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La pluralità del capitalismo

Per rileggere il neoliberismo

Stéphane Haber

Di fronte al capitalismo odierno, una tendenza della riflessione filosofica abbandonata a se stessa consiste nel concedersi alla vertigine inebriante dell’assolutismo, forma sofisticata di disfattismo.

Bisogna ammetterlo: vi è sempre stato un piacere torbido nell’evocare un capitalismo onnipotente e senza limiti; un capitalismo che avrebbe già conseguito tutte le vittorie essenziali e che non farebbe più, ormai, che girare a vuoto in modo aberrante, in totale assenza di frizioni e sorprese. [1] Si noterà del resto che questo assolutismo pare in consonanza con l’immaginario contemporaneo tipico di certa cultura visiva di massa, la quale ammicca all’idea di un sistema inglobante e invisibile, capace di funzionalizzare anche le rivolte più intime – come in Matrix. A Hollywood le distopie hanno in effetti cambiato natura da molto tempo. Le dittature violente (tipo1984) hanno ceduto il passo a una dominazione sottile ma totale dell’intelligenza artificiale, della programmazione e della rete universale. Tale funzionalismo completa il catastrofismo compiacente che si realizza altrove (fine del mondo, distruzione totale) e rinnova il mito della macchina affrancata che si rivolge contro il suo stesso creatore.

L’attrazione per il cinema di una parte del pensiero filosofico attuale, da Jameson a Žižek, trova sicuramente una risorsa importante in queste affinità naturali del mood assolutista.

Così è tramontata l’epoca in cui troppa filosofia tendeva a spalleggiare, senza distanza critica, la «grande narrazione» delle contraddizioni fatali che dovevano portare il sistema (presto e ineluttabilmente) alla propria rovina. La filosofia «pura» si riconosce ormai per la sua inclinazione ad ammettere immediatamente una versione qualsiasi delle immagini del capitalismo come mostro freddo e imperturbabile. Da questo punto di vista gli schemi tratti da Hegel (il Soggetto assoluto capace di sormontare e metabolizzare ogni alterità) o da Heidegger (l’auto-affermazione incondizionata della Tecnica come destino della modernità) offrono risorse in apparenza inesauribili.

Tuttavia diciamo subito che non c’è nulla di assolutamente falso nell’assolutismo filosofico, salvo la sua incapacità metateorica di comprendersi come una posizione possibile tra le altre, le quali appaiono, a seconda degli interessi conoscitivi, altrettanto legittime e interessanti. Una verifica indiretta potrebbe del resto essere fornita dal fatto che l’interpretazione legittima dell’eredità di Marx dev’essere capace di giocare su due versanti: prendere le misure di un sistema o di una potenza storicamente dirompente; ridurre questo sistema e questa potenza a elementi più semplici, più limitati, magari più ambigui. Il capitale, in ogni caso, non rappresenta esclusivamente il dispiegamento dell’unico motivo del capitale come «soggetto automatico», elevato dal capitalismo al rango di autore anonimo della Storia. Nel terzo volume del suo capolavoro, per esempio, Marx parla chiaramente dell’addensamento organizzativo dell’impresa provocato dalla concentrazione (complessificazione, divisione dei compiti), poi della finanziarizzazione dell’economia e infine della commercializzazione dei consumi come di tre processi autonomi ma interconnessi che manifestano la potenza espansionistica del capitale.

Ciò nonostante, ogni volta, è una fenomenologia particolare che viene richiesta; sono fenomeni quali la capacità d’investire degli universi economici preesistenti, che possiedono una lunga storia precapitalista o extracapitalista (il credito, il commercio), a essere contestualmente evidenziati. Uno degli insegnamenti che si può continuare a trarre dal Capitale è dunque che il capitalismo non appare mai solamente come l’espressione trasparente di una potenza travolgente, quasi metafisica, ma sempre anche come un insieme di dinamiche economiche particolari, di processi storici localizzabili, di trasformazioni istituzionali determinate, la cui coerenza sistemica si disegna in seguito a una dettagliata descrizione. Ci sono due momenti della riflessione che devono articolarsi e correggersi mutualmente.

