Print Friendly, PDF & Email

lacausadellecose

La passività del proletariato nella crisi

di Michele Castaldo

m9q91m8gk7w01Non ho nessuna difficoltà ad ammettere che la questione della passività del proletariato, in modo particolare in questa crisi, richiederebbe un approfondimento ben più corposo che queste poche note. Chiarisco innanzitutto, perciò, che la metafora dei girasoli l’ho usata per definire il modo d’essere del proletariato nei confronti del capitale, cioè come i girasoli che guardano al sole. Dunque un modo teorico per definire un rapporto fra due diverse componenti coesive per la produzione delle merci, o – come avrebbe detto Hegel – due diverse schiavitù: il capitalista che non può fare a meno dell’operaio e l’operaio che non può fare a meno del capitalista. Stabilito il principio teorico è necessario poi osservare i comportamenti tanto dell’uno quanto dell’altro nell’andamento del processo di accumulazione capitalistico e della vita sociale e politica nel suo complesso. Fatta questa premessa cerchiamo di analizzare in che modo si vanno disponendo le varie categorie sociali rispetto al voto del 25 settembre e agli sviluppi di della crisi.

C’è poi una terza componente che all’improvviso è entrata in scena e in modo molto clamoroso, è il ruolo delle materie prime e innanzitutto di gas e petrolio che sta sconvolgendo l’insieme dell’assetto del modo di produzione e che richiama una serie di questioni come gli assetti istituzionali dei vari paesi. Insomma mai come oggi è applicabile il famoso detto di Mao «grande è il disordine sotto il cielo », e in una situazione di disordine generale e di caos è sempre più difficile rintracciare le linee di tendenza del moto.

Faccio un passo indietro, al Referendum del 4 dicembre 2016, perché le questioni di allora si vanno riproponendo con una potenza decuplicata proprio a causa della crisi energetica. Per quanto inelegante possa apparire, non di estetica stiamo trattando, propongo perciò la rilettura di quell’intervento.

 

Sul referendum del 4 dicembre 2016 scrivevo: SI o NO a cosa?

Proviamo a tracciare un punto di vista - di tutt’altra fatta, lo diciamo da subito - circa il referendum “costituzionale” del 4 dicembre.

“L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”, “l’Italia ripudia la guerra”. La costituzione repubblicana nata dalla Resistenza ne garantisce i principi fondamentali.

Se bastassero le belle parole su carta, il mondo girerebbe in ben altro modo. Per i male informati consigliamo la lettura dei due volumi dei coniugi Webb sulla Russia sovietica del periodo staliniano, Il comunismo sovietico: una nuova civiltà, una Costituzione rispetto alla quale quella italiana ci farebbe una figura meschina. Noi – poveri materialisti – consideriamo la costituzione sovietica di quel periodo un tentativo volontaristico scritto mentre il corso degli eventi prendeva tutt’altra piega con i risultati che conosciamo: straordinaria accumulazione e sviluppo industriale a spese dei contadini poveri e degli operai in Russia in nome del comunismo e una nuova e straordinaria accumulazione capitalistica nell’Italia post bellica in nome della democrazia.

Mentre la democrazia capitalistica era un lusso che la Russia non si poteva permettere, l’Italia se lo permise grazie ai fiumi di dollari che provenivano dall’altra sponda dell’Atlantico.

Veniamo ai giorni nostri: tutti contro Renzi e Renzi contro tutti. Che succede in questo stranissimo paese? Sarebbero in ballo le sorti della Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza. Oh poveri noi, siamo vissuti nel paese di Bengodi senza accorgercene? Si abolisce il Senato senza abolirlo, gli si affidano poteri degli enti locali ai non eletti, s’impastoiano le funzioni di un ramo del parlamento, si riduce in modo significativo il numero dei parlamentari, si concentra il potere in poche mani, è a rischio la democrazia della Repubblica, ecc. come obiettano i sostenitori del NO. Signori, calma. Renzi non rappresenta se stesso, ma - si dice - i poteri forti. Giusto!

