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piazzadelpop

Crolla il ponte, muore una città, cade un sistema

di Simone Lombardini

unnamed 1 e1534328472480Il crollo del “Ponte Morandi” nella mia Genova non è stato un incidente fortuito. Non è stato un fulmine. Non è stata un po’ di pioggia. La caduta di quel ponte ha un’origine molto più profonda, nel tempo e nello spazio; non è stato solo un cedimento strutturale quanto più un cedimento morale. Costruito in pieno boom economico, quando l’Italia investiva in grandi opere pubbliche infrastrutturali, era diventato uno dei simboli della rinascita italiana, riscattata dal ventennio fascista e proiettata verso lo sviluppo economico; oggi il ponte del boom è diventato il ponte della morte, dell’incuria e della corruzione, ed è per questo che la sua caduta assume il valore simbolico della triste decadenza in cui versa il nostro paese. Un paese che ha rinunciato al proprio futuro avendo smesso di investire in infrastrutture, un paese senza un piano industriale ma che esporta i suoi talenti umani migliori a centinaia di migliaia ogni anno; un paese dove gli abitanti non fanno più figli, un paese che invecchia soltanto, immobilista e demoralizzato.

La catastrofe del 14 agosto non è ascrivibile a un evento fortuito ma nemmeno a responsabilità meramente individuali indirizzabili a un manipolo di malfattori, sarebbe troppo facile in questo caso: migliaia tra operai, tecnici, ingeneri, geometri e architetti monitoravano il ponte ogni istante di ogni giorno fino al minuto prima del suo crollo, eppure il ponte è caduto comunque. Il fatto è parecchio nebuloso e non aiuta di certo la secretazione da parte del tribunale del filmato ufficiale di Autostrade per l’Italia che riprende per intero la dinamica del crollo (che nessuno ha visto). Tuttavia alcune osservazioni del sistema si possono già fare. Dal 2016 poi è nota alle autorità l’audizione parlamentare dell’architetto Mauro Coletta che denunciava le condizioni di lavoro della Vigilanza sulle concessioni: i dipendenti devono anticipare le trasferte di tasca loro attendendo 4-5 mesi prima di vedere il rimborso (e infatti dal 2011 al 2015 sono passate da 1400 a 850) ma cosa ancor più grave non hanno alcuna assicurazione legale contro i contenziosi giuridici che le concessionarie aprono quando essi segnalano irregolarità.

E non sono poche le volte che ciò accade: dal 2012 al 2016, in soli 4 anni, si sono aperti 327 procedimenti di contenzioso. Nonostante tali impedimenti, i lavori per la ristrutturazione proprio del pilone crollato erano stati decisi, ma sarebbero partiti solo a settembre. Purtroppo la decisione è arrivata troppo tardi. Ed è questo il punto; il sistema di licenze, gare, deroghe, ricorsi e profitti adottato non è stato sufficiente a prevenire il disastro. Probabilmente però, cercheranno di chiudere la vicenda trovando in Tizio o Caio il colpevole, così che fatta giustizia prendendosela con qualche individuo, si preservi il sistema, permettendo che il banchetto dei porci continui. Ma la verità è che esiste una responsabilità che trascende gli individui e che mette in discussione direttamente il sistema, ossia come gli individui si organizzano in società e quali codici di comportamento economico legittimano.

Il sistema stesso degli appalti, tanto per cominciare, è una calamita di corruzione senza fine in cui mangiano imprenditori, mafia e politici. Soprattutto per le medie e grandi opere edili, continuare ad adottare il sistema degli appalti pubblici è insensato; come si può credere che il decisore pubblico su una gara d’appalto miliardaria non possa venir “influenzato” dai colossi nazionali e multinazionali del mattone? L’indecenza è tale che ormai non è più nemmeno costretta a nascondersi ma diventa legge con lo “Sblocca Italia”, un decreto che ha concesso le opere pubbliche sotto i 5,2 milioni di euro ad affidamenti senza gara d’appalto, dove questi stessi limiti sono stati superati nel 50% dei casi analizzati dall’Anac oltre che aver concesso ampie proroghe proprio alle concessorie autostradali, ufficializzando di fatto il preesistente sistema mafioso di scambio di favori tra politici e grandi gruppi edilizi. Vogliamo poi mettere tutti i costi sostenuti dalla Pubblica Amministrazione per i ricorsi che puntualmente vengono impugnati dalle imprese che hanno perso la gara di appalto, qualora questa venga ancora fatta? E le lungaggini conseguenti che in attesa di risposta da parte del tribunale bloccano per mesi o anni i lavori?

