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Rivoluzione in Catalogna?

di Stefano G. Azzarà

Rivoluzioni orwelliane immaginarie in Catalogna, istigazione populista alla confusione e fiancheggiamento dei processi di smantellamento delle democrazie nazionali in favore di entità economico-politiche a geografia variabile

garzon2Mi spiace parecchio per lo sbarellamento romanticheggiante di tanti compagni, alcuni dei quali considero anche amici.

Non è per il motivo da loro indicato che ad esempio io, come molti altri, considero la posizione di Cremaschi e della Rete proprio come un orwelliano "omaggio alla Catalogna" e dunque: non è questione di "purismo" ed "economicismo" (che semmai è difetto tutto loro, che contano il numero di banche contrarie all'indipendenza).

Sappiamo più o meno tutti assai bene che le rivoluzioni non si presentano mai in forma pura e che in situazione rivoluzionaria le classi subalterne devono aggregare il consenso delle altre classi e a volte persino cavalcare le rivoluzioni altrui. Il problema è però tutto diverso: quale rivoluzione? Siamo oggi in una fase rivoluzionaria? O siamo piuttosto in una fase restaurativa, nel quale al movimento socialista spetta una ritirata strategica?

Queste caratteristiche della fase si sono invertite in Catalogna, oppure in Catalogna assumono un volto tutto particolare?

E' proprio così: In Catalogna non c'è nessuna rivoluzione e non c'è nessuna guerra di indipendenza in corso ma una assai più prosaica secessione, dovuta alle contraddizioni interne alle classi dirigenti spagnole in seguito ai gravi problemi legati al processo di convergenza europea.

E il fatto che qualcuno vada in brodo di giuggiole per la frantumazione nazionale della Spagna o di qualunque altro paese, al culmine di un processo saldamente guidato da forze che non sono certamente di natura popolare e in un momento in cui i rapporti di forza sono tutti sbilanciati a destra, conferma lo stato comatoso della sinistra italiana.

La citazione strumentale dei Testi Sacri è ulteriore prova che questi compagni stanno prendendo lucciole per lanterne e hanno bisogno di confortare se stessi. Si tratta infatti di una citazione completamente fuori luogo. Sia Lenin che Gramsci che Stalin intendevano una cosa assai diversa da quella che hanno capito solo questi compagni, e cioè intendevano sottolinerare il rapporto tra questione nazionale dei popoli oppressi nell'epoca imperialistica e questione sociale-rivoluzionaria: in quel contesto non poteva esserci lotta rivoluzionaria se non passando prima per la lotta di liberazione. E' la stessa cosa oggi? E' tempo di rivoluzioni questo? E c'è oppressione coloniale in Spagna?

Non è così. Siamo di fronte a una lotta di classe dei ceti medio-alti e a un conflitto interno alle classi dirigenti spagnole ed europee, a una secessione fiscale in un contesto completamente diverso, segnato dalle contraddizioni del processo di convergenza europea e dalle conseguenti ricadute sulla borghesia di ciascuno Stato nazionale. Cominciano i catalani, continuano i baschi, seguono i padani poi i sardi e chissà chi, persino al di là dell'interesse particolare di ciascuna regione. Fiancheggiare questa tendenza significa non capire nulla dei processi in atto, processi nei quali la democrazia nazionale è attaccata dall'alto e dal basso.

Il paragone con il Donbass, che dovrebbe confermare la tesi dei catalanisti, è poi letteralmente grottesco. Si tratta di due processi completamente diversi in due ambiti geopolitici completamente differenti. In Donbass non c'è stata nessuna secessione fiscale ma la giusta e inevitabile reazione di difesa della minoranza russofona a un cambiamento di posizione geopolitica dell'Ucraina che coincideva con una de-emancipazione delle popolazioni di quei territori. La Spagna non è passata dalla Nato al Patto di Varsavia o viceversa. E sotto nessun punto di vista i catalani sono oppressi.

