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manifesto

Prometeo, il sapere o la finzione

di Bruno Accarino

gelminibeataCom'è noto, ci si può insediare a capo del Ministero dell'Università e della pubblica istruzione senza essere in grado di distinguere una tesi di laurea - anche già rilegata, e dunque agevolmente riconoscibile - da una giraffa o da un pianoforte, e non è detto che col tempo la capacità di orientarsi si accresca granché. Questo esordio disinvolto non impedisce di essere legislativamente efficaci, anzi micidiali, sia pur ottemperando pedissequamente agli imperativi del ministero dell'economia e propinando, insieme ai tagli di bilancio destinati a cancellare le strutture pubbliche della formazione in Italia, un po' di chiacchiere alla buona e alla rinfusa e qualche pistolotto parenetico sulla meritocrazia. Inutile contare i casi di promozione dell'incompetenza e dell'inesperienza e di formazione scapigliata della classe dirigente.

Ma è venuto il momento di spezzare una lancia a favore della Gelmini e di altri ministri che ne condividono il profilo: ci vuole molto altro per dirigere un ministero? A quale parametro standard si commisurano le capacità di chi è titolare di così significativi poteri decisionali?

Per molti decenni la risposta più diffusa è stata: il ministro è una figura decorativa, chi dispone, senza neanche proporre, è una fitta rete di poteri di sottogoverno e di burocrazia di Stato la cui prima caratteristica è quella di sopravvivere a qualsiasi spostamento, e perfino a qualsiasi terremoto, elettorale. Ci aspettavamo da La Russa che si appropriasse dei complicatissimi scenari dei war games della guerra fredda o che acquisisse una cultura polemologica del dopo-Clausewitz? Basta e avanza quel poco che riesce a farfugliare. Nella divisione sartoriale del lavoro, da una parte il politico ricuce il consenso, dall'altra il burocrate tesse la tela sottile della padronanza cognitiva dei fatti. A lui spetta la gestione delle cose vere, che ha anche il vantaggio di essere meno capricciosa, meno effimera, meno ruffiana. E più aderente ai fatti.

 

Oggi questa risposta non basta più. Aderente ai fatti? E dove sono, di grazia, i fatti? Visto da sinistra, e all'interno della sinistra, lo scompaginarsi del rapporto tra sapere, politica e governo assume, come sempre, toni più gravi - a destra basta incamerarlo in modo parassitario. Sulla base diagnostica del conflitto aperto o latente tra politici e burocrati, che sarebbe stata sottoscritta da Max Weber o che con lui è direttamente indebitata, si poteva pensare all'uomo politico come al titolare di un plusvalore propositivo, immaginativo, magari impregnato di principi etici inderogabili. Anche la mediazione e il guizzo felice nella negoziazione appartenevano ad un sapere non tecnico. Tutto il resto era consegnato alla fase operativa o di contatto ravvicinato con le cose, in un rapporto a sistemare il quale era sufficiente la rete amministrativa: a suo modo efficiente, ma capace al massimo di ripristinare il valore iniziale, non di produrre un plusvalore. Senonché, è proprio l'amministrazione che soffre oggi della scomparsa o della difficile accessibilità del «mondo delle cose». I livelli non di discrezionalità, ma di arbitrio nella distribuzione delle risorse sono così ampi che quel tanto di serietà, di grevità, di ancoraggio al suolo, diciamo pure di materialità, che ci si aspetterebbe dai livelli non direttamente politici del potere, si muove anch'esso alla cieca: in mancanza di meglio, non rimane che tagliare. L'incompetenza in alto è, per così dire, la soluzione funzionale delle magagne che si registrano ai piani inferiori.

Del resto, anche il capitale finanziario preferisce minimizzare la base informativa e ingigantire la quota del rischio e dell'ignoto. Non è solo il protagonismo dei culi e delle tette ad aver esautorato le competenze, ma il carattere sdrucciolevole e infido dei patrimoni cognitivi con i quali conviviamo quotidianamente.

