
Dal Pci al governo Letta: alla ricerca dell’identità smarrita
di Emilio Carnevali
«Chi fa politica non aderisce a una linea filosofica prima di agire. Eppure, se non si padroneggia anche il registro della filosofia, il livello della teoria, non si capisce ciò che si fa»: nell'ultimo libro di Carlo Galli “Sinistra. Per il lavoro, per la democrazia” un'interessante “diagnosi teorica” dei mali profondi della sinistra italiana e una proposta per la sua rinascita
L’ultimo libro di Carlo Galli – “Sinistra. Per il lavoro, per la democrazia” (Mondadori, pp. 162, euro 17,50) – è un testo interessante e difficile. Sono due qualità importanti, anche se la seconda può non sembrarlo. Non lo è, in effetti, se la difficoltà è riconducibile all’opacità dell’apparato argomentativo o al carattere criptico ed esoterico del linguaggio. Lo è, al contrario, se raccoglie una sfida terribilmente “inattuale” (per ammissione dello stesso autore). Ovvero quella di parlare di politica «come di una cosa seria, sottratta al ghigno e al vituperio, allo scandalismo e alla faciloneria, agli slogan e alla superficiale mancanza di concettualità che la caratterizza da tempo».
Già in un precedente volume (“Perché ancora destra e sinistra”, Laterza, 2010) Galli aveva indagato le ragioni della persistenza nella nostra età “oltremoderna” di categorie proprie della modernità politica. In questo nuovo lavoro si propone di approfondire uno dei due elementi della diade, rintracciando le diverse tradizioni teorico-filosofiche che hanno accompagnato il proteiforme sviluppo storico di partiti, movimenti, formazioni variamente riconducibili al campo della sinistra.
E qui sorge un primo e fondamentale interrogativo: che utilità può avere questo volo nelle impalpabili atmosfere della riflessione filosofica in un momento in cui, non solo in Italia, la politica sembra essere completamente catturata dagli imperativi della contingenza, dal corto respiro, dalle leggi del marketing e della comunicazione?
Che senso ha cimentarsi con i testi dei “grandi classici” se non è certo lì che i protagonisti della vita pubblica trovano ispirazione nell’elaborare i propri progetti e le proprie strategie? John Maynard Keynes ha già fornito una parziale risposta con la celebre frase sugli «uomini della pratica, i quali si credono affatto liberi da ogni influenza intellettuale», ma sono «spesso gli schiavi di qualche economista defunto. Pazzi al potere, odono voci nell'aria e distillano le loro frenesie da qualche scribacchino accademico di pochi anni addietro».
Carlo Galli si affianca in qualche modo a questa lettura: «Chi fa politica non aderisce a una linea filosofica prima di agire. Eppure, se non si padroneggia anche il registro della filosofia, il livello della teoria, non si capisce ciò che si fa». E se la filosofia politica è lo studio delle relazioni umane in quanto relazioni di potere, poche cose possono essere più concrete e “terrestri” del tentativo di inserirsi fra le faglie di un conflitto che è consustanziale alla stessa modernità, cioè alla fine di un mondo rigidamente organizzato da una gerarchia “naturale”.
Ecco quale utilità può avere la “mappa concettuale” disegnata da Galli.
Tre sono le direttrici individuate, le tradizioni del pensiero politico moderno che hanno innervato anche la teoria e la prassi delle moltitudini di sinistre giunte fino ai giorni nostri. La prima è quella del pensiero razionalistico-liberale (da Hobbes e Locke, a Kant e John Stuart Mill), incentrato sul primato del soggetto-individuo che lotta per affermare i propri diritti. Vi è poi il pensiero dialettico, che dal punto di vista politico ha trovato nel marxismo la propria espressione più pervasiva e potente. Da ultimo il pensiero negativo: galassia eterogenea che prende le mosse dall'opera di Nietzsche, per poi attraversare quella di Heidegger, fino a giungere a Derrida e Foucault. Universo composito con gemmazioni politiche estremamente diverse fra loro, talvolta addirittura opposte.
È molto originale, da questo punto di vista, il tentativo operato da Galli di ascrivere la “rivoluzione neoliberista” – la quarta rivoluzione di un Novecento tutt’altro che breve, dopo quella comunista, quella fascista, e quella dello “Stato sociale” – al “pensiero negativo” e alla sua carica “destrutturante”. Il razionalismo di matrice individualistico-borghese (la prima tradizione) è certamente legato a quei processi di atomizzazione sociale che hanno caratterizzato, e ancora animano, il lungo trentennio neoliberista. Ma la sua concezione lineare del tempo, il suo “spirito scientifico” e la sua vocazione universalistica non riescono a dare ragione dello «scenario sociale di fatto nichilista» che contraddistingue la nostra epoca. Un mondo, quello nel quale siamo immersi, attraversato da «flussi di potere mediatico che fanno leva immediatamente sul desiderio, sull’erotizzazione del mondo, sulla sentimentalizzazione della vita, sull’invidia sociale, sullo stimolo acquisitivo, sulla disinibizione delle passioni».
Lo stesso Berlusconi viene letto come un figlio del Sessantotto, della sua carica iconoclasta e iperlaicizzante che ha finito per travolgere, insieme alle superstizioni e ai tabù della società patriarcale, anche gli antichi monumenti al decoro pubblico, al civismo, alla gravitas nella trattazione degli affari civili di cui le forze politiche della Prima Repubblica, in testa il Partito comunista italiano, erano custodi. E poco importa determinare quanto fosse realmente fondata l'autorappresentazione dell'Antico Regime, se nella civiltà dei simboli è vero almeno in parte che l'ipocrisia è omaggio reso alla virtù.