Sarebbe molto più saggio costituire in sostituzione delle attuali imprese edili, enti pubblici edili locali organizzati in forma cooperativa, che si occupino di tutta l’edilizia, sia infrastrutturale sia residenziale, limitatamente al comune o area di competenza sotto un certo numero di abitanti. Dovrebbero essere enti senza scopo di lucro, ma col solo obiettivo di assolvere alle necessità edili espresse dal governo centrale e dalla popolazione locale, con il divieto di distribuzione degli utili che dovrebbero invece essere integralmente investiti per il rinnovo dei propri macchinari e del personale, così che sia spezzato l’incentivo negativo ad alzare i costi per distribuire utili ai pochi grandi azionisti e manager. Il prezzo dovrebbe essere concordato con l’amministrazione locale dotata di tecnici esperti di valutazione immobiliare/infrastrutturale per impedire la speculazione e se i costi finali risultassero gonfiati per inadempienza, i lavoratori e gli amministratori da essi eletti (e non dai politici), dovrebbero essere finanziariamente responsabili, almeno parzialmente, così che siano incentivati a lavorare con onestà e professionalità. In tal modo i governi locali e il governo centrale potrebbero rispondere immediatamente, senza lungaggini o corruzione, alle esigenze edili insorte, contando su enti pubblici edili responsabili e professionali.

Veniamo poi al sistema dei mercati internazionali, che anche in questa vicenda non si risparmia di intervenire con la sua rigida disciplina antisociale. Alle dichiarazioni del governo di prendere in considerazione l’eventualità di ritirare la concessione ad Autostrade per L’Italia s.p.a., immediata è la reazione dei mercati: il titolo in borsa crolla; i mercati internazionali si innervosiscono, sale la tensione, cade l’intera borsa coinvolgendo anche gli altri settori del paese; insomma è subito il finimondo. Tutta la vicenda è emblema delle contraddizioni del sistema. Autostrade per l’Italia è un’impresa privata, controllata al 100% del capitale sociale da Atlantia, la capogruppo anch’essa privata, che opera nello stesso settore anche in Brasile, Cile, India, Polonia e gestisce gli aeroporti di Fiumicino e Ciampino in Italia e altri tre aeroporti in Francia. Questo colosso internazionale, espressione della globalizzazione capitalistica, aveva firmato addirittura un accordo segretato con il governo precedente per la gestione delle nostre autostrade italiane. Questo vuol dire che noi cittadini della Repubblica non avremmo potuto leggere le clausole del contratto che il nostro governo finanziato con le nostre tasse aveva concluso con un privato. Il che già è assurdo. Come se non bastasse poi gli azionisti della società hanno subito dichiarato, in risposta alle dichiarazioni del governo sul ritiro della concessione, che “a noi spetta il valore residuo della concessione”, avvertendo che se necessario richiederanno l’intero “indennizzo” per mancato profitto pari a 20 miliardi di euro. Ma la cosa più assurda è che Atlantia, per far valere i propri “diritti”, potrebbe rivolgersi a un arbitrato internazionale della Banca Mondiale (International Center for Settlement of Investment Disputes, ICSID) al quale non potremmo sottrarci perché anche noi siamo nella Banca Mondiale. Di fronte all’ICSID , Atlantia potrà chiamare in causa il nostro paese per mancato profitto, costringendoci in caso le venisse data ragione, a risarcirla, esattamente come è successo in Germania quando i tedeschi hanno dovuto pagare 2 miliardi di euro alla Vattenfall (e altri 3 ad altre imprese dello stesso settore) per aver scelto di uscire dal nucleare dopo i fatti di Fukushima. Ora, non si possono demonizzare questi azionisti oltre un certo punto perché il loro comportamento riflette ciò che la legge si attende da investitori privati orientati al profitto. Se si comportano così non lo fanno necessariamente perché vogliono “punire” ma semplicemente perché non sono filantropi e se investono lo fanno per vedere incrementati i propri rendimenti. Pertanto ai primi segnali di pericolo i capitali è ovvio che si rivolgeranno verso titoli più sicuri e questo non può cambiare perché è l’unico modo dei mercati di funzionare. Pertanto o contestiamo che soggetti privati mossi da interessi economici particolari possano controllare a proprio vantaggio produzioni di interesse collettivo, oppure non ha alcun senso strapparsi le vesti.

