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La matrice di Bazarov-Kautsky e il trotzkismo mediatico

di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli

aavv fotopgDopo più di nove decenni di vita stentata si rivelano sempre più evidenti la crescente debolezza, i continui fallimenti politici e le acute divisioni esistenti tra i diversi e rissosi gruppi che compongono il frastagliato microarcipelago del trotzkismo contemporaneo: non è certo casuale che ai nostri giorni sussistano almeno una dozzina di autoproclamate “Internazionali” che affermano di agire su scala planetaria, rimanendo spesso quasi sconosciute persino ai sempre più rari militanti di base del milieu trotzkista.

L’estrema sinistra di natura trotzkista, come del resto quella di altre correnti politiche (anarcocomunista, bordighiana, ecc.) non solo non ha fatto alcuna rivoluzione, ma non ci si è avvicinata nemmeno da lontano; la sua esperienza su scala internazionale durante circa nove decenni, a partire dal 1928, rappresenta dunque la storia di un fallimento permanente, contraddistinto dall’assoluta incapacità di incidere seriamente sulla realtà politica e sui rapporti di potenza concreti, mancando quasi ovunque persino di avviare processi concreti di accumulazione di forza in grado di far superare la soglia critica dell’irrilevanza politico-sociale.

Ma, simultaneamente, continua invece da molti decenni l’utilizzo quasi costante su larga scala, da parte dei mass media della borghesia occidentale, specie se di “sinistra”, del principale asse politico e del più importante segno distintivo comune ai gruppi che fanno riferimento alla Quarta Internazionale: elemento facilmente individuabile nell’ostilità e nella sfiducia politico-sociale da essi mostrata in modo quasi permanente, a partire dal 1926, contro i nuclei dirigenti politici dei paesi socialisti e delle nazioni antimperialiste sotto il manto di una fraseologia rivoluzionaria, partendo dall’Unione Sovietica dopo la morte di Lenin fino ad arrivare alla Cina Popolare, a Cuba socialista e al Venezuela bolivariano dei nostri giorni.

Del resto nel processo di produzione di strategia e praxis politico sociale da parte della CIA di Langley era stato in passato, ed è tuttora ben presente il tassello dell’alleanza – ritenuta necessaria e possibile – tra la sinistra antistalinista a livello mondiale e i circoli dirigenti più lucidi del potere statunitense.

Come ha notato infatti la storica antistalinista F. Stonor Saunders, in un suo ottimo saggio intitolato “Gli intellettuali e la CIA. La strategia della guerra fredda culturale”, fin dall’inizio del 1948 e quindi solo pochi mesi dopo la fondazione della Central Intelligence Agency “da qualche tempo l’Agenzia accarezzava una certa idea. Chi avrebbe potuto combattere meglio contro i comunisti di un ex comunista? Dopo i colloqui con Koestler, quest’idea cominciò a prendere forma. La distruzione dei miti del comunismo, egli argomentava, poteva essere raggiunta soltanto con la partecipazione, in una campagna di persuasione, di personalità della sinistra che non fossero comuniste. Al dipartimento di Stato e nei circoli dell’intelligence, le persone cui Koestler faceva riferimento erano già indicate come gruppo, la “sinistra non comunista”. Nel corso di quella che Arthur Schlesinger descrisse come una “rivoluzione silenziosa”, elementi del governo erano giunti sempre più a comprendere e a sostenere le idee di quegli intellettuali che, disillusi del comunismo, rimanevano tuttavia fedeli agli ideali del socialismo.

In effetti, la strategia di promuovere la sinistra non comunista doveva diventare “il fondamento teorico delle operazioni politiche della CIA contro il comunismo, per i successivi vent’anni”. La base ideologica di questa strategia, in cui la CIA stabiliva una convergenza, quasi un’identità, con gli intellettuali di sinistra, fu presentata da Schlesinger in The Vital Center (“Il Centro Vitale”), uno dei tre libri fondamentali che videro la luce nel 1949 (gli altri due erano Il Dio che è fallito, e 1984 di Orwell). Schlesinger registrava il declino della sinistra e, infine, la sua paralisi morale sulla scia della rivoluzione corrotta del 1917, e tracciava l’evoluzione della “sinistra non comunista” come “modello di mobilitazione per i gruppi che lottano per costruire un’area per la libertà”. Era all’interno di questo gruppo che “la restaurazione di una radicale vitalità” avrebbe potuto aver luogo, non lasciando “alcuna lampada alla finestra per i comunisti”. Questa nuova resistenza, argomentava Schlesinger, aveva bisogno di “una base indipendente a partire dalla quale operare. Richiedeva riservatezza, denaro, tempo, giornali, benzina, libertà di parola, libertà di unione, libertà di paura”.

“La tesi che animava tutta questa [mobilitazione della] sinistra non comunista era quella che Chip Bohlen, Isaiah Berlin, Nicolas Nabokov, Averell Harriman e George Kennan sostenevano tutti con passione”, avrebbe in seguito ricordato Schlesinger. “Tutti noi sentivamo che il socialismo democratico era il baluardo più efficace contro il totalitarismo. Questo divenne il tema sotteso – o addirittura occulto – della politica estera americana del periodo”. La sigla che designava la sinistra non comunista, NCL (Non-Comunist Left), diventò presto di uso comune nel linguaggio della burocrazia di Washington. «Era quasi un gruppo di tesserati», osservò uno storico.

Questo “gruppo di quasi tesserati” si riunì per la prima volta attorno al libro “Il Dio che è fallito”, una raccolta di saggi che testimoniavano il fallimento dell’idea comunista. Lo spirito animatore del libro fu Arthur Koestler, tornato a Londra in stato di grande eccitazione dopo i suoi colloqui con William Donovan e gli altri strateghi dell’intelligence americana. La storia della sua successiva pubblicazione costituisce il modello del contratto stipulatosi tra la sinistra non comunista e l’“angelo nero” del governo americano. Prima dell’estate 1948, Koestler ne aveva discusso con Richard Crossman, che durante il conflitto era stato a capo della PWD, la Psychological Warfare Division, il quale riteneva di poter “manipolare intere masse di persone” e di possedere inoltre “la giusta combinazione di prestidigitazione intellettuale per poter essere considerato un perfetto propagandista di professione”. (F. Stonor Saunders, “Gli intellettuali e la CIA. La strategia della guerra fredda culturale”).

I potenti mezzi di propaganda delle diverse frazioni della borghesia mondiale, specialmente (ma non solo) di matrice “progressista”, utilizzano di frequente un cavallo di battaglia di matrice trotzkista, e cioè quello della corruzione e della crescente degenerazione politico-sociale dei dirigenti dei paesi prevalentemente socialisti, ritenuti invece definitivamente imborghesiti.

Essi inoltre diffondono spesso tra i loro utenti, soprattutto dopo il 1991, uno dei pilastri post-sovietici dei gruppi legati alla tradizione della Quarta Internazionale, secondo il quale da tempo stati e formazioni economico-sociali quali Cuba, Vietnam e la Cina hanno ormai abbandonato i rapporti di produzione socialisti per trasformarsi in nazioni più o meno completamente capitaliste, omologabili dunque a quelle occidentali nelle loro principali linee-guida socioproduttive.

I mezzi di comunicazione dell’ala progressista della borghesia riprendono altresì carsicamente un’altra tematica cara al trotzkismo e ai suoi simpatizzanti, avente per oggetto la tesi di un presunto abbandono del marxismo e del comunismo da parte dei quadri dirigenti dei partiti delle nazioni facenti capo a Pechino, Avana e Hanoi, Pyongyang e Vientiane.

Infine gli strumenti di propaganda di “sinistra” delle metropoli imperialistiche diffondono di frequente notizie e informazioni sull’appoggio fornito da quasi tutti i gruppi trotzkisti a favore dei proteiformi protagonisti delle diverse “rivoluzioni colorate” via via diffusesi su scala mondiale a partire dal 1989, acquisendo pertanto un utile sostegno politico anche da parte dell’estrema sinistra a favore dei loro strumenti e mandatari attivi in giro per il mondo.