La scelta di accordare tanto spazio alla strategia analitica si rivela importante per lo studio della fase attuale o, meglio, delle «configurazioni» attuali del capitalismo. Così, per esempio, queste configurazioni non rivelano solamente l’esistenza di una collusione persistente tra capitalismo e statalismo che marca profondamente ciò che il capitalismo è concretamente. Ma manifestano anche una congruenza più generale tra la dinamica espansionista che definisce quest’ultimo e le potenze animate da una tendenza alla scalata, come la burocrazia. Qui la forma conta quanto il contenuto. Detto altrimenti, queste differenti, grandi forze che si definiscono per una sorta di tendenza a generare, secondo una razionalità inquietante, le condizioni della propria riproduzione allargata e illimitata finiscono per attrarsi, per formare delle simbiosi che una storia naturale delle forme sociali deve persistere a inventariare.

Il capitalismo non avanza dunque tutto da solo. E, in definitiva, il neoliberismo [2] non rappresenta tanto il trionfo del «mercato» quanto, piuttosto, il trionfo di sintesi a volte surreali tra «il mercato» e certi poteri (statali o altri) che funzionano oggi alla stessa maniera, tramite la dipendenza nei confronti dell’espansione, tramite l’ebbrezza che procura la scalata permanente. Così non è augurabile che la parola «neoliberismo» sia utilizzata per esprimere l’intuizione vaga di un capitalismo scatenato, giunto alla sua essenza irrazionale e totalitaria, poiché nessun marchio del destino è ravvisabile in questa vicenda. In quanto regime economico, e ancor più in quanto forma sociale e politica, il neoliberismo «realmente esistente» (che del resto non è presente ovunque) appare pure come una composizione di molteplici eredità (tra cui lo statalismo), come una sintesi movente di tendenze eterogenee, di dispositivi arrangiati secondo circostanze e luoghi. Qualche istante di riflessione storica controfattuale basta del resto a convincerci che tutto avrebbe potuto prendere pieghe diverse. L’esaurimento del fordismo avrebbe potuto tradursi in altri arrangiamenti rispetto a quelli che hanno prevalso e che hanno condotto ai disastri della crisi finanziaria attuale.

Ora, la lettura di Marx e la conoscenza del marxismo classico non bastano più a renderci sufficientemente sensibili circa l’esistenza di fasi, tipi e configurazioni irriducibili del capitalismo, proprio quando questa sensibilità appare come la condizione indispensabile per una comprensione prudente e sfumata del «fatto» capitalista. Nel paesaggio contemporaneo si possono individuare però grandi riferimenti che permettono di meglio conferire un carattere di effettività al concetto di «capitalismo». Si tratta delle teorie dei sistemi-mondo (di cui Immanuel Wallerstein è il difensore più celebre), dei prolungamenti della teoria della regolazione e infine degli approcci storicizzanti del capitalismo (di cui Fernand Braudel ed Eric Hobsbawm hanno proposto modelli decisivi).

Il loro interesse comune per la diversità del capitalismo significa innanzitutto che la fine della storia non è tema d’attualità. Le discussioni attorno agli sviluppi cinesi forniscono un’ottima illustrazione di questo principio. Per quale motivo, presso alcuni autori familiari con gli approcci storici e sociologici del capitalismo vicini ai riferimenti appena citati, sussistono simpatie nei confronti della Cina risalenti alla tradizione europea dei Voltaire, dei fisiocratici e degli Adam Smith? Queste consonanze tentano semplicemente di ridare una chance alla sensibilità per la pluralità di vie d’uscita possibili dal fordismo che aveva così fortunatamente segnato certe discussioni degli anni Ottanta, prima che le cose si semplificassero drammaticamente nei due decenni successivi, anestetizzando la riflessione. [3]

Così Giovanni Arrighi [4] e Michel Aglietta [5] si distinguono chiaramente nell’interpretazione della recente crescita cinese. Per il primo, in fin dei conti, essa si spiega come una variante del mercantilismo tradizionale: è la vendetta tardiva dell’avversario eletto del liberismo economico classico. Per il secondo la Cina illustra un tentativo, senza dubbio imperfetto ma in ogni caso meno catastrofico del neoliberismo imposto dagli Stati Uniti a un mondo a metà consenziente, di superare i limiti propri della configurazione fordista. Alla meglio, in Cina – pensa Aglietta – ci si orienta verso un capitalismo organizzato politicamente, in teoria ostile alla pesantezza delle vecchie gerarchie tayloriste e fordiste, aperto alla società della conoscenza e allo spirito di responsabilità (in particolare ambientale) che essa dovrebbe implicare. Malgrado questa divergenza i due economisti concordano nel vedere nell’esperienza cinese un segno di apertura secondo cui il capitalismo non ha terminato la sua corsa, offrendo ancora opportunità da cogliere.