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Il crollo del ponte Morandi però è anche responsabilità dell’ideologia alla base delle spending review e delle conseguenti ideologie statofobiche che in nome dell’iniziativa privata e del libero mercato hanno fatto piazza pulita dell’intervento pubblico economico imprigionando le capacità di manovra dei governi europei entro stretti e assurdi vincoli di bilancio imposti da trattati mai votati o discussi pubblicamente. Sono quasi trent’anni che dissanguano il risparmio privato con avanzi primari di bilancio per ripagare inesauribili interessi su interessi su un debito infinitamente crescente detenuto quasi esclusivamente dalle banche. Il debito oggi ci costa 70 miliardi solo di interessi ogni anno, altri 30 miliardi vanno nelle spese militari per restare nella NATO, e a questi vanno aggiunti i fondi da destinare alla riduzione del debito pubblico che secondo Maastricht dovrebbero costarci decine di miliardi l’anno. Per sostenere tutte queste spese totalmente inutili dal punto di vista della società, ma perfettamente funzionali ai percettori delle rendite del grande capitale, hanno tagliato un pò in tutte le direzioni: trasporto pubblico, infrastrutture, scuole, sanità.

E nonostante tutta questa macelleria sociale, imperterrita, l’Europa dei vincoli fiscali non retrocede di un passo, e di fronte alla proposta del governo di mettere in campo fino a 50 miliardi di euro di investimenti sulla sicurezza delle infrastrutture, anche a costo di sforare i vincoli di bilancio imposti dall’Ue, Bruxelles ha risposto a stretto giro, con il più gelido dei rifiuti. “L’Italia è uno dei principali beneficiari della flessibilità all’interno del patto di stabilità e crescita”, afferma Jean-Claude Juncker, spiegando di non voler entrare in “uno scambio politico di accuse”, stroncando di netto qualsiasi discussione. Di questo passo ci saranno altri 100 ponti Morando, perché quelle grandi opere infrastrutturali risalgono tutte all’incirca alla stessa epoca ed erano pensate per durare sino a non più di 50 anni; oramai andrebbero ricostruite. E oltre alle grandi opere infrastrutturali ci sarebbero da mettere in sicurezza tutte le case costruite nel boom economico, totalmente al fuori dei vincoli edilizi antisismici. Ci sarebbe tanto di quel lavoro da fare che è un assurdo avere ancora 3 milioni di disoccupati. E non è vero che mancano i soldi perché per la guerra e le rendite dei banchieri i soldi ci sono; inoltre è il lavoro che genera ricchezza e non la ricchezza che dà lavoro! È chiaro che la disoccupazione, di fronte a così tante esigenze sociali e bisogni da soddisfare, non sia una fatalità esterna alla volontà umana, quanto piuttosto una condizione da mantenere nel tempo per ridurre il potere contrattuale della manodopera dipendente.