Per fare l’esempio più rilevante su scala planetaria, risulta abbastanza conosciuto l’appoggio inequivocabile fornito dalle principali formazioni politiche legate alla tradizione della Quarta Internazionale agli studenti anticomunisti e occidentalofili di piazza Tienanmen, durante la primavera del 1989. Oppure alla causa del separatismo tibetano nel corso degli ultimi tre decenni, riuscendo persino a cercare di far dimenticare la matrice feudale del Dalai Lama. Oppure agli studenti – anch’essi anticomunisti e filoccidentali – di Hong Kong, nel corso del 2019: senza aver alcun problema nel ritrovarsi all’interno dello stesso fronte politico anticinese con Salvini e Trump, oltre che senza mostrare reazioni negative di fronte al vergognoso spettacolo delle bandiere inglesi e statunitensi sventolate dalle forze separatiste di Hong Kong, servi dei legittimi eredi di quel colonialismo occidentale che scatenò la prima e atroce “guerra dell’oppio” contro la Cina nel 1839-1842.

L’elenco potrebbe essere facilmente allungato passando all’analisi dell’America Latina e del quadrante mediorientale: Siria, Iran, Libia di Gheddafi, ecc.

A tal proposito l’analista S. Zecchinelli, totalmente distante da qualunque forma di simpatia per Stalin, ha descritto con lucida tristezza all’inizio del 2018 il processo di degenerazione che ha interessato gran parte della sinistra antistalinista, trasformatasi via via in “sinistra imperiale” e “sinistra del capitale”.

Zecchinelli ha infatti evidenziato che tale sinistra «è diventata l’emblema dell’anticomunismo. Si tratta di una sinistra post-moderna vicinissima a Noske e lontanissima dai vecchi riformisti socialisti dei primi del novecento. Una sinistra delle élite, con la puzza sotto il naso, narcisista e senza scrupoli, che disprezza il popolo bollando, in quanto a suo dire “populiste’’, le critiche radicali al neoliberismo. Gli operai, i salariati, i ceti popolari colpiti dalla globalizzazione capitalistica gli sono avversi, ed è per questa ragione che gli intellettuali “post-modernisti” non perdono occasione per offenderli, umiliarli, colpirli con politiche liberticide. Hanno sciolto il popolo reale, aderito alla globalizzazione dei valori anglosassoni fondati sull’individualismo e lo spirito anti-comunitario, costruendo un popolo e un mondo immaginario fatto di femminismo, diritti lgbt e naturalmente di associazioni private. La sinistra del capitale non contempla il mondo del lavoro.

Il sociologo marxista James Petras ha criticato non soltanto la subalternità di questa sinistra all’imperialismo USA, ma anche la funzionalità del trotskismo dogmatico ai progetti neo-coloniali statunitensi. Un tempo i comunisti non avevano dubbi nel difendere tutti i paesi aggrediti dall’imperialismo; oggi il movimentismo trotskista, in Siria ed in Venezuela, si schiera dalla parte della CIA. […] Il movimento socialista, comunista e antimperialista non può perdere tempo con le elucubrazioni di questi gruppetti e con i loro sproloqui funzionali, per dirla con Guy Debord, alla ‘’degradazione spettacolare-mondiale (americana) di ogni cultura’’ “Americanismo” e sinistra sono diventati la stessa cosa, prendiamone atto e liberiamocene prima che sia troppo tardi» (S. Zecchinelli, “La sinistra transgenica e antisocialista”, 22 aprile 2018, in linterferenza.info).

Comunque la domanda fondamentale riguarda la ragione per la quale gli strateghi più intelligenti della borghesia e le loro reti mediatiche operanti per il mondo adoperavano e usano tuttora, da molti decenni e fino ai nostri giorni, tutta una serie di tematiche trotzkiste come loro utili strumenti nella lotta mondiale contro il comunismo; e la risposta risiede nel tassello della “sinistra eterna”, categoria teorica e fenomeno storico concreto, allo stesso tempo odiato e conosciuto dalla frazione più intelligente dei mandatari politici e dai teorici della borghesia (Nietzsche, ma non solo), fin dal 1880 e dai tempi della Comune di Parigi e della vittoriosa lotta della socialdemocrazia tedesca, allora principalmente su posizioni rivoluzionarie, contro il regime reazionario di Bismarck (D. Losurdo, “Nietzsche, il ribelle aristocratico”, ed. Bollati Boringhieri).

Per “sinistra eterna” lo storico Ernst Nolte, reazionario e antistalinista intendeva, seguendo la scia di Nietzsche, quella frazione delle masse popolari, delle classi sfruttate e degli intellettuali, più o meno estesa e attiva a seconda dei casi, schierata su posizioni apertamente egualitarie e antagoniste rispetto alla disuguaglianza sociale tipica di tutte le formazioni classiste, in una linea di sostanziale continuità plurimillenaria che andava dai profeti ribelli della Bibbia (Amos, Isaia, ecc.) passando da Spartaco, Thomas Muntzer, il giacobinismo più estremo e Babeuf per poi arrivare al bolscevismo e a Lenin (E. Nolte, “Controversie”, pagg. 81-88, ed. Corbaccio).

Che fare rispetto all’elemento di catalizzazione formato da questa “sinistra irriducibile” per la borghesia post-1890?

Utilizzare “bastone e carota”, ossia due tradizionali metodi di governo usati, secondo l’analisi corretta di Lenin, dalle classi sfruttatrici.

La repressione a volte non poteva essere (ancora) usata, o viceversa non risultava più sufficiente come nel caso esemplare della Germania di Bismarck.

La “carota” del benessere crescente era un metodo a sua volta d’aiuto rispetto alla massa dei lavoratori, ma non tanto da convertire buona parte dei combattivi e idealisti seguaci della “sinistra eterna” alle sorti meravigliose e progressive del capitalismo.

Che fare, dunque?

Una terza via, un terzo strumento generale di lotta contro il socialismo e il marxismo venne in ogni caso trovato e utilizzato su vasta scala dopo l’Ottobre Rosso del 1912: e cioè “usare i rossi per combattere i rossi”, impiegare proprio la vittoria dei bolscevichi nell’ex-impero zarista al fine di convincere, o almeno per far dubitare seriamente gran parte della “sinistra eterna” rispetto alla validità del socialismo/comunismo, oltre che della soluzione rivoluzionaria per arrivarci.

Per convertirla a più miti consigli.

Per demoralizzarla e farle perdere fiducia nelle proprie forze.

Per convincerla che non c’era alternativa alla “gabbia d’acciaio” (Max Weber) del capitalismo, magari migliorato e riformato molto gradualmente.

Per farle penetrare in profondità, nella sua mentalità collettiva, che anche i nuovi governanti, “rossi” almeno a parole, viceversa non agivano meglio degli sfruttatori borghesi, e che quindi, attraverso un’ipotetica rivoluzione si passava solo da un giogo all’altro, da una “fattoria degli animali” all’altra.

Si trattava – e si tratta tuttora – di una forma particolare di apologetica indiretta, descritta da Lukács nella sua opera “La distruzione della ragione”, la cui essenza consiste nel trasformare gli innegabili lati negativi e difetti connaturati organicamente al capitalismo in proprietà eterne, inevitabili e ineliminabili di qualsiasi forma di organizzazione sociopolitica umana, di qualunque tipologia possibile di rapporti sociali di produzione e di potere: “tutti gli uomini, sempre e dovunque, vogliono soldi e potere: non ci si può fare nulla”, “l’uomo è per natura egoista”, e così via.

