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Produttività e Pil: quando l'ovvio cela l'inganno

Valerio Selan

Nei calcoli delle due grandezze si danno per scontati alcuni aspetti che non lo sono affatto: che si possano misurare separatamente tutti i fattori che contribuiscono alla prima, per esempio; e quanto alla seconda, se si calcolasse correttamente il deperimento del capitale sociale i risultati sarebbero assai diversi. Si tratta di inganni statistici funzionali a determinate scelte politiche

parco amendola 280x210I dibattiti economici e socio-politici si svolgono non di rado nella nebbia di quelli che potremmo definire "i grandi inganni". Non vi è nulla di più pericoloso dell'ovvio, quando esso non è tale.
 
Uno dei temi attualmente più discussi è quello dell'allineamento del salario alla produttività del lavoro, come nel recente articolo di Recanatesi. Non si tratta di un dibattito sul sesso degli Angeli. Il problema è rudemente pratico. Se si assume che il salario non possa superare la produttività del lavoro (e che questa sia misurabile), le richieste sindacali non cozzeranno contro le associazioni imprenditoriali, ma contro la gelida lastra di un teorema. I tempi del salario come variabile indipendente sono tramontati da un pezzo.

 Gli autori che si sono occupati di questo tema (al quale, se non ricordo male, l'Istat dedicò anni or sono un ponderoso scritto metodologico) hanno sottolineato l'importanza delle "condizioni di contorno", come la dotazione di capitale tecnico, l'organizzazione, la formazione professionale, la gradevolezza dell'ambiente di lavoro, ma hanno accettato come ovvio l'assioma della misurabilità della produttività dei singoli fattori di produzione, fra cui sostanzialmente il lavoro.

Si veda, recentemente, lo scritto di Bruno Costi su Economia Italiana, n. 1 del 2009, dove si afferma testualmente, in una iperbole retorica, che "la rivoluzione copernicana che lega la meritocrazia e il salario alla produttività ha due nomi: Marcegaglia e Brunetta".
 
Ritengo questa tesi ingannevole. Per molti secoli il riparto della torta sociale del prodotto (perchè questo è il vero problema) fu effettuato con criteri differenti. Nelle società schiavistiche, il lavoro era remunerato a livello di sussistenza o anche meno, per gli schiavi anziani o malati; in quelle medievali, con formule contrattuali, basate sui rapporti di forza fra le varie classi sociali (enfiteusi, colonia, mezzadria) o all'interno delle corporazioni (ruoli rispettivi dei Maestri e degli apprendisti). Il modello dell'equilibrio generale, tipico dell'era moderna e contemporanea, ipotizza che i fattori di produzione trovino il limite superiore alle loro remunerazioni nell'apporto che ciascuno di essi fornisce alla produzione stessa. Si assume però che i fattori stessi siano fra loro fungibili: in altre parole che sia possibile misurare l'incremento di prodotto dovuto all'aumento della quantità impiegata di un singolo fattore, mantenendo costanti le quantità degli altri due, e cioè che le proporzioni dei fattori impiegati in un processo di produzione siano variabili.
 
Ciò non accade, o accade raramente nell'economia contemporanea. Si può certamente sostituire una macchina movimento terra con 500 operai con un badile (ci hanno costruito le piramidi.....); ma ciò implicherebbe il passaggio ad un diverso livello della tecnica, comunque non conveniente. Così come sostituire due auto con sei autisti (uno per turno) con un'auto con 9 autisti, non è impossibile, ma semplicemente ridicolo. I vari fattori, dunque, contribuiscono all'aumento della produttività totale con una funzione a costi e ricavi congiunti. Per la conflittualità fra di essi, vale il motto dannunziano "nec tecum nec sine te vivere possum".
 
Occorre avere ben chiaro un punto. E' possibile calcolare la produttività totale, ma è molto difficile misurare quella dei singoli fattori, per un "vizio all'origine": la stretta complementarietà dei fattori stessi, le cui remunerazioni (fra cui il salario) dipenderanno dunque dalla legge della domanda e dell'offerta e, quindi, dal rispettivo potere contrattuale. Se ne ha una riprova nelle statistiche del mercato del lavoro italiano nel decennio pre-crisi. Secondo l'ingannevole tesi prevalente, la produttività del lavoro sarebbe continuamente diminuita, quanto meno in termini relativi. Nonostante ciò l'occupazione è aumentata. Strano, perchè il fattore che rende meno dovrebbe essere impiegato meno. La risposta scontata consiste nella diminuzione della quota salari rispetto all'incremento del prodotto, per la debolezza contrattuale del movimento sindacale. Fenomeno confermato dalle variazioni nelle percentuali del Pil rispettivamente riferibili al lavoro dipendente, a quello autonomo, ai profitti e alle rendite.