Bisogna allora ricostituire gli enti pubblici economici che perseguendo il mero equilibrio finanziario (costi pari ai ricavi), soddisfino le direttive emesse dal governo centrale e bisognerebbe che il governo dia avvio a un piano di ammodernamento infrastrutturale continuo. Già, perché un mero piano emergenziale non può essere una soluzione lungimirante; viceversa sarebbe saggio imbastire un piano permanente che nel continuo innovi, ammoderni e ricostruisca le proprie infrastrutture, senza interruzione, proprio perché senza sosta è l’effetto degli agenti atmosferici sulle stesse. Ed è altresì necessario un cambio nelle modalità, finalità e organizzazione del modo di vivere e fare impresa: da uno individualista e autocratico a uno comunitario e democratico. E lo stesso dovrebbe valere per le altre aziende strategiche del paese come ferrovie, telecomunicazioni, energia, acqua, edilizia residenziale, automobilistica, trasporto pubblico locale, industria del riciclo e trattamento rifiuti. Servono miliardi di investimenti, milioni di nuovi posti di lavoro e un cambio di paradigma radicale, che ci porti dal sistema del profitto privato (alias Dio Denaro) verso un sistema di fare economia ispirato finalmente al servizio comune. Senza il riconoscimento di tale necessità è perfettamente ipocrita indignarsi di fronte a questa immane tragedia.