Per quest’operazione continua di lavaggio del cervello, tesa almeno a neutralizzare al massimo grado possibile la “sinistra eterna” oltre che, a cascata, gli altri lavoratori salariati, i migliori testimonial possibili risultavano ovviamente gli esponenti progressisti, meglio ancora se con un passato rivoluzionario e in buona fede: tali “utili idioti” e involontari apologeti (indiretti) del capitale risultavano in grado di convincere, o almeno di seminare dubbi collettivi come nessun politico o intellettuale moderato avrebbe mai potuto fare, almeno rispetto al particolare target sociopolitico in via di esame (G. Lukács, “La distruzione della ragione”, pagg. 206-207, ed. Einaudi).

La prima tappa di questo processo politico-sociale si creò fin dal 14 dicembre del 1917 e a meno di due mesi di distanza dall’Ottobre Rosso, quando Vladimir Bazarov, bolscevico dal 1904 all’inizio del 1917 e collaboratore dell’influente giornale di sinistra Novaya Zizn, diretto dallo scrittore marxista M. Gorky, pubblicò sul quotidiano sopracitato un articolo nel quale egli dichiarò a chiare lettere che “la dittatura bolscevica non contiene neanche un atomo di socialismo, mentre le sue forme “di stato” non erano “solo aliene al socialismo, ma diametralmente opposte a esso, e poteva essere caratterizzato come una scuola per la perversione dei lavoratori” (V. Bazarov, “What is needed for socialism?”, 14 dicembre 1917, in www.marxist.org).

Primo elemento della matrice di Bazarov: il socialismo bolscevico “non conteneva neanche un atomo di socialismo”, ossia non era per niente socialismo ma invece uno “statalismo” alieno ed estraneo al vero comunismo.

Seconda sezione: si trattava quindi di una dittatura contro il proletariato, e non certo una dittatura del proletariato diretta da un partito al cui interno allora occupava alcune posizioni politiche importanti lo stesso Trotskij.

Terzo elemento: tale dittatura costituiva un male ed era “perversione” sia contro la classe operaia che gli insegnamenti di Marx, e doveva essere pertanto combattuta con forza proprio dai veri marxisti e dalla “sinistra eterna”.

La matrice di Bazarov venne ripresa dopo soli quattro mesi da I. A. Isuv e da Bucharin.

Menscevico e “marxista-ortodosso”, nell’aprile del 1918 Isuv espose l’equazione Russia sovietica = capitalismo di stato dopo soli sei mesi dallo scoppio della grande Rivoluzione d’Ottobre.

Isuv sostenne infatti sul giornale menscevico Vperiod (25 aprile del 1918) che “priva fin dall’inizio di un carattere veramente proletario, la politica del potere dei Soviet si inoltra sempre più apertamente, negli ultimi tempi, sulla via della conciliazione con la borghesia e assume un carattere antioperaio. Sotto la bandiera della nazionalizzazione dell’industria si persegue una politica di impianto di trust industriali, con il pretesto di ricostruire le forze produttive del paese si cerca di abolire la giornata di otto ore, di introdurre il lavoro a cottimo e il sistema Taylor, le liste nere e i fogli di via. Questa politica minaccia di togliere al proletariato le sue principali conquiste nel campo economico e di farne la vittima di uno sfruttamento illimitato da parte della borghesia” (V. Lenin, “Sull’infantilismo di sinistra”, cap. V, 12 maggio 1918).

Già nella primavera del 1918, i “discorsi provocatori della borghesia” del tipo di Isuv, denunciati con forza da Lenin nel suo articolo “Sull’infantilismo di sinistra”, vennero tra l’altro ripresi in buona fede dalla tendenza dei “comunisti di sinistra” (Bucharin, Osinsky, ecc). Essi scrissero in polemica con Lenin, sulla loro rivista Kommunist, che l’introduzione da parte del potere sovietico “della disciplina del lavoro legata alla reintegrazione di capitalisti alla direzione della produzione, mentre non può aumentare sostanzialmente la produttività del lavoro, diminuirà l’iniziativa di classe, l’attività e la capacità organizzativa del proletariato. Essa minaccia di asservire la classe operaia, susciterà il malcontento sia degli strati arretrati che dell’avanguardia del proletariato. Per attuare questo sistema, dato l’odio che regna nei ceti proletari verso i “capitalisti sabotatori”, il partito comunista dovrebbe appoggiarsi sulla piccola borghesia contro gli operai, e così suicidarsi come partito del proletariato” (V. Lenin, “Sull’infantilismo di sinistra”, ibidem).

Quindi fin dall’aprile del 1918, solo sei mesi dopo l’inizio della rivoluzione bolscevica, intellettuali marxisti in buona fede come Bucharin, o in mala fede come Isuv, parlavano della Russia sovietica come di un “capitalismo di stato”, contraddistinto da uno “sfruttamento illimitato da parte della borghesia” (Isuv).

La ragione politica che stava dietro alle tesi borghesi e raffinate alla Isuv risultava fin troppo evidente e chiara: “perché avete fatto la rivoluzione, operai russi, perché ancora sostenete i bolscevichi se il potere sovietico vi offre solo un capitalismo di stato ancora peggiore di quello pre-rivoluzionario, oltre alle privazioni tipiche di ogni processo rivoluzionario?”.

Più in generale, se si convincono i lavoratori che fanno realmente le rivoluzioni che la loro azione collettiva porta solo a casa il vecchio capitalismo, si toglie almeno una parte del loro sostegno al nuovo regime politico e socioproduttivo. E se poi nemmeno si convincono i lavoratori dei paesi che non hanno ancora fatto le rivoluzioni che “il sol dell’avvenire” risulta fin dall’inizio, o si è trasformato più o meno rapidamente nel vecchio capitalismo, seppur di stato e parzialmente modificato (si pensi solo alla “morale” che stava dietro l’abile ed astuta fattoria degli animali di Orwell), si toglie non solo gran parte del loro sostegno e simpatia alle nuove formazioni statali rivoluzionarie e post-rivoluzionarie, ma soprattutto gran parte della loro volontà rivoluzionaria. “Perché pensate di fare la rivoluzione, se tanto i padroni ci saranno sempre anche se sotto la maschera dello Stato, come insegna l’esempio russo del 1917/22 e poi quello sovietico, l’esperienza cinese, cubana e vietnamita, ecc.?” (M. Waldenberg, “Il papa rosso Karl Kautsky”, vol. secondo, pag. 825, Editori Riuniti).

Questa è la vera e gigantesca posta politica che si ritrova dietro le discussioni (apparentemente astratte, astruse e noiose) sulla natura socioproduttiva degli stati e delle formazioni economico-sociali sviluppatisi dopo l’Ottobre Rosso del 1917, ivi compresa ovviamente l’esperienza cinese del 1925/2020

Comunque, il salto di qualità per la matrice elaborata in parte da Bazarov, oltre che per la sua diffusione su scala planetaria attraverso l’azione combinata della socialdemocrazia internazionale e dei mass media borghesi, avvenne attraverso l’apporto decisivo di Karl Kautsky: testimonial che nel 1918 godeva di una parziale e declinante, ma ancora reale fama di marxista ortodosso e di “papa rosso”, ossia di massimo esponente teorico del marxismo a partire dal 1895 e dopo la morte di Engels.

Proprio Kautsky nel 1918 scrisse infatti un saggio intitolato “La dittatura del proletariato”, nel quale egli sviluppò e completò l’operazione anticomunista di Bazarov combinandola con due ulteriori snodi storico-teorici.

Innanzitutto il “papa rosso” nel 1918 sostenne che la presente dittatura del proletariato in Russia era in flagrante “contraddizione con gli insegnamenti di Marx”, perché il socialismo risultava impossibile e impraticabile nell’arretrato ex-impero zarista, in miseria e con forze produttive poco sviluppate.

Inoltre Kautsky indicò che nel regime autoritario di dittatura sul proletariato implementato dai bolscevichi stava già emergendo una nuova classe privilegiata, ossia una nuova classe sfruttatrice in embrione (K. Kautsky, “The dictatorship of the proletariat”, capitolo IX e X, in www.marxist.org).