Cosa vogliono i poteri forti in questo momento? Una sola cosa al di sopra di tutte le altre: la modifica del Titolo V della parte II della Costituzione, cioè il rapporto tra il potere centrale dello Stato e quello periferico delle regioni. Si chiamano costituzionalisti a disquisire su aspetti formali, mentre vengono totalmente rimosse le cause vere del “balzo in avanti” del Matteo da Firenze: la necessità di una rigida centralizzazione dei poteri politici per poter centralizzare i poteri – quelli veri – di un’economia che langue per una crisi generale del modo di produzione capitalistico. Ne abbiamo avuto un esempio nelle ultime elezioni referendarie sulle trivelle del 5 giugno di quest’anno: ubi maior minor cessat, dicevano i latini, che tradotto all’oggi vuol dire che gli interessi economici minori devono cedere il passo a quelli maggiori. Ecco perché troviamo nello stesso fronte del NO schierati nientepopodimeno che Brunetta e D’Alema, Salvini e la sinistra del Pd, la Meloni e Sel, e il M5S a far la parte del leone. Sono interessi in contrasto, è fuori di dubbio, di natura economica innanzitutto, è una guerra per bande, e il riformista Bersani la smetta di raccontar balle e di pettinare le bambole; con gli operai a giocar la parte del morto nel gioco a tressette.

Stabilito che Renzi rappresenta gli interessi forti, tutti gli altri rappresentano non gli interessi dei lavoratori, dei disoccupati, dei senzatetto o degli immigrati, che muoiono a migliaia nel mare nostrum nell’indifferenza più totale, ma rappresentano quei settori economici falcidiati dalla crisi che temono di essere ulteriormente emarginati ed espulsi dal mercato e dalla concorrenza. Questa è la verità, sono i forconi di Salvini, della piccola imprenditoria del nord o i commercianti di Roma che sono costretti a chiudere perché avanzano i grandi centri commerciali. Ma sono anche quei settori della sinistra ecologista che difendono le ragioni delle popolazioni locali contro lo strapotere della forza inquietante e inquinante dell’Italsider; sono anche quegli ambienti sindacali chiamati a difendere le ragioni dei lavoratori in difesa dei posti di lavoro. Ma le ragioni del NO sono anche rappresentate da quell’accozzaglia di portaborse al seguito degli eletti nelle istituzioni locali, che si alimentano di mazzette a destra e a manca, di cui i poteri forti vogliono ridurre il potere per avocare a sé ogni possibilità di contrattazione e di elargizione di eventuali mazzette per accaparrarsi gli appalti (ancora una volta, ubi maior minor cessat). Insomma un confluire di interessi compositi da destra e da sinistra.

A fronte di simile quadro il richiamo al cosiddetto patto resistenziale del dopoguerra ha valore uguale a zero, dunque le disquisizioni sul Titolo V, l’abolizione del Senato, la riduzione del numero dei parlamentari, l’abolizione del CNEL, fanno parte della retorica politicante con la quale i comunisti materialisti hanno poco a che spartire.

E il Ponte sullo Stretto di Messina? Una berlusconata di Renzi? No, la necessità dell’accelerazione della circolazione delle merci che la crisi obbliga sempre a una maggiore velocizzazione come l’alta Velocità e similari. Le ragioni del NO al riguardo hanno poco valore perché il capitalismo cammina sui morti, senza guardare in faccia a nessuno. In una corsa a ostacoli – e ostacoli sempre maggiori – non si tiene in conto chi resta indietro. E’ l’inesorabile legge del modo di produzione capitalistico che procede finché non stramazza al suolo, o viene intralciato da una forza dirompente - uno straordinario movimento di massa - che si pone sul suo cammino.

Ci corre l’obbligo di non sottacere a questo punto la questione delle questioni, e cioè che di fronte ad un quadro sociale in decomposizione è scoraggiante sia la passività delle masse che la strafottenza popolare riguardo agli interessi comuni, come ha dimostrato il fallimento del referendum del 5 giugno sulle trivelle.

 

Come votare?

Lo diciamo a chiare lettere: la posta in gioco non è la riforma costituzionale ma una centralizzazione economica verso i settori e i poteri forti dell’economia, tutta a danno innanzitutto dei lavoratori, dei disoccupati, dei senzatetto e degli immigrati, che l’economista A. Porchielli (un nome, una garanzia) propone di assumere tutti e di pagarli a 2 – 3 euro l’ora per tentare di salvare l’economia italiana.

Contro le necessità prepotenti dei poteri forti c’è una sola strada e non è il sì o il no su una scheda, ma la lotta dura per ribaltare i rapporti di forza attualmente a favore non solo dei poteri forti, ma di tutto il padronato, compresa quella piccola imprenditoria che il M5S vuole rappresentare.