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maurizio
Friday, 24 August 2018 10:44
PONTE MORANDI e' stato minato ed e' caduto
per una demolizione controllata!
E' stata una psyop voluta e preparata.
Tutte le altre considerazioni giustissime su manutenzione,privatizzazione,ect
non c'entrano niente.
Ma il pensiero critico di sinistra
dove cavolo e' finito ?
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michele castaldo
Friday, 24 August 2018 09:44
Un ottimo articolo ma dai piedi d'argilla e cerco di spiegare perché.
Simone dopo un'ottima introduzione sui meccanismi degli appalti per le grandi opere infrastrutturali trae questa giusta conclusione:
"Ma la verità è che esiste una responsabilità che trascende gli individui e che mette in discussione direttamente il sistema, ossia come gli individui si organizzano in società e quali codici di comportamento economico legittimano". Altrimenti detto - per contestualizzare il momento in cui fu costruito quell'obbrobrio volante sulle case - c'è una corresponsabilità generale, seppure a cascata nella gerarchia delle classi sociale, che in una fase di straordinario boom economico trascinò tutti in una ubriacatura generale fino ad entusiasmarsi addirittura per il Brooklyn genovese. Il dramma vero è questo e la caduta di quel ponte è arrivata fin troppo tardi viste le basi sulle quali era stato costruito e ancora peggio mantenuto.
Perché l'articolo ha i piedi di argilla? Perché all'analisi corretta Simone fa seguire una serie di "si dovrebbe" e - peggio ancora - la denuncia di "una serie di assurdità" del capitalismo. Ma è il capitalismo stesso a essere un'assurdità.
Ora, l'errore in cui l'uomo incorre con estrema facilità è di proporsi per fare così piuttosto che cosà, senza avvedersi che quel modo di fare è impersonale (giusto per stare a Marx del Capitale) e noi comunisti, come corrente storica abbiamo pagato a carissimo prezzo la volontà di dirigere il capitalismo in modo diverso da come l'avrebbero diretto liberali e borghesi. E ancora oggi minuscoli gruppi si avventurano in ipotesi governative sempre con lo stesso spirito: riuscire a fare meglio, cioè in modo più razionale, quello che liberali e borghesi fanno in modo irrazionale, peggio ancora utilizzando gli istituti della democrazia repubblicana. Poi finiscono nella spirale delle leggi del mercato, della concorrenza, dei prezzi ecc. e non sanno più come uscire e vengono stritolati. Purtroppo la storia è piena di questi esempi. Per essere ancora più chiaro: un conto è essere costretti a organizzare una autogestione contro la chiusura di una fabbrica, e finire comunque nelle maglie del mercato, tutt'altra cosa è proporsi per la gestione dell'economia capitalistica che ha leggi proprie di cui l'uomo è vittima più che artefice (sempre per stare a Marx). Figurarsi per le opere infrastrutturali, private o nazionalizzate che siano.
I comunisti materialisti dovrebbero innanzitutto separare le proprie responsabilità proprio da quelle leggi e sostenere la causa del proletariato in tutti i suoi aspetti sia dell'immediato che di prospettiva. Proprio a Genova si è consumata un'esperienza che ci consegna un bilancio su cui riflettere, come quella dei camalli, cioè di una figura sociale intermedia che alla lunga è svanita. Si trattava di una esperienza circostanziata in quegli anni ma che non è riproponibile in una fase in cui il modo di produzione capitalistico si globalizza e scatena una vera e propria guerra di concorrenza sia fra le merci inanimate che fra quelle animate, cioè i proletari.
Chi ha avuto modo di partecipare a qualche trattativa con le istituzioni sa bene che la prima cosa che chiede il funzionario governativo è: ; e scatta immediatamente nel cervello del leader sindacale o politico la proposta. Immesso sul terreno delle responsabilità bisogna fare poi i conti con i costi delle leggi del modo di produzione, e così anche il più brillante dei rivoluzionari finisce nelle secche del mercato e la frittata è fatta. Per maggiori informazioni basta chiedere a Lenin, Trocky e Bucharin negli anni venti in Russia.
Tornando al Ponte, adesso si discuterà della Gronda si, della Gronda no ed essa si farà o non si farà sulla base delle necessità di accelerazione del trasporto delle merci perché il circolo vizioso-virtuoso, merce-denaro-merce e denaro-merce-denaro aumentato, deve essere velocizzato al massimo e Genova rischia il collasso con il Ponte caduto e la Gronda che non riesce a partire. Sia il costo dell'abbattimento del mostro volante, la costruzione della Gronda o di essa alternativa, ricadrà sul proletariato autoctono e immigrato e i morti sul lavoro si conteranno a decine.
Da comunisti difendiamo la causa del proletariato se si mobilita e quella del territorio se si sviluppano mobilitazioni popolari vere, senza farci legare a logiche positiviste di una diversa viabilità, in comitati che si dialettizzino con le istituzione ecc..
Una regola sola deve guidarci: l'avversione a questo sistema e la sollecitazione alla mobilitazione di massa.
In assenza della mobilitazione la denuncia costante allo scopo dichiarato di separare le nostre responsabilità per i nuovi disastri che il modo di produzione capitalistico, in questa crisi, a Genova, andrà a provocare. Grilli parlanti? E' preferibile alle mosce cocchiere.
Michele Castaldo
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Eros Barone
Tuesday, 21 August 2018 12:00