Se in un suo libro del 1919, intitolato “Terrorismo e comunismo”, Kautsky impiegò coscientemente per definire il regime sovietico termini e categorie quali “capitalismo di stato”, “nuova classe di funzionari” (bolscevichi, ovviamente), e “nuova classe dominante” (comunista, ovviamente), sempre nel 1919 Bazarov aggiunse un altro mattoncino al processo di costruzione del mantra antileninista del “tutto è rimasto come prima, salvo una verniciatura di rosso” esponendo a sua volta la tesi della degenerazione burocratica del comunismo, attraverso la progressiva formazione di una “casta” (Bazarov) organizzata di natura tecnico-intellettuale (J. Biggart, «Aleksander Bogdanov and the theory of a “New Class”», pagg. 266-267, in The Russian Review, vol. 49, 1990).

Risulta a questo punto fin troppo semplice evidenziare il pesantissimo debito contratto via via sia dal Trotskij del 1926-1940, con la sua teoria della “casta burocratica” reazionaria e parassitaria di natura sovietica, sia dal movimento trotzkista vecchio e nuovo rispetto alla matrice di Bazarov-Kautsky; diventa meno facile, ma molto più importante comprendere invece le ragioni dell’innegabile successo secolare di quest’ultima, ancora viva e vegeta nei suoi tratti fondamentali ai giorni nostri e alimentato carsicamente dalla potente macchina mediatica della borghesia contemporanea.

La ragione immediata di tale diffusione risiede nella natura astutamente e intelligentemente demagogica della matrice di Bazarov-Kautsky: e i demagoghi, aveva sottolineato con forza il geniale e preveggente Lenin nel suo “Che fare” del 1902, costituiscono il “peggiore nemico della classe operaia”; non uno degli avversari, non uno dei tanti antagonisti, ma proprio i peggiori nemici della classe operaia (V. I. Lenin, “Che fare”, capitolo IV).

La causa fondamentale si trova tuttavia nel fatto che, nel caso concreto in esame, la demagogia si basa purtroppo su alcuni elementi concreti e reali, sintetizzabili con la teoria delle tre asimmetrie via via formatesi durante il processo concreto di passaggio dal capitalismo al comunismo.

La prima riguarda la profonda differenza sussistente, in modo inevitabile e necessario, tra il socialismo (inteso come prima e immatura fase della formazione economico-sociale comunista) e il comunismo sviluppato: è sufficiente leggere la marxiana “Critica del programma di Gotha” del 1875 per assimilare rapidamente la grande distanza che separa il socialismo del “a ciascuno secondo il suo lavoro” (con apparato statale annesso, notò giustamente Lenin nel suo “Stato e rivoluzione” del 1917) dalla generosa gratuità e abbondanza derivante dalla praxis socioproduttiva e dalla regola del “a ciascuno secondo i suoi bisogni”, in felice assenza di apparati statali via via deperiti ed estinti nel corso del tempo.

Vista tale grande distanza diventa dunque possibile per demagoghi del tipo di Zizek, Negri (“Goodbye, Mr. socialism”) e del Trotskij del 1926-40 respingere, ovviamente “da sinistra” e “in nome del comunismo”, la dura regola socioproduttiva della distribuzione socialista del prodotto sociale in base al lavoro erogato, qualificandola spesso come un sistema di natura borghese.

La seconda asimmetria riguarda invece il differenziale concreto tra un socialismo affermatosi nei paesi più avanzati sul piano tecnologico-socioproduttivo e quello invece che ha finora vinto concretamente, nelle nazioni meno avanzate quali le regioni dell’ex-impero zarista del 1917, la poverissima Cina del 1949 e così via.

Fermo restando che, seguendo con piacere G. Lukács, a nostro avviso il peggior socialismo risulta migliore del migliore capitalismo, fino ad ora e quindi per più di un secolo le società socialiste sono state via via gravate e penalizzate proprio dal pesante handicap di essere partite, nella gara planetaria contro l’imperialismo, in una situazione di schiacciante inferiorità rispetto alle formazioni economico-sociali capitalistiche in campi decisivi: ossia il livello di sviluppo delle forze produttive, il potere reale d’acquisto degli operai e il grado di avanzamento del binomio scientifico-tecnologico, costituendo pertanto un “supermarket” meno attraente e magnetico rispetto a quello borghese, almeno per larga parte dei produttori diretti del nord del nostro pianeta.

La terza asimmetria riguarda invece il dislivello indiscutibile che si è creato tra un processo ipotetico-ottimale di costruzione del socialismo, seppur partendo da nazioni poco sviluppate, e quello invece attuatosi concretamente in mezzo a guerre civili e aggressioni imperialiste, sommate agli errori spesso pesanti – e a volte tragici – compiuti carsicamente dai nuclei dirigenti politici dei partiti comunisti al potere dopo il 1917: tale ulteriore handicap politico-sociale non poteva che rafforzare e consolidare ulteriormente la presa concreta e il fascino attrattivo esercitato dalla matrice di Bazarov-Kautsky, nelle sue varianti e aggiornamenti più o meno creativi, rispetto a sezioni significative della “sinistra eterna” e, più in generale, delle masse popolari del nostro pianeta.

Che fare per i comunisti del Ventunesimo secolo, rispetto al trotzkismo mediatico?

In estrema sintesi, far emergere e denunciare la particolare connessione dialettica creatasi tra trotzkismo e borghesia contro i paesi socialisti, rompendo allo stesso tempo qualunque rapporto politico con forze che sul piano oggettivo rientrano a pieno titolo tra i demagoghi, quindi tra i peggiori nemici della classe operaia.

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Daniele
Friday, 23 October 2020 17:10
Breve storia della CIA in Venezuela