Ciò detto, vorremmo rivolgere un appello chiaro a lavoratori e disoccupati o anche a piccoli borghesi espulsi e marginalizzati da questa crisi, che guardano al M5S come possibile soluzione governativa. Questo movimento si è caratterizzato sinora come espressione di protesta – legittima – antigovernativa e contro le ruberie, ma al tempo stesso si pone come garante contro la protesta di piazza, contro la forza organizzata delle masse. Non a caso ad esso cominciano a guardare con simpatia addirittura personaggi del calibro di Cesare Romiti; non per nulla con esso si sono schierati settori dell’estrema destra nelle ultime elezioni amministrative per il comune di Roma, o dei salotti bene della Torino fiat-dipendente.

Non saremo noi a sconsigliare operai, precari, disoccupati e senzatetto decisi a votare NO. Ci corre però l’obbligo di renderli consapevoli che comunque vada il referendum si tratterà di dover rompere con l’attuale passività e la tregua che dura da troppi anni; che il cambio di cavallo – possibile e probabile – da parte dei poteri forti non modificherà l’attuale rapporto di forza.

(Roma, ottobre 2016)

 

E oggi?

A distanza di soli sei anni il quadro generale internazionale è stravolto e i riflessi all’interno di ogni singolo paese ovviamente pure, altrimenti detto il caos di allora è aumentato in maniera esponenziale e le nubi all’orizzonte sono sempre più nere. In Italia si è arrivati alla crisi di governo perché il ceto medio, sia nella variante governativa che di opposizione, scalcia e si vuole sottrarre al ruolo di vittima sacrificale qual è destinato dalla crisi. Ed eccoci alle elezioni del prossimo 25 settembre quale riflesso di una situazione caotica, dove nulla è deciso nonostante le dichiarazioni di voto riflesse nei sondaggi, ma nell’ombra s’avanzano linee divaricanti dettate tutte dal terzo fattore a cui facevo riferimento in apertura di queste note, ovvero la questione delle materie prime e conseguentemente i rapporti con la Russia e l’Oriente, per un verso, e con gli Usa, per il versante opposto.

Di fronte a un’alternativa storica non barcolla solo il paese dei balocchi, l’Italia, ma l’insieme dei paesi europei stretti da un’alleanza storica con la Nato, da una parte, e le legittime pretese della Russia, che dopo alcuni decenni di pigrizia politica e continuamente provocata ai suoi confini ha deciso di giocare duro e di far rimbalzare nel campo nemico tutte le contraddizioni finora sopite. Ed eccola l’Europa, un insieme di popoli che dominavano il mondo fino a qualche secolo fa, oggi deve elemosinare le materie prime alla Russia o cedere al ricatto degli Usa per materiali più costosi e di minore resa per sopravvivere a una crisi economica che fa paura.

E la nostra Italia? Riecco il Renzi che corroborato dal caos pretende di giocare a fare la parte del leone, l’ago della bilancia, nonostante che sul piano delle percentuali sia intorno al 2% circa nei sondaggi e con Calenda che gli tiene bordone a fare la faccia dura sui rigassificatori e altre necessità impellenti. Il personaggio in questione non rappresentava se stesso nel 2016 e non rappresenta se stesso oggi, come cercano di far credere certe testate giornalistiche. Chi immagina una Meloni presidente del Consiglio in Italia non tiene in conto la portata della crisi contro la quale la Meloni è costretta a rappresentare un ceto sociale composito come il ceto medio, che il fascismo potette organizzare ed essere sostenuto dalla grande industria perché c’era davanti una fase postbellica di sviluppo che lo destinava alla crescita. Mentre oggi è destinato a essere falcidiato dai grandi gruppi dell’economia e della finanza.

Non molto diversa si presenta la questione per la Lega che guarda alla Russia per le materie prime e fa la caccia agli immigrati mentre il grande capitale li rincorre come risorsa contro la crisi economica e demografica. Mentre il vecchio Berlusconi dopo aver sputato veleno per anni contro il Movimento Cinque Stelle ammette da buon liberista che “il reddito di cittadinanza deve rimanere anche se modificato” e sotto sotto stimola Salvini ad andare avanti a sostenere le “sue” posizioni contro le sanzioni alla Russia.

E la sinistra democratica e liberista? È mossa da due preoccupazioni di fondo: a) l’alleanza strategica con gli Usa nella Nato e b) tenere a bada e cercare di canalizzare verso le istituzioni le tensioni sociali destinate a esplodere nonostante le maglie di controllo in ogni dove.