Quello che non deve sfuggire ad un'ottica di classe è il carattere eminentemente proletario delle vittime del crollo del viadotto di Genova, carattere che fa di esso una strage di classe e di Stato nell'accezione più rigorosa del termine. Il crollo si configura infatti come un episodio sanguinoso della lotta di classe che viene condotta dal ceto capitalistico e dallo Stato al suo servizio contro un soggetto sociale privato della sua coscienza di classe, che ai funerali di Stato applaude in modo grottesco la lettura dei nomi dei morti, come se essere vittime della Società Autostrade e degli organi di (non) controllo statali sull'altare del profitto capitalistico fosse un titolo di merito anziché il tragico destino di persone a cui è stata tolta la vita con una duplice violenza, sia reale che simbolica. Sennonché la deriva che ha portato al crollo di Genova è il frutto di un processo che trae origine dalle vicende secolari di un regime di classe. Ormai il capitale non è in grado di assolvere la funzione sociale di trasmettere il lavoro dell’attuale generazione alle future e di utilizzare per questa il lavoro delle passate. Esso non ricerca appalti di ordinaria manutenzione, ma solo giganteschi affari legati alla costruzione di opere pubbliche. Sono dunque destinati a restare il classico libro dei sogni, oltre ad azioni veramente incisive dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (puro fumo negli occhi), progetti elementari come fare un censimento completo delle opere pubbliche (strade, ponti, gallerie, stazioni, ferrovie, scuole, ospedali, musei e tutti gli altri edifici aperti ai cittadini) per verificare seriamente quali di esse possano durare, quali vadano ristrutturate e quali invece sia meglio che vengano demolite prima che causino disastri. Altrettanto utopistico, in un regime capitalistico, mafioso, cleptocratico, cachistocratico e clientelare come quello attualmente predominante nel nostro paese, è il progetto di rivedere i criteri di assegnazione dei lavori pubblici, eliminando la piaga delle tangenti ed evitando di indire quelle gare d’appalto con il massimo dei ribassi che poi spingono le imprese più spregiudicate a risparmiare sulla qualità dei materiali e del lavoro. Ancora una volta è chiaro come il sole che l’unica soluzione dei problemi or ora evocati è una rivoluzione che strappi gli artigli alle classi possidenti e ai detentori attuali dei mezzi di produzione, e che la sola via di uscita dal disfacimento della società borghese sta nella collettivizzazione dei principali mezzi di produzione, delle banche, dei mezzi di trasporto e di comunicazione, delle strade e delle ferrovie, della terra e del sottosuolo, delle acque. Diversamente continueremo a vivere in una società dove nessuno muore, ma tutti veniamo, in un modo o nell'altro, assassinati.
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clau
Tuesday, 21 August 2018 11:39
Costituire enti pubblici locali, organizzati in Coop, al posto delle imprese edili, visto il marciume e la mafia che esiste a tale livello (i comuni sciolti per mafia ne è una prova), mi sembra un’ottima e rassicurante proposta … ! Insomma, in Italia la corruzione è alquanto diffusa, chi fa soldi rubando ed evadendo le tasse è ammirato dai più. Pertanto, solo superando il sistema di mercato e moneta, su cui si basa il sistema capitalistico di produzione per il profitto, se ne può uscire, altrimenti son solo chiacchiere che lasciano il tempo che trovano, cioè una corruzione sempre più diffusa e dilagante, a spese di tutte le classi subordinate.
Che di fronte alla minaccia di togliere la concessione ad autostrade, crolli il titolo in borsa, mi pare più che logico, infatti togliendo la concessione si minaccia nientemeno di interrompere una parte importante di quel giro capitalistico che ha come scopo quello di: pubblicizzare i costi e privatizzare i profitti, cosa questa che nelle infrastrutture pubbliche ha una lunga storia. A livelli italiano risale infatti alla prima privatizzazione delle ferrovie, anno 1884, i n cui le varie aziende private sfruttarono il più che poterono l’esistente, senza fare manutenzioni, cosicché le stesse caddero a pezzi e dovettero essere nel 1905 nuovamente statalizzate. E’ insomma ciò che è successo col ponte Morandi crollato, in cui tutti sapevano, ma non l’hanno evitato. La società Autostrade per l’Italia, da parte sua, grazie ai pedaggi aumentati a dismisura dai vari governi, non solo hanno distribuito lauti dividendi e strapagato i propri amministratori (non si dimentichi che, gli amministratori delle società italiane quotate in borsa, nonostante si tratti in gran parte di società di media e piccola capitalizzazione (ma non è questo il caso di Autostrade per l’Italia), sono i più pagati al mondo dopo gli svizzeri, gli hanno anche permesso di acquisire numerose altre concessioni di autostrade estere, aeroporti, ecc., come ben documentato dallo scritto soprastante .
Che poi la società Autostrade possa, in fase processuale, cercar di far valere i propri “diritti”, e quindi ottenere risarcimenti miliardari, fa nuovamente parte del gioco di “privatizzare i profitti e pubblicizzare le perdite”, come detto al punto uno.
Il resto dello scritto e soltanto moralismo e problematiche per creduloni. Sta di fatto che l’Italia, insieme a molti altri paesi, è un paese da tempo capitalisticamente allo sbando, che senza una vera rivolta delle classi subordinate, che ogni volta ne pagano il conto, prima o poi finirà come la Grecia. Pertanto, anche l’attuale compagine governativa, che si rifà agli interessi della piccola e media borghesia e non certamente dei poveracci, nonostante i tanti discorsi e grazie soprattutto alle sue numerosissime contraddizioni interne, nonché per conclamata incompetenza (nei controllori che dovrebbero indagare sulle cause del crollo, hanno messo, non a caso, tre personaggi su sei, che in passato sono stati lautamente pagati dalla stessa società Autostrade, come sta denunciando L’Espresso! Pensate pertanto che quella commissione possa portare a qualcosa che non sia: colpa delle leggi fatte male, delle privatizzazione, del ministero, ecc.?), non potrà fare altro che contribuire ad assestare all’Italia -euro o non euro- il classico colpo di grazia.
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Mario M
Tuesday, 21 August 2018 09:42
"un paese senza un piano industriale ma che esporta i suoi talenti umani migliori a centinaia di migliaia ogni anno; un paese dove gli abitanti non fanno più figli"