Di Mision Verdad

Vi sono abbondanti prove che rivelano l’infiltrazione della CIA negli affari interni dell’America Latina, sotto forma di colpi di Stato e promozione di guerre civili. Le sue operazioni in Venezuela sono cambiate col tempo. Dall’essere negli anni ’60 su base non dichiarata pianificando le attività segrete nel continente, ad essere attualmente il centro geopolitico che definisce prevalenza o meno degli Stati Uniti come potenza egemonica nella regione dell’America Latina.
Miraflores nel mirino: centro operativo per agenti stranieri
Nel quadro della guerra fredda e della lotta al comunismo, le operazioni segrete di questa organizzazione si concentrarono sull’isolamento del governo cubano e sul limitare qualsiasi tentativo di avanzata progressista in altri Paesi minacciandone il controllo emisferico. Così debuttarono col colpo di Stato al Presidente Jacobo Arbenz del Guatemala. Tom Polgar, capo del dipartimento d’intelligence estero della divisione latinoamericana dal 1965 al 1967, riferisce che “una volta insediato un governo amico al potere, il capo della base della CIA aveva cinque modi per mantenere l’influenza degli Stati Uniti sui capi stranieri”. Offrendo servizi d’intelligence stranieri (con resoconti settimanali truccati su quello che accadeva nel mondo), consegnando denaro a funzionari collocati in posizioni chiave nelle istituzioni pubbliche e penetrando i movimenti politici di sinistra e guerriglieri per effettuare operazioni anti-insurrezionali, parte di quei canali furono implementati coll’obiettivo che il governo beneficiario adottasse misure appropriate per neutralizzare qualsiasi gruppo nel Paese che rappresentasse una minaccia dal punto di vista degli Stati Uniti. L’obiettivo principale delle missioni segrete era consentire un ambiente stabile di “democrazia rappresentativa”, con l’alternanza di capi che apertamente collaboravano cogli interessi degli Stati Uniti nella regione. Non solo per le considerevoli risorse energetiche, ma anche per il ruolo diplomatico che il Paese svolse ritrattando i processi che si avvicinavano al modello sovietico. Da Rómulo Betancourt a Rafael Caldera, gli allota governanti in Venezuela diedero prerogative strategiche all’agenzia in cambio di finanziamenti. Infatti, la Dottrina Betancourt, applicata dallo stesso fondatore d’Acción Democrática per promuovere l’espulsione di Cuba dall’OAS, giustifica i legami che aveva con la dinastia Rokefeller e con gente come Allen Dulles, primo direttore della CIA, e promotore diplomatico al momento della risoluzione nell’OSA che dichiarava il comunismo incompatibile coi principi dell’organizzazione. Successivamente, durante il primo governo di Carlos Andrés Pérez, il Venezuela ebbe di nuovo un ruolo attivo nelle missioni della CIA nel continente sudamericano. L'”Operazione Condor” che cercava di rovesciare i governi di sinistra del cono meridionale, usò cittadini venezuelani come agenti di supporto. Le azioni d’intelligence degli Stati Uniti crebbero col rovesciamento di Marcos Pérez Jiménez e l’instaurazione della democrazia puntofijista. Come dice Bolgar, gli anni ’60, ’70 e ’80 furono teatro di collaborazioni tra CIA ed agenzia d’intelligence venezuelana DIGEPOL (precedentemente DISIP, oggi SEBIN) che portò a reclutamento e formazione del personale da parte dell’esercito nordamericano. Una figura esemplare della formazione di tale sinistro braccio repressivo dei governi socialdemocratici fu Henry Lopez Sisco, commissario DIGEPOL, che negli anni ’60 entrò nella base militare di Fort Bragg (North Carolina) per addestrasi nel Centro delle Guerre psicologiche, che in seguito gli fu utile per perpetrare i massacri di Cantaura e Amparo. Allo stesso modo, l’agenzia di intelligence locale fu utilizzata come rifugio delle reclute che ebbero compiti legati al contenimento del comunismo nella regione, Luis Posada Carriles, latitante cubano esecutore di un’operazione terroristica su un aereo passeggeri della Cubana de Aviación che causò la morte di 73 persone nel 1976. Posada Carriles divenne un alto funzionario della DISIPA del Venezuela. La semplice conclusione dell’operazione segreta in Venezuela nell’ultima metà del secolo scorso, è che l’alleanza di un “governo amico” con la politica estera degli Stati Uniti permise alle interferenze della CIA di espandersi comodamente in tutte gli strati della politica nazionale.
L’arrivo di Chávez porta le ONG in Venezuela
La fine del potere del borghese creolo coll’ascesa di Chavez fu una perdita strategica in un grande spazio operativo su cui contavano gli uffici della Central Intelligence Agency. Da lì, l’ambasciata nordamericana a Caracas divenne il centro delle operazioni mentre le modalità d’infiltrazione furono affinate, lasciando il posto a ONG e media nel tentativo di rendere tale violazione camuffata da atti civili “non rilevabile”. La rete profonda tracciata dalla CIA nella politica interna acquisendo profili compatibili con le esigenze operative dell’agenzia, fu opportunamente dispiegata negli eventi che destabilizzarono il governo di Hugo Chávez. A parte il fatto che l’ambasciata USA sotto Charles S. Shapiro partecipò al colpo di Stato del 2002, la CIA, attraverso le figure legali che promuovevano la democrazia occidentale, era responsabile del finanziamento di oltre 300 organizzazioni non statali che avevano il compito d’imporre il cambio di regime nel Paese. È il caso della NED (Fondo nazionale per la democrazia) e dell’USAID (Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale), strutture indipendenti che occultano i finanziamenti all’opposizione venezuelana raggruppata in partiti, organizzazioni e media. L’USAID diede almeno 15 milioni di dollari alle organizzazioni della “società civile” venezuelana. Il NED assegnò in media di 2 milioni di dollari all’anno, seguendo i rapporti pubblicati fino al 2012. Il denaro fu assegnato a ONG come Súmate, governata da María Corina Machado, responsabile della raccolta delle firme per richiedere un referendum di richiamo vinto dal Chavismo nel 2004. Raggiunse qualche anno dopo i capi dei partiti antichavisti Prima Giustizia e Volontà Popolare. Parte del denaro formò degli universitari come potenziali agenti insurrezionali nel raid da soft-power del 2007, coll’immagine della “ribellione studentesca” come copertura civica. Il Centro per l’azione e le strategie applicate non violente (CANVAS) finanziato dal NED, consigliav tali gruppi di opposizione dissidenti tra cui Juan Guaidó, lontano dal sapere che il personaggio che interpreterà qualche tempo dopo a favore dei suoi mandanti. D’altra parte, i media aziendali, reclutati dall’intelligence nordamericana (si ricordi l’Operazione Mockingburd) ai vertici, si animarono col tentativo di golpe del 2002, divenendo rigorosi nella montare continue campagne di propaganda contro il governo accusandolo di essere un regime dittatoriale, collegandolo a casi di traffico di droga e terrorismo, aumentando il dossier con cui la destabilizzazione fu giustificata negli ultimi anni. In questo modo, durante i primi anni del Chavismo, lo schema operativo della CIA fu rovesciato da rovesciare il governo a presunte “promozione della democrazia” e “protezione dei diritti umani”, promuovendo l’anti-chavismo con nuove organizzazioni politiche “indipendenti”.
La CIA con Nicolás perde le forme
La rivoluzione colorata del 2017 condotta dall’alleanza di opposizione raggruppata nel MUD, fu il momento in cui i fattori irregolari e paramilitari incubati dai gruppi civili coll’aiuto della CIA vennero alla luce con forza. Tuttavia, il disastro politico di tale operazione pose fine al modo in cui operava l’agenzia. Negli ultimi anni, il finanziamento dei gruppi irregolari ebbe sempre più risultati mentre le azioni tipo “Primavera araba” si esaurivano. Inoltre, la storia mediatiche secondo cui il Paese soffre una “crisi umanitaria” aprì la strada all’inquinamento dell’opinione pubblica coll’idea che fosse necessario un intervento straniero. Mentre sul fronte multilaterale, gli Stati Uniti ebbero difficoltà a imporre un consenso ai Paesi latinoamericani ad ignorare il rispetto dell’autodeterminazione del Venezuela e sostenere l’intervento militare; in questo modo sul fronte irregolare, i servizi d’intelligence venezuelani sventarono diversi attentati dei mercenari. L’ultimo riguarda la cattura dell’ex-ufficiale Oswaldo Valentín García Palomo, che pianificò un colpo di Stato a febbraio, un approccio diverso rispetto all’ultima operazione dell’agente straniero Joshua Holt, trovato a Ciudad Caribia durante un’operazione delle forze di sicurezza venezuelane, che svelarono vergognosamente l’agenda segreta degli Stati Uniti. Garcia Palomo, ex-colonnello della Guardia Nazionale Bolivariana, confessò che nelle attività del golpe abortito (operazione Constitución del 2018 e il tentativo del febbraio 2019) aveva il sostegno di CIA e governi di Colombia, Brasile e Cile. Disse anche che l’agenzia statunitense lo contattò attraverso il generale in pensione Antonio Rivero, attivista del partito Volontà Popolare ed agente della CIA, secondo il Ministro della Comunicazione Jorge Rodríguez. Il disertore menzionò anche Julio Borges, che dal 2015 cospirò a favore di omicidio e golpe contro il governo di Nicolás Maduro. Il primo smantellamento di tale rete, che si preparava al colpo di Stato da un anno, permise di conoscerne l’ampia portata, poiché i contatti di Garcia Palomo includevano ex-ufficiali come Juan Carlos Caguaripano, autore dell’occupazione di Fort Paramacay nel 2017, e la cellula terroristica di Óscar Pérez. Inoltre, il resto della forza finì nella fallita Operazione Libertà che Guaidó invocò il mese scorso. La mancanza di supporto all’appello ad ignorare lo Stato e le azioni d’intelligence svolte dalle agenzie di sicurezza fecero del 30 A un giorno doloroso e inglorioso per gli Stati Uniti. Il Presidente Nicolás Maduro affermò, dopo il fallito colpo di Stato del 30A, che il generale Cristopher Figuera fu reclutato dalla CIA per compiere il tentato golpe dopo la liberazione di Leopoldo López.
Sul fronte economico delle aggressioni contro il Venezuela, non dobbiamo dimenticare di menzionare le informazioni fornite dall’ex-direttore della CIA e ora il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, che rivelò all’inizio del 2018 che l’agenzia era responsabile di alcune delle sanzioni emesse contro lo Stato venezuelano. Il presidente Donald Trump era interessato ai rapporti che parlavano del Venezuela, soprattutto per sapere “in che modo il governo di Maduro fosse legato alle Forze Armate Nazionali Bolivariane”, così come questioni finanziarie come “chi aveva i soldi, i creditori, i tempi di pagamento”. Così, Pompeo ammise che seconda o terza batteria di sanzioni erano il risultato delle raccomandazioni della CIA. Un’altra misura di soffocamento che integra il blocco finanziario è deliberatamente riconosciuta dal braccio dell’intelligence statunitense. In tale senso, i nuovi e intensificati attacchi irregolari contro il Paese negli ultimi due anni del governo Maduro, dal tentativo di assassinarlo al fallito colpo di Stato del 30 aprile, rivelano due diversi aspetti della storia delle aggressioni interventiste di Washington. Progressivamente, l’agenzia d’intelligence nordamericana ha escluso lla leadership locale mettendo i suoi funzionari della Casa Bianca ad imporre casualmente sanzioni economiche ed azioni di forza irregolare, trasferendo le responsabilità operative nei Paesi del Gruppo di Lima, specialmente la Colombia. Nel frattempo scelsero di risparmiare tempo per coprire le proprie azioni, inevitabilmente mettendo l’avversario in vantaggio, potendone prevedere le prossime mosse.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Roberto
Friday, 23 October 2020 17:08
I media occidentali presentano i teppisti a Hong Kong come eroi. Ma lo sono?