Proprio al Pci Carlo Galli dedica il capitolo centrale del libro. L’ambizione è quella di scorgere le ragioni profonde dello smarrimento in cui versano oggi le formazioni eredi di quella grandiosa e complessa esperienza storica.
Il Pci ha convissuto per decenni con una lacerante contraddizione: da una parte forza che più di ogni altra aveva contribuito alla Resistenza contro il fascismo e alla nascita della nuova Repubblica; dall’altra formazione fedele al dogma marxista-leninista e allo stato che ne rappresentava, almeno ufficialmente, l'incarnazione storica: l’Urss. Da una parte, dunque, la costruzione e la difesa di una (liberal)democrazia chiaramente “occidentale” per quanto fondata su una Costituzione intrisa di dichiarazioni “sociali” e “lavoriste”, dall’altra la formale rivendicazione di una ideologia che insieme al trascendimento dell’ordine capitalista non riconosceva l’universalità dei principi del pluralismo politico e delle libertà individuali.
Si tratta di un'ambiguità che solo attraverso le categorie filosofiche esposte sopra è possibile affrontare senza indulgenza, ma anche senza una strumentale superficialità: «È una doppiezza», scrive Galli, «che non è malafede, ma che deriva dal cuore del pensiero dialettico (particolarmente se interpretato come storicismo), ossia dall’idea che il ritmo della storia e della politica è evolutivo, e che in ogni posizione (anche nella democrazia) è contenuto un elemento di contraddizione che la rende instabile, che le impedisce di essere figura “ultima” della storia, che anzi la mobilita verso il proprio oltrepassamento».
Con la crisi del socialismo reale è venuta a maturazione la trasformazione di un partito «abbastanza comunista da sciogliersi allo svanire dell'orizzonte del comunismo» e contemporaneamente non abbastanza comunista «da continuare a definirsi comunista come se nulla fosse». In sostanza gli eredi del Pci hanno abbracciato l'orizzonte della liberaldemocrazia finalmente «con buona coscienza». Ma lo hanno fatto mettendo nel contempo da parte anche quell'“insofferenza” per l'ordine delle cose esistente che è propria di ogni grande ambizione riformatrice.
D'altra parte l'eredità del passato comunista spiega anche l'idiosincrasia verso la prospettiva socialdemocratica che ha contraddistinto i tormenti politici della fase post-Bolognina. Eppure proprio lo sbocco socialdemocratico sarebbe stato quello più naturale e coerente per una forza già da tempo, di fatto, collocata all'interno di quella frontiera.
Le conseguenze delle occasioni perse si sono allungate fino agli anni più recenti, segnati dalla contrapposizione fra una sinistra “istituzionale” spesso risucchiata da un “amministrativismo” pacificato e subalterno e una sinistra radicale e movimentista catturata da un “richiamo della foresta” che l'ha ridotta prima alla testimonianza impotente e poi alla quasi sparizione.
È dalla cruciale necessità di superare questa divaricazione, salvando “dialetticamente” gli elementi vitali che ancora si trovano nell'una e nell'altra, che prende le mosse la proposta politica in senso stretto contenuta nel libro di Galli.
L'azione preliminare è quella di individuare la “parte” chiamata al compito dell'oltrepassamento del “tutto”. E il punto di partenza è il riconoscimento del “lavoro” come principale terreno di scontro fra quella che è stata definita la “quarta rivoluzione neoliberista” e le forze che ad essa si oppongono. Il lavoro è ciò che “colloca” l'uomo in una società dominata da asimmetrici rapporti di forza. E il “non lavoro” è il vero dramma del nostro tempo di crisi. Prima ancora di essere privazione materiale ed economica, il non lavoro è menomazione delle basi sostanziali del rispetto di sé e di un esercizio pieno della cittadinanza democratica.
Ecco perché dal baratro che si aperto nel modello sociale europeo rischiano di uscire “forze oscure” che si trovano di fronte uomini e donne «implosi nell'anima, increduli di tutto, e quindi creduli di tutto, pronti a transitare da una illusione ad un'altra, da una semplificazione a un'altra, inferociti verso tutto e in realtà incuranti di tutto».
I fenomeni di populismo che hanno attraversato l'Italia negli ultimi anni sono stati di segno politico molto diverso fra loro. Tutti però possono essere accomunati da una radicale – talvolta interessata – sfiducia nella possibilità da parte delle istituzioni pubbliche di essere garanti di un “equo” patto di convivenza. Questo era il grumo di disincanto che faceva da sfondo tanto alle invettive contro lo “Stato che mette le mani nelle tasche dei cittadini”, quanto ai più recenti strali conto la “Casta dei politici, tutti uguali, tutti ladri”.
Ha ragione Galli quando afferma che solo tramite la rifondazione della Politica ad opera di una rifondata Sinistra – di una Politica alta, che si nutra di concetti alti –, possono essere messi in fuga i fantasmi che minacciano la stessa tenuta democratica della nostra società.
Per fare questo sarà necessario “riconquistare alla causa” quello che rimane ad oggi il maggiore partito della sinistra italiana: l'unico partito, fra i tre principali soggetti della nostra scena politica, non ingabbiato da una leadership personalistico-carismatica e il solo dotato di un'organizzazione radicata sul territorio. In altre parole, il solo “vero partito” esistente.
La dirigenza del Pd non si stanca mai di ribadire la differenza fra la scelta tattica di appoggiare un governo di larghe intese imposta da inaggirabili ragioni di forza maggiore e la prospettiva strategica di una vera democrazia dell'alternanza fondata sulla netta contrapposizione fra destra e sinistra. Ma la storia del Pci ci ha insegnato che anche la più stridente delle contraddizioni può perdurare a lungo prima di sciogliersi. Ed è molto difficile prevedere quale dei due poli finisce per permeare maggiormente di sé l'apprendista stregone che cerca di maneggiarli.