Non che la sinistra spagnola sia messa meglio, come si può capire dalla lunare intervista qui sotto, in cui di tutto si parla tranne che della tendenza principale. Ancora una volta però la sinistra italiana - incapace di analisi della situazione concreta - manca completamente la questione nazionale nel suo rapporto con la democrazia moderna. Oltretutto, proprio mentre sventola semplicisticamente la bandiera anti UE.

* * * *

«Non è coerente essere comunista e indipendentista» 

Alejandro López De Miguel* intervista Alberto Garzón

«Questa è una guerra di bandiere», il coordinatore federale di Izquierda Unida distribuisce equamente le colpe fra Charles Puigdemont e Mariano Rajoy 

Il coordinatore federale di Izquierda Unida non ritiene «coerente» essere al tempo stesso «indipendentista e comunista» nel contesto catalano, quello di un conflitto polarizzato, di una «guerra di bandiere» e, chiarisce, si identifica solo con la seconda qualifica. Alberto Garzón Espinosa ha presentato lunedì il suo nuovo libro, Por qué soy comunista (Ediciones Península), con il quale si propone di «arricchire la cassetta degli attrezzi» di cui dispone la sinistra per «criticare il mondo esistente» e «costruirne uno alternativo». 

Intervistato da Público, Garzón distribuisce equamente fra Charles Puigdemont e Mariano Rajoy la responsabilità della situazione attuale in Catalogna, e non perde di vista l’obiettivo della costruzione di una repubblica federale che garantisca i diritti sociali dei lavoratori e si batta contro diseguaglianza e precarietà. Due questioni, sostiene, neglette dal presidente del Gobierno (spagnolo) come dal presidente della Generalitat (catalana). Sottolinea che il processo indipendentista «non è appoggiato dalle classi lavoratrici» e lancia l’allarme sulla rinascita dell’estrema destra e sull’avanzata del nazionalismo spagnolo: «Partito popolare e Ciudadanos hanno nel loro Dna quello che Franco chiamava “la sacrosanta unità della Spagna”». 

Davanti, l’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione spagnola con argomenti «che non si possono giustificare giuridicamente, come l’intervento su Tv3», e una possibile Dichiarazione unilaterale di indipendenza (Dui) «senza valore legale» e «senza legittimità». Garzón parla chiaro e non nasconde che la polarizzazione possa costare dal punto di vista elettorale al gruppo parlamentare Unidos Podemos- En Comú Podem-En Marea, di cui fa parte la coalizione delle sinistre, ma si dice convinto che «prima o poi la proposta di un referendum concordato si farà strada». (…) 

 

Nella crisi catalana, in un clima tanto polarizzato, manca forse da parte della sinistra la capacità di raccontare, di analizzare e spiegare la situazione? 

Per semplificare, credo che manchi molto un’analisi marxista. La sinistra ha sbagliato quando ha smesso di parlare delle questioni dell’economia politica e di strategie di lungo periodo, quando ha indebolito la sua scelta internazionalista, e credo che questi elementi siano fondamentali per affrontare fenomeni e problemi come quello della Catalogna. Dobbiamo capire perché le classi popolari, le più compromesse dalla crisi e dalla globalizzazione, continuano a votare per il Partito popolare, o perché un processo come quello indipendentista non è appoggiato dalle classi lavoratrici della Catalogna. Queste classi lavoratrici, in molti casi immigrati di seconda generazione, provengono da altre parti della Spagna e non sono indipendentiste. Il marxismo non spiega tutto, ma credo che sia strumento imprescindibile per capire quello che succede e agire di conseguenza. 

 

(…) Nel libro, lei sostiene anche l’incoerenza dell’essere marxista e al tempo stesso nazionalista. E quanto all’essere comunista e indipendentista? 

(…) Dal mio punto di vista, non è coerente essere indipendentista e comunista, in un contesto come quello catalano. Ci sono state altre circostanze storiche che hanno fatto sì che nazioni colonizzate, oppresse da imperi, negli anni 1950 del secolo scorso abbiano cercato la libertà ricorrendo agli ideali comunisti, ma erano due ideali che si incontravano su un cammino comune. Il comunismo è internazionalista. (…) 

 

Come valuta l’applicazione dell’articolo 155? Se lo aspettava? 