Chi e cosa rappresenta Renzi? Renzi è l’espressione più coerente degli interessi capitalistici dei grandi gruppi dell’economia italiana con lo sguardo a quelli europei e che insieme guardano a Ovest, ovvero agli Usa, e negli Usa al Partito democratico, costi quel che costi. Insomma Renzi interpreta il liberismo europeo e occidentale allo stato puro e immagina una nuova sfida dell’insieme dell’Occidente – e un’Europa meno subordinata agli Usa – nei confronti dell’Asia. È questa la questione. Quello che si vuole sottolineare con queste note non riguarda il se ce la fa o meno, no, ma che si tratti di una necessità oggettivamente data e che Renzi cerchi di interpretarla, è certo. Insomma quel tentativo che non riuscì nel 2016, una centralizzazione verso l’economia del potere politico e istituzionale, si ripropone. Non a caso il filosofo Cacciari che scrive editoriali su La Stampa del padrone Agnelli e continuamente intervistato da La 7, votò pro Renzi nel referendum del 4 dicembre 2016, e oggi insiste dicendo che « il Paese avrebbe bisogno […] di radicali riforme, anzi: di una vera e propria “rivoluzione culturale” per abbattere il centralismo burocratico del suo apparato amministrativo, per esemplificare i suoi ordinamenti, rifare dalle fondamenta il proprio sistema di formazione, riformare quello giudiziario ». Si tratta poi di vedere se in una situazione generale avviata verso un processo centrifugo l’Italia e l’Europa riescano a invertire la tendenza. E’ molto dubbio, ma che lo si tenti è del tutto possibile.

 

L’astensionismo e i girasoli

Dico come Cristo: sì sì, no no. C’è una corrente nella storia della sinistra che fa dell’astensionismo una bandiera di valore contro il “capitalismo e le istituzioni borghesi”. Non è una posizione condivisibile perché è spocchiosamente individualistica anche se giustificata teoricamente in vario modo. Spesso si sopravvaluta l’astensione dal voto – comunque motivato – come antisistema quando non addirittura “rivoluzionario”. Non è il caso di chi scrive, perché il punto di vista di chi si sforza di guardare i processi sociali partendo dalle cause delle cose è che gli assenti hanno sempre torto, e che è al di sotto anche di chi “sceglie” il meno peggio contro il peggio.

Il Movimento Cinque Stelle è stato l’ultimo esempio di un malcontento popolare che si sia espresso in un voto. Si trattava di un movimento composito (e tale ancora è nonostante la cura dimagrante) ricco di illusioni, ma nacque dal nulla. Dunque le persone non dissero mi astengo, ma si organizzarono. Quel movimento ha fatto le sue esperienze ed è arrivato lì dove poteva arrivare. Eppure la situazione non era grave come oggi sia sul piano interno che, ancor peggio, sul piano internazionale. E che all’oggi non vi sia neppure solo in modo gridato un malcontento diffuso lo dobbiamo analizzare con lo sguardo non individualistico girandoci dall’altra parte, ma cercando di leggere in un silenzio cupo il perché e a quali scenari sociali ci dobbiamo preparare. Non può rappresentare motivo di conforto il movimento sovranista di Paragone con Italexit che punta a raccogliere il malcontento che si è espresso sulla questione dei vaccini e la protesta contro il green pass.

Pertanto, se il punto d’analisi è corretto, cioè che siamo di fronte alla necessità che i grandi gruppi economici cerchino di scaricare sul ceto medio i costi della crisi, ci troveremo con un patto non scritto tra l’establishment (o grande borghesia se si preferisce ) e il proletariato propriamente detto, da un lato, e tante pattuglie del ceto medio o anche di spezzoni della classe operaia orientati a votare a destra in modo confuso e contraddittorio, cioè verso la Lega di Salvini e Fratelli d’Italia; e a “sinistra”, verso il M5Stelle. Un quadro sociale passivizzato mentre solo alcune espressioni del ribellismo del ceto medio e di estrema precarietà potrebbe farsi sentire in piazza. Insomma una situazione non proprio esaltante, ma tant’è. Si tratterà comunque di una situazione del tutto provvisoria perché la crisi spinge ben oltre le compatibilità capitalistiche e improvvisi “torbidi” sono sempre all’ordine del giorno non più soltanto nei paesi ritenuti erroneamente le periferie del mondo, ma anche nelle modernissime metropoli occidentali.

Add comment

Submit