Il paese non ha un piano industriale, e affossa la propria industria aeronautica con l'acquisto degli F35 - tanto per fare un esempio.

La denatalità di per sé non sarebbe un male: se si denuncia l'obbligo alla crescita continua in economia, allora occorre farlo anche per quella demografica.
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maurizio
Tuesday, 21 August 2018 02:24
Mi permetto di agiungere una cosa: al di la' delle vostre
giuste e condivisibili analisi e commenti sul modello di sviluppo ,la filiera di ipersfrutamento dela logistica,un ritorno a politiche centrate sulla piena occupazione e anche andare oltre ad un modello turbocapitalista che ci ha deformati antropologicamnte:

guardate che Ponte Morandi e' caduto a seguito di una demolizione controllata!

E' la piu' importante psyop dalle stragi degli anni '90
con sicuramente il coinvolgimento degli stessi apparati.
Vedo un silenzio assordante da parte della sinistra radicale
a leggere questi fatti, mi ricorda un po' l'11/9 e l'incapacita'
a formulare analisi al'altezza.
Speriamo che non si ripeta la stessa cosa.
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Paolo Selmi
Monday, 20 August 2018 22:59
Caro Simone,
nell'aggiungermi a Ernesto nel farti i complimenti per questo lavoro, e per l'illustrazione d'epoca che lo correda, mi permetto di aggiungere un elemento di riflessione. Per lavoro, Voltri e Passo nuovo sono più familiari nella mia toponomastica delle vie del paese a fianco. Il giorno stesso della tragedia ero al lavoro e parlavo con degli autisti che quel ponte lo facevano in colonna per entrare a Voltri tutti i giorni, e il pensiero è andato a cosa sarebbe successo se, invece di cedere un quattordici di agosto qualsiasi, quel tratto di strada fosse crollato anche solo due settimane prima. 150.000 transiti al giorno, scriveva a commento della notizia un lettore del giornale della tua città, di cui - aggiungo io - gran parte sono motrici che trasportano pieni e vuoti da e per il porto. I lettori si scannavano su Gronda si, Gronda no. Indubbiamente una bretella avrebbe alleggerito il traffico pesante, e magari ha ragione chi dice che andava fatta nel 2001 di modo che fosse già completata nel 2011, ma non è questo il punto, almeno a mio parere. Poco fa a Borgo Panicale c'è stata una tragedia di cui oggi si parlerebbe ancora se non ci fosse stato quello che ci è stato. Il giorno stesso dell'esplosione di quella cisterna, a Padova, poche ore prima, ne era esplosa un'altra... Guardo a venti km da casa mia, e nel Canton Ticino - non quindi in un pur auspicato Paese dei Soviet - i camion sono tassati a km. Tanto camminano su gomma, tanto devono pagare. In Svizzera non c'è la Fiat, qualcuno potrebbe farmi acutamente notare... ormai non c'è più neanche in Italia, aggiungerei amaramente. Risultato però di mezzo secolo di politiche tutte nella stessa direzione: il nostro modello di infrastrutture e trasporti è drogato di asfalto da cima a fondo, noi stessi siamo drogati di asfalto: andare in bici è da pezzenti, ma non solo. La nostra stessa visione economica è basata sul trasporto via gomma: la merce arriva al porto spesso con manifesto allibrato e documento di transito già pronti, non fa in tempo a essere scaricata che già c'è un autista al varco pronto a farla uscire, spesso già sotto minaccia di penali, per portarla a 300 km di distanza, sdoganarla in linea il giorno stesso, per farla finire poi in qualche logistica nel tardo pomeriggio prima che chiuda i cancelli; logistica che, a sua volta, la spedisce, spremendo qualche corriere su furgone che fa a cottimo più e più volte al giorno il giro della tangenziale, a rintuzzare i vuoti di qualche scaffale di centro commerciale. Come fare tutto questo se non andando a ingrossare le code in autostrada, creando un clima sempre più invivibile fra gli