di Andre Vltchek,

Ogni volta che i manifestanti di Hong Kong distruggono proprietà pubbliche, non ci sono telecamere dei media occidentali a vedere. Ma quando la polizia decide d’intervenire, proteggendo la città, appaiono in pieno i crociati dei media occidentali. Domenica, enormi bandiere nordamericane sventolavano. Una massiccia manifestazione, composta principalmente da giovani, passava dalla vecchia area del centro costruita dalla Gran Bretagna al Consolato Generale degli Stati Uniti, spesso erroneamente chiamata “ambasciata”. La temperatura era ben oltre i 30 gradi, ma il numero dei “manifestanti” continuava a crescere. Molte arterie principali di Hong Kong erano bloccate. I media occidentali erano lì in piena forza, indossando giubbotti fluorescenti gialli con insegne ‘Press’, elmetti e maschere. Si mescolavano nella folla, filmando le bandiere degli Stati Uniti, godendosi chiaramente lo spettacolo.
“Presidente Trump, per favore libera Hong Kong”, leggevo su diversi manifesti.
“Liberati da chi? “chiesi a un gruppo di manifestanti, tutti in abiti ninja, sbarre di metallo in mano, sciarpe nere che coprivano il viso. Molti risposero, borbottando qualcosa di incomprensibile. Una ragazza urlò con aria di sfida:
“Da Pechino!”
“Ma Hong Kong è la Cina, no?” chiesi, “Come potrebbe essere liberata da se stessa?”
“No! Hong Kong è Hong Kong!” arrivava la pronta risposta.
Lì vicino vidi l’Union Jack col vecchio stemma di Hong Kong dell’era coloniale. La grande manifestazione fu chiaramente scrupolosa. I suoi membri presentarono una petizione al consolato generale degli Stati Uniti, chiedendo che il Congresso degli Stati Uniti approvi una legislazione che richieda al suo governo di monitorare e decidere se Hong Kong è “abbastanza autonoma” dalla RPC e se debba quindi qualificarsi per i benefici commerciali ed economico degli Stati Uniti. In tutta l’area del centro cittadino, centinaia di “ninja” urlavano slogan filo-occidentali. Qui sventolavano bandiere dell’era britannica, accanto a bandiere statunitensi. Mi avvicini a una giovane coppia tra i manifestanti, che riposava su una panchina:
“I vostri amici sanno quanto fosse brutale, non democratico e opprimente il dominio britannico? Sanno in quale miseria molti cittadini di Hong Kong dovevano vivere all’epoca? E la censura, l’umiliazione…?”
“No! “Mi gridarono, indignati. “È tutta propaganda! ”
“Propaganda di chi?” chiesi.
“La propaganda di Pechino!”
Almeno parlavano un po’ di inglese. Una cosa bizzarra di Hong Kong è che, mentre alcuni vorrebbero (o forse sono pagate per dire che vorrebbero?) riavere l’amministrazione coloniale inglese, la maggior parte di loro non parla inglese, e rifiutano anche di parlare il mandarino. Non c’è da stupirsi che Hong Kong stia rapidamente perdendo con Singapore pro-cinese e assai cosmopolita! Ma la dimostrazione non era dove si trovava realmente “l’azione” e lo sapevo intuitivamente. La marcia con bandiere sventolanti fu un grande evento organizzato per i mass media occidentali. Lì, gli slogan “pro-democrazia” venivano cantati in modo ordinato. Nulla fu bruciato, vandalizzato o smantellato ovunque fosse presente la macchine della stampa occidentale! A pochi isolati, tuttavia, vidi mostruosi atti di vandalismo, in uno degli ingressi della stazione della metropolitana centrale (MTR). I teppisti che si definiscono “manifestanti” rovinavano proprietà pubblica, un sistema di trasporto utilizzato da milioni di cittadini ogni giorno. Mentre erano lì, smantellarono le ringhiere metalliche pubbliche che separano i marciapiedi dalle strade. Le barre di metallo di questa ringhiera furono poi utilizzate per ulteriori assalti a infrastrutture della città e la polizia. Gli ombrelli dei “manifestanti” coprivano la scena del crimine. Ombrelli simili a quelli utilizzati nel 2014, durante la precedente cosiddetta “rivolta dell’ombrello”. Nessun giornalista straniero si vedeva! Questo non era per il mondo. Era crudo, reale e brutale. “Non filmare!” bocche coperte iniziarono a gridarmi. Continuai a filmare e fotografare. Non indossavo alcun gialet o casco con stampato Press. Non lo faccio mai, in qualsiasi parte del mondo. Mi tralasciarono; troppo occupati a distruggere la strada. Mentre smantellavano le proprietà pubbliche, i loro zaini, pieni di lettori portatili, rigurgitavano l’inno nazionale degli Stati Uniti. Un mio amico di Pechino mi scrisse: “Vendono la propria nazione e il proprio popolo. Abbiamo parole pessime per essi in cinese”. Ma non è solo la Cina continentale a essere disgustata da ciò che accade a Hong Kong. Tre importanti quotidiani di Hong Kong, Wen Wei Po, Ta Kung Pao e Hong Kong Commercial Daily, sono tutti a favore di Pechino, della polizia e definiscono i “manifestanti” come “rivoltosi” o “piantagrane”. Tra i grandi media, solo Ming Pao e Apple Daily,tradizionalmente anti-Pechino, li definiscono “manifestanti”, persino “liberatori”.
I cittadini sono principalmente (come lo erano durante le rivolte del 2014) ostili alle “proteste”, ma hanno paura di affrontare le bande di giovinastri coperti e armati (con sbarre e mazze di metallo). Alcuni ci provarono, anche in un centro commerciale di lusso nel centro della città, e furono brutalmente picchiati. I “manifestanti” sembrano adrenalinici e di umore aspro. Si riuniscono e si muovono in orde. Molti si rifiutavano di parlare. Ciò che è importante capire è che, mentre i rivoltosi cercano di spacciare il messaggio della “lotta per la democrazia”, in realtà sono intolleranti con coloro che non sono d’accordo coi loro obiettivi. In realtà, attaccano violentemente chi ha opinioni diverse. Inoltre, e questo devo precisarlo, dopo aver seguito le proteste in letteralmente centinaia di città nel mondo, da Bayrut a Lima, Buenos Aires, Istanbul, Parigi, Il Cairo, Bangkok e Jakarta: quello che succede a Hong Kong è estremamente mite quando si tratta delle risposte della polizia! La polizia di Hong Kong funziona bene e velocemente. Ha creato catene umane, usato molti flash e usato gas lacrimogeni sporadicamente. Si difende quando viene attaccata. Ma violenta? Se si confrontano le azioni della polizia qui con quelle di Parigi, è tutta gentilezza e dolcezza. Quasi alcun proiettile di gomma. Il gas lacrimogeno è “onesto” e non miscelato con sostanze chimiche letali, come in molti altri luoghi, somministrato a piccole dosi. Alcun cannone ad acqua sputa liquido con urina ed escrementi, come in molte altre città del mondo. Fidatevi: sono un esperto di gas lacrimogeni. A Istanbul, durante l’insurrezione del Gezi Park, i manifestanti dovettero usare maschere antigas, come feci io. Altrimenti sareste svenuti o finiti in ospedale. Anche a Parigi si sveniva. Nessuno è svenuto qui; qui sono delicati.
Sulla “altra parte”, la violenza dei manifestanti è estrema. Paralizzano la città, rovinando milioni di vite. Gli arrivi di stranieri a Hong Kong sono in calo del 40 percento. La reception del Mandarin Oriental Hotel, che si trova proprio accanto alle battaglie di domenica, mi disse che la maggior parte delle camere erano vuote e durante gli “eventi”, l’hotel fu isolato dal mondo. E le loro esigenze da traditori? Questo sarebbe accettato in qualsiasi parte del mondo? Bandiere sventolanti di un Paese straniero (in questo caso, degli Stati Uniti) e che invocano l’intervento? I “capi attivisti per la democrazia ” di Hong Kong come Joshua Wong sono chiaramente in collusione con interessi e governi occidentali. Lui e gli altri spacciano, costantemente, ciò che altrove sarebbe descritto come notizia falsa. Ad esempio, “La mia città è la nuova Berlino della guerra fredda”, aveva dichiarato. Sì, forse, ma non a causa del governo di Hong Kong, ma delle sue azioni e delle persone come lui. La copertura degli eventi da parte dei mass media occidentali è chiaramente selettiva e questo lo dice sottovoce. In realtà, molti media i Europa e dal Nord America “aggiungono carburante al fuoco”, incoraggiando i rivoltosi mentre esagerano le azioni della polizia locale. Seguo e filmo il loro lavoro e ciò che vedevo era scandaloso!
Scrivo dal Tai Kwun Center. Oggi famoso complesso artistico (della “nuova Hong Kong cinese”), era la stazione centrale di polizia sotto l’occupazione britannica, così come il cosiddetto Victoria Prison Compound. Il signor Edmond, che lavora nel centro, spiegava: “Se ci fosse un referendum ora, i cosiddetti manifestanti non vincerebbero. Perderebbero. Questo è un problema interno della Cina e va trattato tale. Una continuazione degli eventi del 2014. Ciò che è cambia questa volta è che i manifestanti optano per la violenza estrema. La gente di Hong Kong ha paura; spaventata da essi, non dalle autorità”. Qui, i prigionieri furono confinati e giustiziati durante il dominio inglesi. Non lontano da qui, mostruose baraccopoli ospitavano soggetti deprivati dalla regina. Dopo che gli inglesi se ne andarono, i bassifondi furono convertiti in parchi pubblici. La vita a Hong Kong è migliorata. Non veloce come nella vicina Shenzhen o Guangzhou, ma è migliorata. La ragione per cui Hong Kong viene “tralasciata” è a causa di suoi antiquati leggi, regole e regolamenti dell’era inglesi, del suo sistema capitalista estremo; a causa del “troppo poco da Pechino”, non “per troppo”. Tali teppisti vanno contro gli interessi del loro popolo, che li maledice. Non ad alta voce, mon ancora, dato che i rivoltosi hanno mazze e sbarre di metallo, ma imprecano. I media occidentali decidono di non ascoltare queste maledizioni. Ma la Cina si. Sente anche il popolo di Hong Kong. Le maledizioni cinesi sono terrificanti, potenti. E non si dissolvono nel nulla.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Massimo
Thursday, 22 October 2020 17:03
Le sinistre risorse della sedizione