L’applicazione dell’articolo 155 è una misura sproporzionata, un errore. Contiene elementi che non si possono giustificare da alcun punto di vista giuridico, come l’intervento sui mezzi di comunicazione pubblici. Questa deriva peggiorerà la situazione e aumenterà la tensione senza servire a incanalare politicamente il problema. Il quale non ha a che vedere con Puigdemont, né con il fatto che quattro o cinque persone disattendano la legge, ma piuttosto con un fenomeno sociale che oltrepassa chiaramente i limiti della legge; ha a che vedere con 2,5 milioni di persone mobilitate, chiedendo qualcosa che in questo momento è illegale. C’è un 80% della società in Catalogna che vuole votare, a favore o contro l’indipendenza. Davanti a questo fatto è possibile chiudere gli occhi e agire con la repressione, i giudici, la polizia, e l’articolo 155, oppure si può riconoscere una realtà: che possiamo trovare una soluzione solo con il dialogo, il negoziato e trovando formule ragionevoli. La prima opzione, quella degli occhi chiusi, porta ad accentuare le pulsioni indipendentiste, è il modo di procedere degli ultimi anni e lo conosciamo già. (…) 

 

Quale strategia avete seguito nella plenaria al Senato convocata per ratificare il 155? 

Abbiamo votato contro, come siamo contro la Dichiarazione unilaterale di indipendenza. Pensiamo che quello che ha fatto Puigdemont sia un errore. La Diu non ha alcuna legittimità, il referendum del 1 ottobre non ha avuto le garanzie necessarie perché se ne potesse trarre un’espressione legittima. Risalendo alle elezioni autonomiste del 2015, nemmeno allora gli indipendentisti arrivarono alla metà dell’elettorato, perciò non c’è fondamento per dichiarare unilateralmente l’indipendenza, è un gesto assolutamente antidemocratico. La road map di Puigdemont non è solo un disastro, ma è anche irresponsabile. Ma applicare la 155 è un errore perché le ragioni sostenute non sono corrette. A mio parere, avrebbero dovuto approfittare della non dichiarazione di indipendenza formale per aprire uno spazio di dialogo. Invece hanno preferito uno scenario di maggiore conflitto, e questo avrà come unico risultato, credo, il fatto di dare ossigeno all’indipendentismo, che crescerà. 

 

Pablo Iglesias non ha criticato Puigdemont finché alcune settimane fa non si è tenuto il Consiglio cittadino statale. Là è stato piuttosto chiaro e ha ripartito la responsabilità della situazione fra il presidente del governo e il presidente della Generalitat. Chi ha più responsabilità: Rajoy o Puigdemont? 

Come partito che difende una Spagna federale e basata sui diritti sociali, noi siamo sempre stati molto critici con Puigdemont e Rajoy. Non dimentichiamo che Puigdemont rappresenta il PdeCAT, il partito che ha fatto i tagli di bilancio in Catalogna in questa legislatura, il partito che ha sostenuto le riforme del diritto del lavoro del Partito popolare. Abbiamo ben presente che entrambi i loro partiti rappresentano interessi contrapposti a quelli della classe lavoratrice, in Catalogna e Spagna. Ma il problema è più antico di Rajoy e Puigdemont. Questi due protagonisti sono collocati nel contesto di una traiettoria più ampia e sono assolutamente irresponsabili. Non è facile capire chi abbia le maggiori responsabilità. Sono entrambi irresponsabili perché sono incapaci di favorire il dialogo. Entrambi. 

 

(…) È reversibile la situazione, o la frattura sociale già compiutasi è molto difficile da recuperare? 

