a tutti i legami, sotterranei o apertamente espressi, che sembravano diventare evidenti in un momento storico in cui si “rivedeva” in maniera fortemente critica la storia nel suo insieme, appariva in quegli anni decisamente “alternativa”.

Rutemburg sostiene in questo libro, che è diventato a suo modo un classico per una fetta non insignificante di studiosi, come i singoli episodi lotta nel Medioevo italiano, su cui spicca per importanza e a cui giustamente sono dedicate molte pagine del volume quella del “tumulto dei Ciompi” di Firenze, sono altrettanti episodi di quella che si potrebbe considerare già a pieno titolo come esempi di “lotta di classe”. Naturalmente, e non solo per ragioni di spazio, sto semplificando una tesi che ha sfumature molto più sofisticate e un corso logico che apparve ai suoi tempi, e peraltro sembra ancora avere, una sua logica stringente e fortemente motivata.

Sono restio, se non altro per ragioni anagrafiche e di frequentazione di quello che apparve a suo tempo come un libro davvero innovativo rispetto ad una presunta cultura ingessata, a criticare la tesi di fondo del libro. Che è quella, ripeto, secondo cui nella storia universale alcuni episodi appaiono anticipatori, se non prodromici, a quelli che poi saranno i grandi movimenti che si svolgeranno in un futuro più o meno lontano.

E’ decisamente suggestivo credere che il tumulto dei Ciompi sia stato uno dei primi atti rivoluzionari. Lo è altrettanto, con questo criterio, credere che la rivolta di Spartaco ai tempi della repubblica romana, abbia rappresentato una sorta di embrione rivoluzionario.

Qualcuno ha detto che ogni analogia è falsa.

Forse, più semplicemente, le analogie non riescono a decifrare l’attualità. E non converrebbe piegare fatti storici, di cui peraltro l’analisi e la critica non può essere mai univoca, alle esigenze di una attualità che, in qualche modo, è troppo piegata sul presente e manca del “campo lungo” di cui ci sarebbe, viceversa, grande necessità.

La tesi di fondo di Streek, che parte da un’ analisi della grande crisi finanziaria del 2008, è che, brutalmente, il capitalismo ha in sé tutti gli elementi, tutte le condizioni per autodistruggersi. La sua stessa esistenza, in una situazione “normale”, vira inevitabilmente verso “la catastrofe”. L’unico modo per salvare se stesso, l’unica via, è quella della “crisi”. Delle crisi, per essere più precisi, che costellano la storia del capitalismo fin da quando esso si è imposto come un sistema pervasivo e totalizzante.

“Infatti”-scrive Streek- “la storia del capitalismo moderno può essere interpretata come una successione di crisi a cui il capitalismo è sopravvissuto solo al prezzo di profonde trasformazioni delle sue strutture economiche e sociali, che lo hanno salvato dalla bancarotta in modi imprevedibili e spesso involontari”.

Ancora: “Alla luce dell’instabilità intrinseca delle società moderne fondate e plasmate dinamicamente da un’economia capitalista, non c’è da meravigliarsi se le teorie del capitalismo, dal momento in cui il concetto fu adoperato per la prima volta all’inizio del 1800 in Germania e alla metà del medesimo secolo in Inghilterra, si sono sempre prefigurate anche come teorie della crisi. Ciò vale non solo per Marx ed Engels, ma anche per scrittori come Ricardo, Mill, Sombart, Keynes, Hilferdink, Polaniy e Schumpeter, che si aspettavano tutti, in un modo o nell’altro, di assistere, nel corso della loro vita, alla fine del capitalismo”.

Anche perché, occorre aggiungere, il rapporto tra il sistema capitalistico e le strutture politiche degli stati è stata tutt’altro che lineare e costante.

In realtà, nota l’autore, “Il capitalismo, un modo non violento e civilizzato di auto-arricchimento materiale attraverso lo scambio di mercato, ha dovuto districarsi dal feudalesimo in alleanza con l’anti-autoritarismo liberale e con i movimenti popolari per la democrazia. Tuttavia, l’associazione storica tra capitalismo e democrazia è sempre stata un’associazione scomoda segnata, soprattutto nei periodi precedenti, da un forte sospetto reciproco”.