A proposito delle idee di Arrighi o di Aglietta sarebbe facile sospettare l’influenza di un ottimismo irragionevole, testimone dell’incurabile bisogno di credere all’esistenza di un «senso» nel corso della storia. Parlando di un seguito post-neoliberale (di cui la Cina potrebbe mostrare qualche tratto), per il capitalismo globale non pare verosimile, in effetti, che forze sociali si rivelino capaci di proporre contenuti accettabili: altre pratiche, altre istituzioni, altre forme di vita verso le quali procedere. L’errore dei due autori è senza dubbio quello di sottostimare questo elemento sociologico. Da questo punto di vista l’immensa energia morale oggi dispiegata nelle pratiche altereconomiche – cooperative, usi alternativi del denaro, economia sociale e solidale, produzione e consumo socialmente ed ecologicamente responsabili… – gioca un ruolo cruciale, sebbene non tutto si decida in questo ambito. La constatazione che «il capitalismo non esiste» poiché in realtà ci sono vari capitalismi, si rivela dunque avere, in ultima istanza, un fondamento pratico.

Ad ogni modo, come diceva Keynes a proposito dell’influenza dei mercati finanziari, «we simply don’t know». All’occorrenza, non sappiamo se un superamento in debita forma di ciò che chiamiamo «capitalismo» sia immaginabile (e perfino semplicemente auspicabile) a titolo di possibilità prossima o lontana. Non sappiamo se il «socialismo» o il «comunismo», invece di essere invocati come essenze platoniche o promesse risolutivo-miracolose, potranno diventare i principi organizzatori di trasformazioni sociali al contempo radicali, inglobanti, internamente coerenti, durature e capaci di suscitare l’adesione delle masse. Ciò di cui dobbiamo essere assolutamente sicuri, in compenso, ponendoci all’incrocio tra gli approcci «globali» all’Aglietta o all’Arrighi e gli approcci «locali» più attenti alle sperimentazioni altereconomiche, è che esistono modi intelligenti e realistici di evitare gli errori, le esagerazioni e le vere e proprie follie che nei tre decenni passati hanno prodotto ciò di cui parlava Marx nel libro terzo: i fenomeni legati alla pressione del profitto sull’organizzazione imprenditoriale del lavoro, alla commercializzazione illimitata del consumo e alla finanziarizzazione galoppante. Gli approcci «empirici» (storico-sociologici) al capitalismo, riconducendoci alla complessità dei fatti, ci riportano anche a un’economia che resta una dimensione della vita sociale prima di affrancarsi da quest’ultima alla maniera di un «sistema» tanto autistico quanto imbestialito. Ad ogni modo, questi approcci ci confrontano con il compito di concepire un futuro che, senza appartenerci completamente, non è tuttavia già scritto in anticipo. La riflessione filosofica non ha che da guadagnare da questa doppia operazione.


Traduzione dal francese di Davide Gallo Lassere

1  Cfr. Diego Fusaro, Minima mercatalia, Bompiani, Milano, 2012; J. Vioulac, La logique totalitaire,PUF, Parigi, 2013.

2  A differenza dell’italiano, il francese (come molte altre lingue europee) non distingue tra liberismo (economico, sempre cattivo) e liberalismo (politico, più o meno buono secondo le prospettive).La penetrazione economica della sfera politica avviata con il declino del laissez-faire negli anni Trenta e analizzata dalla celebre lettura foucaultiana della biopolitica offre inoltre un’ulteriore legittimazione a tale opzione terminologica.

3  Cfr. Alain Lipietz, Mirages et miracles, La Découverte, Parigi, 1985.

4  Cfr. Giovanni Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano, 2008.

5  Cfr. Michel Aglietta, Guo Bai, La voie chin
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