Si dice spesso che la figura mitologica più congeniale alla sinistra sia quella di Prometeo, per quella sua tenace spinta all'appropriazione della natura e alla produzione - quasi che la sinistra fosse da sempre condannata a schiacciarsi sull'ars producendi e a diffidare di soggetti mobili e nomadici. Messa così, la faccenda somiglia più a Georges Sorel e alla sua mistica dei produttori che a Marx. È un modo riduttivo di guardare le cose, ma serve almeno a capire che cosa c'è dall'altra parte. E dall'altra parte, dice Michel Serres, c'è Hermes, il dio della comunicazione, quello che ha spodestato Prometeo nella relazionalità odierna e che ha sospinto ai margini il fare e il produrre del prometeismo. Hermes non è affatto intellettualmente più dotato di Prometeo: non ha bisogno di esserlo anche perché è, come tutti gli addetti alla comunicazione, un imbroglione, un tipo sfuggente, un personaggio che svolazza sulla realtà. Mercuriale, come si dice ricorrendo all'equivalente latino di Hermes: beato chi riesce a identificarlo e magari a inchiodarlo alle sue malefatte. Come se non bastasse, Hermes ha anche il profilo della frivolezza giocosa: non avrebbe esitato a fare cucù, o quello che ai suoi tempi corrispondeva al cucù.

Le competenze sono come le pertinenze: non sono uno scettro imperiale e un segno di arroganza, ma un indice di delimitazione e di autocensura. Il resto è, appunto, impertinente: non spetta, non rientra, non ci azzecca. Quanto a trasmigrazione (metoikesis, dicevano ancora i greci, e noi ne abbiamo tratto il meticciato: qualcosa di sporco) del potere, anche la prima repubblica italiana se la cavava egregiamente, con quei ministri democristiani onnicompetenti che traslocavano leggiadri da un ministero all'altro ad ogni cambio di governo e magari all'interno dello stesso governo. Ma, a prescindere dal fatto che un democristiano di medio calibro era meno illetterato di tutti i leghisti messi insieme, quell'aggiramento dello scoglio delle competenze non era ancora accompagnato dalla propensione dei saperi a rendersi opachi e inafferrabili. Era controllato dal basso e dall'esterno, da forze politiche e sociali che rammentavano la verità delle cose e sospendevano l'onnipotenza delle parole.

Oggi invece qualche tabella e qualche anglicismo mal digerito, e peggio tradotto o pigramente clonato, servono ad impressionare gli sprovveduti e a traghettare il linguaggio aziendalese dappertutto e in particolare nel sistema di istruzione. Ma racchiudono un vuoto desolante, di fronte al quale la falcidia dei semioccupati e dei disoccupati sembra quasi l'ultima mossa ragionevole.

Bisognerebbe rovistare, per valutare il grado di approssimazione e di inaffidabilità, in quei cantieri nei quali si cucinano le presunte e pesanti certezze che poi ingessano il dibattito politico, costringendolo a cedere il passo a decisioni extraparlamentari: amministrative, appunto. Negli interstizi della comunicazione si produce molto «rumore», e chi studia queste cose sa che il rumore è come la benzina: fa funzionare le cose, non le sovverte; disturba, ma non inceppa. È possibile che in quei reticoli si profilino chances di una nuova democratizzazione, a fronte del sempre più esangue spettacolo (in senso proprio, senza venature dispregiative) delle istituzioni rappresentative. Ma non è il nostro disordine che metterà fuori gioco un ordine che manca anche sul versante opposto e che comunque non vive solo di manipolazione cosciente e di spudorate menzogne. Occorre sapere che l'universo della leggerezza finzionale vedrà la sinistra partire sempre col piede sbagliato, a meno che non riesca nell'impresa di riafferrare quei contorni che sono evaporati: nettezza di obiettivi anche modesti e riconoscibilità delle forze sociali a sostegno.

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