 Il filo del discorso ci porta sull'impervio sentiero del calcolo del Pil. Non vogliamo affrontare il tema della rappresentatività di questo dato rispetto agli indicatori di benessere. Basti considerare il fatto che a Pil uguale può corrispondere una molto diversa concentrazione del reddito e della ricchezza, per minare la sua affidabilità come misura della "felicità collettiva". Vogliamo invece valutare se il dato del Pil sia significativo dell'incremento effettivo della ricchezza totale di questo paese.
 
Quando si calcola il reddito di un'impresa, dal prodotto vengono detratte contabilmente le quote di ammortamento, destinate al reintegro del valore del capitale per perdite imputabili a logorio o obsolescenza. Conseguentemente possiamo ritenere che, a meno di diffusi falsi in bilancio, la parte di Pil riferita al settore privato sia correttamente calcolata.
 
Le dolenti note risuonano nel settore pubblico. Una ricerca condotta anni or sono da una mia équipe, nel quadro di un'indagine promossa dall'allora ministero del Bilancio, evidenziò che le quote di ammortamento iscritte nel bilancio dello Stato (con l'eccezione di quelle relative a Difesa e Interni) sono di entità risibile o nulla (un euro p.m. = per memoria). Idem per le amministrazioni locali. Come se il patrimonio pubblico fosse quasi immortale. Ovviamente non è così: la fatiscenza di scuole, ospedali, uffici pubblici, strade urbane (Roma è in gran parte una pista da cross) e il degrado dell'assetto idrogeologico sono sotto gli occhi di tutti.
 
Eurostat avrebbe dovuto intervenire; e non sono mancate raccomandazioni. Ma, che io sappia, l'unico paese veramente virtuoso nel calcolo degli ammortamenti del capitale sociale è l'Olanda. Il presidente Napolitano ha recentemente colto il nocciolo del fenomeno invocando investimenti prioritari per colmare il gap di degrado ambientale (che, di fatto, esprime una minus valenza patrimoniale, che dovrebbe riflettersi nella valutazione del flusso reddituale). Se per alcuni anni il Pil risultasse anche fortemente negativo, ma con quote di ammortamento realistiche, impiegate per il reintegro dello stock di capitali pubblici, il benessere collettivo, lungi dal diminuire, aumenterebbe in misura notevole e soprattutto durevole, con una rappresentazione numerica veritiera dell'incremento o decremento della ricchezza del paese. Tutto ci induce a ritenere che questo inganno statistico continuerà a perpetuarsi, perché è politicamente più efficace inaugurare nuove opere, possibilmente "epocali", anziché assicurare la corretta manutenzione dei servizi igienici ospedalieri o di un sistema fognante urbano.

Vorremmo chiudere con notazioni collegate all'attuale congiuntura. Per fronteggiare la crisi e la post-crisi, il governo aveva tre alternative: a) accrescere sensibilmente la spesa pubblica in deficit, scelta ostacolata dal pur ammansito Cerbero di Maastricht. b) Coprire le spese per gli interventi propulsivi con una drastica revisione degli imponibili ed una lotta radicale all'evasione e soprattutto all'elusione (le detrazioni vere o presunte consentite alle partite Iva producono redditi imponibili a livelli che suonano derisori nei confronti di quelli di lavoratori dipendenti o pensionati). Missione impossibile, per la composizione socio-economica dei pilastri di sostegno dell'attuale classe dirigente. c) L'opzione prescelta è consistita nella rotazione degli stanziamenti, mutandone la destinazione finale. I più colpiti sono stati proprio quelli, già estremamente esigui, destinati alla manutenzione e reintegro del capitale fisso sociale.

E' questo, a ben guardare, il nuovo miracolo italiano: trasformare quote di patrimonio in reddito e alimentare con la povertà pubblica di molti la ricchezza privata di pochi.
 

Nota a margine
 La Presidente Marcegaglia ha proposto, tra scroscianti applausi, di ridurre di 15 miliardi (l'anno,e, presumo, subito) la spesa pubblica "improduttiva". La spesa, produttiva o no, è composta per il 90% da salari, perchè anche l'acquisto di beni e servizi si traduce alla fine in salari o profitti. Perciò, assumendo un costo medio per lavoratore pari a 70.000 euro, ciò implica circa 200.000 disoccupati in più (senza CIG, per non ridurre l'effetto benefico) e un bel calo di circa 13 miliardi nella domanda di beni prodotti dalle aziende rappresentate dalla geniale Presidentessa. Un riuscito "effetto Tafazzi".

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