di Raúl Antonio Capote,

Le immagini dicono tutto e di più, sono gli stessi aggressori. Se osserviamo le foto scattate nei tre luoghi; Kiev, Caracas e Managua, troveremo non poche coincidenze
Di fronte all’auge dei movimenti progressisti, a fine anni ’90, in America Latina e la possibile ascesa al potere di governi di sinistra, Venezuela 1999, il governo degli USA, in alleanza con le forze più retrograde del continente americano e d’Europa, si posero l’urgente necessità di fabbricare capi di un nuovo tipo a partire da un ampio programma di borse di studio per formare i leader della reazione e “piantare” nelle università latinoamericane i loro paladini. La strategia dei servizi speciali degli USA volta a corrompere i movimenti giovanili e studenteschi, convertendoli in organizzazioni non governative (ONG) che amministrano risorse per la sedizione provenienti da International Republican Institute (IRI), National Endowment for Democracy (NED), Agenzia degli USA per lo Sviluppo Internazionale (USAID), ecc., subordinandoli a tali organizzazioni e compromettendoli con una sempre più crescente violenza.
Nel 2004, Srdja Popovic e Slobodan Dinovic creavano in Serbia il Centro di Azione e Strategia Nonviolenta Applicata (Canvas), attraente e produttivo ente finanziato dal governo degli USA. Grazie al sostegno economico di Istituto Nordamericano per la Pace, Centro Internazionale per il Conflitto Nonviolento (CCDI) e Freedom House, paladini del movimento sociale Otpor, pubblicarono il libro ‘Lotta nonviolenta: 50 punti cruciali’ divenuta la “Bibbia” dei movimenti sediziosi e terroristici nei Paesi arabi ed in America Latina, tanto quanto i manuali di Gene Sharp, Bob Helvey ed Ackerman. Srdja Popovic affermava nel documentario ‘Come iniziare una rivoluzione’: “Quando Bob Helvey ci ha insegnato la politica dell’azione nonviolenta di Gene Sharp rimasi meravigliato… abbiamo imparato come si distruggono i pilastri che sostengono un governo“. I viaggi dei “leader” giovanili venezuelani, dal 2004, negli USA, Serbia e Polonia, furono utilizzati per l’istruirli nelle tattiche da guerra non convenzionale e l’esperienza acquisita dai precettori negli scontri con i governi scomodi al Nord America, gli fu trasmessa in quei viaggi, che inoltre servirono a selezionare gli elementi migliori e farli ascendere nei piani sovversivi.
L’Open Society di George Soros, miliardario ungherese, l’organizzazione che gestisce milioni di dollari e finanzia centinaia di ONG che promuovono la “lotta non violenta”, è il ‘terzo indipendente’ più efficace nel promuovere e difendere il potere globale dell’impero dietro la facciata della difesa delle cause “giuste”, della filantropia accademica e persino della protezione degli emigranti. Tale mega”società” è responsabile della morte e del caos in molte parti del mondo, e il suo ruolo nell’attuale “rivoluzione” non è trascurabile; la sua lista è lunga e la sua mano “generosa” arriva oggi a Managua per sostenere le azioni destabilizzanti contro il Governo sandinista. Tale entità ha aiutato ad organizzare i giovani bielorussi del movimento Zubr, l’Open Society Institute (OSI) si è anche occupato di formare i militanti di Kmara in Georgia, gli “studenti” di Kiev; e la lista è lunga I terroristi venezuelani e nicaraguensi non hanno copiato l’organizzazione e le attrezzature militari della Majdan ucraina. Chi li ha promossi, finanziati e diretti sono gli stessi che, da anni, cercano di sconfiggere la Rivoluzione Bolivariana e, naturalmente, hanno gli stessi maestri. Da qui l’uso di cecchini, cappucci per nascondere il volto, giubbotti antiproiettile, caschi con videocamere incorporate per trasmettere dal vivo le azioni terroristiche, visori, maschere antigas, bazooka, mortai ed esplosivi artigianali, zaini e borse in cui trasportare bottiglie molotov, fionde, mazze, sbarre di ferro, scudi di latta. E quel che è peggio, dirigere le proteste, escalation delle violenze, uso di mercenari e paramilitari, reclutamento di minori per attaccare le forze di sicurezza, utilizzo di simboli come la croce delle crociate o dei cavalieri templari, crudeltà contro gli avversari.
Le immagini dicono tutto e di più, sono gli stessi aggressori. Se osserviamo le foto scattate nei tre luoghi: Kiev, Caracas e Managua, troveremo non poche coincidenze. Uno degli elementi più spaventosi di tali azioni è senza dubbio la pratica di bruciare vive persone inermi per seminare il terrore. Le torce umane si sono ripetute in Ucraina, Venezuela e Nicaragua. Alcune domande s’impongono: chi sarà la prossima vittima? in quale altro luogo vedremo agire gli attivisti della “nonviolenza”? Quanti morti costerà il piano di restaurazione del potere di destra al servizio dell’impero nella nostra Patria Grande?
Come ripetono costantemente gli ideologi di Maidan, i George Soros e Gene Sharp, i ragazzi “internazionalisti” di Otpor; l’obiettivo è che non resti null’altro che caos.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Daniele
Thursday, 22 October 2020 16:50
La CIA e la guerra al socialismo

