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essere comunisti

Perché il PD non attacca Berlusconi?

di Alberto Burgio

fassino rutelli«Sarebbe sbagliato trarre conseguenze politiche dalla sentenza della Consulta». Tradotto: le vicende giudiziarie di Berlusconi non riguardano il governo, casualmente da lui presieduto. Quindi tutto deve filare liscio (si fa per dire) indipendentemente dalla bocciatura del lodo Alfano. Che questa sia la linea del governo, della maggioranza e della Confindustria si capisce. Ma perché la sostiene anche il principale partito dell’opposizione (le parole tra virgolette sono state pronunciate mercoledì 7 ottobre, a botta calda, da Massimo D’Alema e riflettono la posizione di tutto il gruppo dirigente democratico)? Perché il Pd non bastona il cane che affoga, approfittando del fatto che l’immagine di Berlusconi vacilla anche tra gli elettori del centrodestra, in gran parte ostili alle sue pretese di impunità?

Potrebbe trattarsi di un’astuzia tattica: un affondo precipitoso potrebbe paradossalmente attenuare i contraccolpi della bocciatura del lodo, meglio che Berlusconi rosoli a fuoco lento o si sotterri da solo, vittima del proprio incontrollato furore. Un’altra risposta è quella formulata da Andrea Fabozzi qualche giorno fa sul manifesto: il Pd sostiene il governo in attesa di tempi migliori perché, nonostante tutto, teme il responso delle urne in caso di elezioni anticipate. Forse però è possibile anche una terza ipotesi. Per argomentare la quale è necessario fare qualche passo indietro, ragionare su quanto è accaduto in Italia nei primi anni Novanta.

Dalle inchieste di Mani pulite trasse vigore una spinta «riformatrice» che da una parte modificò la legge elettorale in chiave maggioritaria, avviando la semplificazione bipolare della rappresentanza, dall’altra determinò la personalizzazione della contesa politica, inoculando nel sistema il germe del presidenzialismo e favorendo l’aumento di potere dell’esecutivo e del suo «capo» rispetto agli altri organi costituzionali.

Si agì a ragion veduta. Sin dagli anni Ottanta ci si lamentava di un presunto deficit di governabilità. Oggi – di fronte alle intemperanze di Berlusconi – si invoca la logica dei pesi e contrappesi. Ma in quegli anni prevalse la convinzione che fosse indispensabile squilibrare i rapporti di forza a favore del governo. Non solo rispetto al parlamento, «nemico dell’efficienza». Con ogni probabilità, si intese anche precostituire una difesa contro la magistratura, il cui dinamismo era percepito come una minaccia dagli stati maggiori dei partiti.

Anche a questo proposito pensare ai guai giudiziari di Berlusconi non facilita la ricostruzione. Lo scontro tra politica e magistratura è esploso per la sua ferma volontà di sottrarsi ai processi, ma fu innescato dalla preoccupazione di difendere la politica (e in particolare i governi) da un potere di controllo minaccioso perché indipendente. Quanto al maggioritario, pesò certamente il provincialismo anglofilo di alcuni settori intellettuali, ma fu decisiva la volontà di sbarazzarsi delle forze minori (a cominciare da Rifondazione comunista), che intralciavano l’omologazione del Paese al modello politico e sociale delle «grandi democrazie occidentali».

In questo clima, quindici anni fa, mosse i primi passi la «seconda Repubblica». Il presidenzialismo all’italiana avviò lo svuotamento della Costituzione, concepita a garanzia della centralità del parlamento e dell’equilibrio tra poteri indipendenti. E il processo è andato così in là che oggi nessuno si stupisce se il presidente della Camera teorizza l’illegittimità costituzionale di un cambio di maggioranza (presto detto «ribaltone») e persino di un cambio di premiership. Sospinto da possenti interessi, il «nuovo» ha vinto, benché la riduzione del parlamento a organo consultivo del governo (o di ratifica delle sue decisioni) costituisca un palese stravolgimento della lettera e dello spirito della Carta. Il bello è che si finge di non vedere che, su queste basi, ha ragione chi difende il lodo Schifani-Alfano nel nome della primazia del «capo del governo» e della sua superiore legittimazione.

Ad ogni modo, finché è la destra ad affermare la centralità dell’esecutivo e a spingere verso il presidenzialismo, i conti tornano. Ma tali posizioni – questo è il punto – sono state sostenute anche dalle forze del centro-sinistra, che hanno combattuto con ardore per la trasformazione del sistema in senso bipolare-presidenzialistico. Ora, se questa circostanza non è facile da spiegare di per sé (considerati i principi che, in teoria, strutturano la cultura democratica di un Paese passato attraverso il fascismo e la partecipazione popolare a una lotta di liberazione), comprendere l’adesione entusiastica del centro-sinistra al modello bipolare-presidenziale appare poi addirittura improbo, ove si tenga presente un aspetto decisivo del panorama politico in cui ebbero luogo le vicende che abbiamo richiamato. Questo aspetto si chiama precisamente Silvio Berlusconi. Il quale, già protagonista della scena economica e mediatica («l’antennuto» lo definì allora Vittorio Feltri), irruppe sulla scena politica del Paese nel ’93 con un fragoroso endorsement a favore di Fini in corsa per il Campidoglio. E subito dopo mobilitò la sua possente macchina comunicativa per dare la scalata a palazzo Chigi.