stessi operatori del settore che, quando non si prendono a botte fra loro, giocano a scaricabarile per addossare al primo che capita colpe e responsabilità di qualche, inevitabile, incidente di percorso? Agnelli da un lato, si, e per oltre mezzo secolo, ma la GDO dall'altro, e in molto meno tempo. In altre parole, Benetton il danno maggiore lo ha fatto, in compagnia di tutti gli altri ex-alfieri del made in italy, creando un sistema dove le merci vengono prodotte a 10.000 km di distanza con la pretesa di mantenere le stesse tempistiche di quando uscivano dalle linee di produzione originarie: non solo perché hanno creato il deserto e quella disoccupazione che tu sottolinei giustamente sia funzionale a questo status quo, non solo perché nella loro miopia hanno consegnato le chiavi dei nostri mercati ai capitalismi emergenti che infatti ormai li dominano, ma anche perché, ciliegina sulla torta, hanno creato un modo di lavorare, e vivere, talmente esasperato, talmente standardizzato su procedure da fare più volte nel minor tempo possibile, senza ragionare (l'algoritmo di Gauss nella logistica di Amazon è forse l'esempio più lampante, ma anche fra la concorrenza la fantasia non manca), completamente spogliato di ogni dignità (altro che "crescita professionale"), che marxianamente agisce alienando le coscienze delle classi subordinate assai più non tanto del ciclo fordista-taylorista (sul cui gorilla ammaestrato aveva esercitato la sua critica Gramsci), ma di quello che fino a poco fa sembrava uno scoglio insuperabile: quel toyotismo che Romiti a fine anni Ottanta cercava in tutti i modi - e senza successo - di impiantare nelle teste dei "suoi" operai. Oggi, a tenere i tempi dell'operatività sulla linea di produzione o distribuzione non è più quell'odiato cronometrista col camice che ti contava anche i minuti della pausa gabinetto, e neppure un astratto "discorso motivazionale", ma lo stesso smartphone che usi per farti i cavoli degli altri, per celebrare i tuoi, per abdicare al linguaggio, al logos, in favore di una lingua monca dove una parola è poca ma due son già troppe: un feticismo e una dipendenza che ci rendono schiavi fuori dal lavoro, e ora - amazon, ma non solo, insegna - anche nel lavoro; e che ci portano a giustificare 150.000 mezzi al giorno su un ponte costruito mezzo secolo fa e progettato per il traffico di mezzo secolo fa, in un'Italia 2.0 percorsa da tante monadi legate a un braccialetto con un chip non tanto dissimile da quello dei carcerati ai domiciliari, acquistato in uno di quei mega-centri commerciali insieme ad altre paccottiglie di plastica e tessuti sintetici che vivono e prosperano grazie proprio allo schizzare avanti e indietro di quei 150.000 mezzi al giorno, e che ci accompagnano a gran velocità a quel baratro ecologico che tutti vedono ma nessuno ha voglia di evitare. E qui, caro Simone, il gioco si fa duro... non alzo le braccia, non le alzerò mai penso finché avrò forze sufficienti per farlo, ma non vedo all'orizzonte quel partito di massa che abbia all'ordine del giorno la critica di questo capitalismo. "Non abbiamo nulla da perdere se non le nostre catene"... è vero, e ormai ci siamo arrivati anche noi. "Senza il riconoscimento di tale necessità": così chiudi giustamente il tuo lavoro. "Hic Rhodus, hic salta"! Ormai mi sto rendendo sempre più conto che, anche a furia di passare per matto, o per "a-social" (che è "indubbiamente" peggio di asociale...), occorra denunciare con forza sia il "delitto", sia quella "indignazione ipocrita", come tu la chiami, che precederà il "castigo", e spostare la critica su un'altro piano, sul nostro piano.
Un abbraccio e un in bocca al lupo per tutto.
Paolo
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Ernesto Rossi
Monday, 20 August 2018 20:35
Ottimo!
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