La frattura sociale è già evidente, e sarebbe stata evitata se ci fosse stato dialogo fin dal principio. Nel 2012, al Congresso dei deputati, come Izquierda Unida proponemmo di trasferire le competenze relative ai referendum non vincolanti alle comunità autonome. Questo avrebbe permesso di fare un referendum nella legge, sarebbe stata una formula simile a quella del Regno unito, avrebbe aperto possibilità interessanti. Se si fosse prestata attenzione alle proposte di Izquierda Unida nel 2012, e ad altri attori che chiedevano cose simili, non avremmo avuto un 1 ottobre, le cariche della polizia e la tensione che stiamo vivendo non solo in Catalogna, ma anche in Spagna, nelle famiglie, dappertutto. La frattura si può ricomporre, ma occorrerà tempo, e dirigenti all’altezza del momento storico. Bisogna essere disposti a ricostruire il paese, e questo significa costruire un paese nel quale l’unità rispetti la diversità: un paese federale che rispetti le specificità territoriali, con il punto in comune di soddisfare le necessità fondamentali dei lavoratori, in Catalogna e nel resto dello Stato: un elemento sul quale Partito popolare (Pp) e Partito socialista (Psoe) non vogliono assolutamente discutere. 

 

(…) Come potete usare la vostra forza, nel Congresso e in altre istituzioni, per affrontare la situazione, andando oltre la richiesta di dialogo? Come Unidos Podemos chiedete il dialogo e un referendum concordato, ma Izquierda Unida è a favore di una Repubblica federale. 

Giusto. Noi crediamo che una repubblica federale sia la veste più adeguata per risolvere i problemi territoriali e sociali. (…) Ma il dialogo deve costruirsi sempre in entrambi gli spazi, quello istituzionale e quello della cittadinanza, della strada, affinché si aiutino a vicenda. (…) 


*Pubblichiamo da Il Manifesto, per gentile concessione del quotidiano Público, l’intervista ad Alberto Garzón; qui nella versione originale