Al cospetto di un personaggio con queste caratteristiche, in particolare l’opzione del gruppo dirigente del Pds a favore di «riforme» che accrescevano il potere di un «capo del governo» in qualche modo eletto direttamente dal popolo è a prima vista inspiegabile. Sembra frutto di diabolica pervicacia o di marchiani errori di previsione. Può essere. Come può darsi che oggi, di fronte alle conseguenze di tanto avventurismo, la paura paralizzi quanti allora imboccarono quella strada. Ma tale ipotesi non spiega perché non si sia mai voluto riconsiderare quelle scelte, nonostante i loro disastrosi effetti. Non spiega perché, già nel ’94, il Pds abbia salvato una prima volta Berlusconi, impedendo l’applicazione della legge che lo dichiarava ineleggibile; perché l’on. D’Alema – reduce da una calorosa visita alla Mediaset – abbia poi imbastito la partita della Bicamerale per cementare un’intesa privilegiata con il capo della destra (come farà ancora nel 2007 Veltroni, decretando la brusca fine della scorsa legislatura); perché – stando alle candide ammissioni dell’on. Violante – siano state subito date a Berlusconi piene garanzie circa la proprietà e il controllo delle sue reti televisive; e infine perché, in sette anni di governo, il centro-sinistra non abbia trovato il tempo di legiferare in materia di conflitti d’interesse.

Dare una risposta a questi interrogativi è difficile, ma è indispensabile per capire la (mancata) reazione del Pd alla sentenza della Consulta. È difficile, ma non impossibile, purché si revochi in dubbio un presupposto apparentemente indiscutibile. Si tratta di non dare per scontato che i principali avversari di Berlusconi siano sempre e comunque impegnati nel tentativo di sconfiggerlo e di impedirgli di governare. Sia chiaro: non occorre evocare raptus masochistici né complotti o vicende corruttive. È sufficiente ipotizzare che per vincere la guerra si sia ritenuto utile perdere qualche battaglia: un calcolo arrischiato, ma non necessariamente irragionevole (in modo non dissimile il padronato italiano ha puntato talvolta sulla sinistra per conciliare sacrifici e pace sociale). Soprattutto quando non ci si combatte in nome di progetti tra loro incompatibili.

Su quest’ultimo aspetto, si converrà che – depositatosi il polverone sollevato dalle baruffe tra politici – emerge un insieme di obiettivi «modernizzanti» che in questi quindici anni i due schieramenti hanno perseguito in sostanziale concordia: sul piano sociale, l’imposizione della «Costituzione neoliberista» e la redistribuzione di ricchezza a vantaggio del capitale; sul piano istituzionale, il bipolarismo dell’alternanza e il taglio delle estreme; in politica estera, l’adesione al paradigma di Maastricht e la partecipazione alle «guerre democratiche». La condivisione di questo programma, nel quadro di quello che potremmo definire un bipolarismo consociativo, abolisce forse il conflitto tra destra e centro-sinistra? No, ma lo ridefinisce nei termini di una competizione tra settori di classe dirigente (tra «nomi propri»), che contempla una sorta di torbida solidarietà. Si compete, ma non si mira alla secca sconfitta dell’avversario. Si vuol vincere ma non stravincere, non escludere l’altro, senza il quale crollerebbe il prezioso impianto bipolare (con la spiacevole conseguenza di rafforzare posizioni non «compatibili»). Si tiene a svolgere un ruolo determinante, ma in un contesto di collaborazione. Che non consente di affondare il colpo sull’avversario in difficoltà, anzi impone di farsi carico della sua salvezza.

Alla luce dei disastri verificatisi in questi non lievi lustri, tale ipotesi appare indubbiamente bizzarra. Se guardiamo allo stato comatoso dell’Italia e alla rovina della sua immagine internazionale, stentiamo a credere che i gruppi dirigenti del centro-sinistra abbiano potuto anche solo prendere in considerazione l’idea di collaborare con la destra, con questa destra, guidata da questo personale politico. Ma i fatti che abbiamo ricordato vanno pur spiegati, tenendo presente che sull’ultimo quindicennio e sull’attuale condizione del Paese il giudizio del centro-sinistra non è certo altrettanto severo quanto quello che si suole formulare da parte della sinistra di alternativa. Del resto, non meraviglia che noi «genti meccaniche» si stenti ad apprezzare una strategia tanto sofisticata. L’alta politica è un’arte esoterica. Richiede fantasia e creatività, e doti non comuni di intuito e di lungimiranza. Qualcuno ricorda, per caso, il «dalemone»?

 

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