Tesi da cui sembra di poter evincere che il capitalismo in quanto tale può servirsi di diversi sistemi politici, secondo convenienza, secondo le sue esigenze che, evidentemente, non coincidono con quegli stessi sistemi politici e con le leggi che li governano, e verso cui ostentano un totale disprezzo.

E infatti: “Alla fine degli anni 60, divenne chiaro che il capitalismo e la democrazia non potevano operare fianco a fianco senza minarsi più o meno efficacemente a vicenda”.

“Infine- scrive ancora Wolfgang Streek, – studiare il capitalismo contemporaneo significa studiare una stile di vita, nonché un ordine sociale storico, una cultura e una politica”.

Siamo di fronte, mi pare, ad una affermazione che, seppure non possa essere certo considerata una novità, pure va ribadita come estremamente importante. Il capitalismo informa ormai con i suoi “metodi” l’intera società in ogni suo aspetto, sia esse economico, culturale, artistico: insomma “politico” nel senso più nobile del termine.

La consapevolezza di questa pervasività, a parte gli esempi dei grandi rivoluzionari che sono in qualche modo sempre un passo avanti rispetto alla coscienza collettiva, diviene evidente, perché si rende esplicita senza infingimenti, negli anni del secondo dopoguerra e soprattutto, come già accennato, alla fine degli anni sessanta. Ma, una volta di più, non siamo di fronte ad una consapevolezza collettiva e condivisibile, ma più semplicemente, ad una presa di coscienza che ha riguardato soltanto alcune minoranze; significative, ma pur sempre minoranze.

Minoranze, anche oggi, fortemente osteggiate non solo dalla cultura politica mainstream ma anche da tutte quelle sedicenti opposizioni che non sanno o non vogliono scientemente leggere una fase politica che non è certo difficile interpretare per quello che è: un passo indietro rispetto a ogni singola conquista faticosamente ottenuta nei decenni precedenti. In Italia gli esempi sono così eclatanti che non vale neanche la pena di citarli. Nel resto dell’Europa di Maastricht, una critica profonda non è stata mai avviata se non da gruppi fortemente minoritari.

I temi, gli interrogativi, le questioni che questo prezioso libro propongono sono difficilmente esprimibili nell’ambito di un semplice articolo che ha solo la pretesa di essere uno stimolo alla lettura di un libro che, se non mi sbaglio, non ha avuto in nessun modo il rilievo e la risonanza che merita. Se questo sia un segnale ulteriore della capacità del sistema capitalistico di neutralizzare ogni dissidenza, ed eventualmente di banalizzarla, è questione che appare fin troppo chiara e testimonia come una società strutturata sul modello capitalista non ha, per quanto molti pensino in contrario, quella finezza, quella capacità di interpretare la cultura corrente e , eventualmente, di criticarla. Non per nulla le politiche culturali degli stati governati e comunque tenuti sotto tutela dal sistema capitalistico, sono essenzialmente “conservative”, laddove non apertamente “regressive”, facendo il paio, del resto, con le altrettanto politiche repressive riguardanti sfere come la sessualità, maternità e questioni inerenti.

Il libro, infine, dedica poi non poche pagine alla questione dell’introduzione dell’Euro e degli effetti che questa nuova moneta ha creato non solo in ambito finanziario ed economico, ma anche, e soprattutto, in un ambito che l’economia conosce solo tramite le statistiche e che è invece, più prosaicamente ma spesso drammaticamente, la vita reale delle persone.

Scrive infatti Streek: “Nonostante l’idea europea-o meglio l’ideologia-l’euro ha spaccato l’Europa in due. Come motore di un’unione sempre più stretta, il bilancio della moneta è stato disastroso.

E infine, nel capitolo “Come studiare il capitalismo contemporaneo”, l’Autore scrive: “Il fatto che il capitalismo rivoluzioni permanentemente le società in cui vive è ancorato al suo tessuto istituzionale, in particolare alla legittimità che conferisce alla concorrenza-al privare i propri pari dei loro mezzi di sostentamento superandoli- e all’assenza di un tetto al legittimo guadagno economico”.

Privare i propri pari dei loro mezzi di sostentamento: ne vediamo le conseguenze ogni giorno, e ad ogni latitudine.

Comments

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Franco Trondoli
Tuesday, 13 December 2022 13:57
Come finiremo "noi" non il Capitalismo !!, esso è vivo e vegeto e ci fa danzare come spettri..
Cordiali Saluti
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