Comments

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pierre57
Saturday, 04 November 2017 19:58
Certo, come no il proletariato "internazionalista"è già pronto lancia in resta a difendere i fratelli massacrati degli altri paesi europei e mondiali come dimostrato in 17 anni di oligarchia eurocratica invadendo, come no, con oceaniche proteste di piazza là dove l'internazionalismo"(vero) del capitale ha colpito più duro(vedi Grecia e Italia).Si intravedono infatti con nitidezza(sic) le prime avanguardie di lavoratori tedeschi,olandesi e francesi pronti a sostenere le giuste rivendicazioni degli operai e salariati dei paesi mediterranei in lotta.Peccato però che tutto ciò sia ascritto nel libro dei sogni di visionari con occhi un po' appannati che confondono il cosmopolitismo del capitale che ha come ultimo ostacolo proprio lo stato / nazione con l'inesistente solidarietà"internazionalista" fra una aristocrazia operaia del nucleo forte dell'UE e quella massacrata dei paesi mediterranei e dato che si citano spesso a sproposito i testi sacri Lenin definiva questa aristocrazia operaia "il più grande ostacolo allo sviluppo di una compiuta coscienza di classe"
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Enrico Galavotti
Saturday, 04 November 2017 09:00
Non sono di sicuro gli Stati nazionali che ci difendono dal globalismo. Sono anzi così deboli che se le popolazioni non si difendono da sole, avranno a che fare con due nemici: uno esterno (istituti finanziari, multinazionali, Nato) e uno interno (i propri parlamenti). La UE ha già distrutto l'idea di Stato nazionale, il quale aveva già distrutto l'idea di autonomia locale e regionale. La stessa cosa è avvenuta sul piano linguistico: l'italiano ha distrutto i dialetti e l'inglese ha distrutto l'italiano. Anche solo sul piano linguistico si dovrebbe stare dalla parte dei Catalani, che per 40 anni di fascismo hanno avuto la lingua tagliata. Chi non capisce l'importanza di questi risvegli popolari, cosa capisce della democrazia?
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Mario Galati
Friday, 03 November 2017 12:30
Vorrei tranquillizzare Saverio, dato che sono d'accordo con lui, con pierre57 e con Azzarà. Il mio era un commento sarcastico.
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pierre57
Friday, 03 November 2017 11:08
Non sono sempre d'accordo con Azzarà, questa volta però sottoscrivo in toto l'intervento.In questa vicenda catalana la cosiddetta "sinistra antagonista"ha perso un'altra occasione per riflettere bene e a fondo sulla natura di queste sedicenti ribellioni promosse e indirizzate verso, ci si poteva scommetere,le fauci "democratiche e progressiste"di quella oligarchia eurocratica che non vede l'ora di annientare ogni sovranismo nazionale,frammentando sempre più le nazioni in quanto tali,ultimo impedimento al pieno dispiegarsi degli "spiriti animali"di un capitale multinazionale che ha bisogno per vincere ed espandersi sempre più di piccole entità territoriali da controllare e assogettare con maggiore facilità.Se non si capisce questo,inutile disquisire di analisi concreta della situazione concreta.Pierre57
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Saverio
Friday, 03 November 2017 10:49
Allucinanti i due commenti qui sopra... Ma soprattutto il secondo! La c.d. "sinistra radicale" catalana che ha sostenuto un governo di destra, che ha tagliato la spesa sociale, approvato leggi contro i lavoro e si presenta in parlamento con quella figura folkloristica della Gabriel con la maglia con la falce e martello!
Con questi poveracci non vinceremo mai neppure le elezioni condominiali!
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Enrico Galavotti
Thursday, 02 November 2017 08:20
Qui non si capisce che la Catalogna rivendica una indipendenza dalla Spagna da ben prima di oggi. L'ha perduta dal 1714 per colpa dei Borbone. Se Madrid le avesse dato, come ai Baschi e alla Navarra, un'autonomia fiscale, forse non l'avrebbe chiesta, come da noi han smesso di chiederla i sudtirolesi, che si sentono giustamente austriaci. Si sarebbe sentita simile ai Cantoni svizzeri, che non hanno problemi, vista l'autonomia fiscale, a riconoscersi in uno Stato federale.
Non avendola ottenuta, non rimaneva che chiedere l'indipendenza. Per 40 anni non hanno potuto usare pubblicamente la loro lingua. Non è sufficiente per sentirsi oppressi? Non ha alcun senso sostenere che siccome l'occidente esercita nei confronti del Terzo mondo un'oppressione ben maggiore, quella che patisce la Catalogna è una bazzecola al confronto. Son due cose completamente diversa. L'oppressione catalana va rapportata a quella degli irlandesi o scozzesi nei confronti degli inglesi, tanto per fare un esempio. Tant'è che gli scozzesi minacciano di staccarsi dagli inglesi se la Brexit procederà in maniera coerente, sino in fondo.
Per quale motivo abbiamo considerato i Paesi Baltici oppressi dai Russi? Davvero erano così meritevoli di passare sotto il capitalismo e la Nato? Non sono forse più sfruttati adesso di prima? Perché nei confronti della Russia diciamo che i paesi satelliti meritavano di chiedere la secessione o l'indipendenza, mentre non la pensiamo allo stesso modo delle minoranze etniche o linguistiche presenti nell'Europa occidentale nei confronti dei loro Stati cosiddetti democratici? Perché ci è risultato del tutto naturale che la Cekia si separasse dalla Slovacchia? Perché non abbiamo fatto nulla per tenere unita la Jugoslavia, anzi abbiamo fatto di tutto perché si frantumasse?
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Mario Galati
Wednesday, 01 November 2017 17:31
Ora che la bandiera della rivoluzione catalana è stata gettata nel fango dall'avventurismo e dalla vigliaccheria di Puigdemont e soci, e dalle classi medie e piccolo borghesi sottostanti, questa sarà senza dubbio raccolta dalla sinistra radicale antifranchista, che, dismessa la posizione opportunista, subalterna e codista in un processo sostanzialmente reazionario, guiderà le masse lavoratrici catalane alla vittoria.
Stefano Azzará ne stia sicuro.
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