di Raúl Antonio Capote

Dopo la Seconda guerra mondiale con la creazione del fronte ideologico per dominare il mondo, Allen W. Dulles, direttore della CIA dal 1953 al 1961, concepì la cultura come palcoscenico della guerra a lungo termine nel devastato dopoguerra nel Continente. Dopo la Seconda guerra mondiale con la creazione del fronte ideologico per dominare il mondo, Allen W. Dulles, direttore della CIA dal 1953 al 1961, concepì la cultura come la scena di una guerra a lungo termine nel Continente distrutto del dopoguerra. Standardizzazione e diffusione della cultura e stile di vita statunitensi in Europa e minare la simpatia per gli ideali socialisti erano i primi compiti della CIA. Costruire il consenso sui vantaggi del “sogno americano” in Europa e sconfiggere le idee del socialismo erano la priorità dei servizi speciali nordamericani. “Dobbiamo garantire”, disse James Jesus Angleton, capo del controspionaggio della CIA dal 1954 al 1975, “che la maggior parte dei giovani in Europa, dagli Stati Uniti e altrove, possa approfittare del sogno americano”. Questo sogno era cucine, auto, grattacieli, scatolame, musica pop, Topolino, calze di nylon, sigarette, lavatrici, supermercati, Coca-Cola, whisky, giacche di pelle e cosmetici statunitensi. Lo stile di vita statunitense sedusse rapidamente gli europei, basandosi sul consumo individuale di beni (automobili, telefoni, elettrodomestici), spinto dalla pubblicità e sostenuto da facili vendite con credito e rate. L’intrattenimento di massa, l’interesse per la moda, le nuove tendenze musicali (jazz, charleston, blues) divennero oggetti di consumo e alimentarono un’intera industria che fino ad allora non era significativa. L’opulenta America fu venduta al mondo come paradigma delle libertà, possibilità di arricchimento e benessere. I valori promossi furono quelli del successo, dell’imprenditorialità e dello sforzo individuale. Gli Stati Uniti furono proiettati dai mass media (cinema, pubblicità, ecc.) come la Mecca dei sogni per chi ci andava in cerca di fortuna.
Funzionamento ideologico della società
Il Congresso per la libertà di cultura (CLC) fu lo strumento centrale dell’operazione ideologica della CIA. Il Congresso fu istituito come organizzazione a Parigi col supporto dei servizi d’intelligence francesi e inglesi. Il CLC aveva uffici in 35 Paesi e personale permanente, gestiva un proprio notiziario, organizzava eventi internazionali e conferenze di alto livello con la partecipazione di prestigiosi intellettuali. La prospettiva del successo oscurò ogni altra considerazione. La vanità che ogni creatore portava con sé fu abilmente sfruttata dagli esperti della CIA. Molte delle menti più brillanti del Vecchio Mondo erano al servizio degli Stati Uniti. La crociata culturale fu finanziata principalmente con fondi segreti del piano Marshall; il denaro fluiva. I migliori musei di Stati Uniti ed Europa, le principali case editrici, le orchestre sinfoniche, le riviste, gli studi cinematografici e televisivi, le stazioni radio dell’occidente furono mobilitati nella crociata. La CIA fu un grande Ministero della Cultura, con l’intera industria culturale occidentale al suo servizio. L’Agenzia ingannò e usò l’intellighenzia europea per più di due decenni. Alcuni con piena consapevolezza, altri attratti dalle enormi possibilità offerte dal CLC; alcuni per allineamento ideologico e molti confusi dalla retorica libertaria di sponsor e portavoce. Furono realizzate le versioni cinematografiche dei libri di George Orwell e riprodotto Ritorno dall’URSS: Zero e Infinito, di André Gide, e Il Libro bianco della Rivoluzione ungherese, di Melvin Lasky, tra molti altri. La CIA applicò il principio dell’influenza diretta, principalmente nei settori culturali nordamericani, per coinvolgerli nei piani e propaganda anticomunisti, stimolando la disillusione nei confronti della politica culturale in campo socialista, sfruttandone al massimo errori e deviazioni. A tal fine fondarono e promossero reti di istituzioni per schermare le loro operazioni, sostennero congressi internazionali, crearono premi e concorsi letterari e finanziarono e comprarono giornalisti, media ed intellettuali, anche alcuni che non ne erano consapevoli. A differenza dello spionaggio, in cui l’attore è consapevole per chi lavora, nella guerra culturale un intellettuale, un artista, può riflettere nelle sue opere opinioni d’impatto sociale favorevoli ad interessi politici, senza sapere che è l’obiettivo di diverse forme d’influenza. Sull’artista si lavora sui valori e punti deboli, studiandone le caratteristiche psicologiche per poterlo manipolare adeguatamente per un certo scopo. Questa strategia fu perfezionata da team multidisciplinari che coprivano tutte le discipline artistiche: cinema, musica, arti visive, danza, letteratura, teatro, ecc. L’esperimento fu esteso nel tempo.
Quando la CIA aveva bisogno di un certo autore o artista, coscientemente o incoscientemente al suo servizio, l’intero grande apparato creato per la crociata culturale si attivava. Se era un libro, veniva pubblicato da una grande casa editrice e immediatamente promosso su grande scala. Per altri artisti, o per chi era dietro al successo, il segnale era chiaro: imitare il vincitore era la chiave, e questa strategia, in effetti, passò fortemente nell’URSS e nel campo socialista. Un ovvio esempio fu il Premio Nobel per la letteratura assegnato ad Alexander Isaevich Solzhenitsyn, al di là del merito letterario, fu per la critica al sistema ed altri fattori extraletterari che attrassero l’attenzione di occidente e CIA motivando la deliberata promozione dell’autore. Scrivere come Solzhenitsyn divenne modo sicuro per il successo. Il meccanismo funzionò anche nella direzione opposta: il silenzio attendeva chi “sbagliava”, i critici “intransigenti” del capitalismo.
Lotta culturale contro il Socialismo
Una delle prime serie televisive create con obiettivo da guerra culturale diretta fu Musica negli anni Venti, secondo la CIA questa serie doveva essere l’epitome del sogno americano per diminuire i sentimenti anti-americani degli anni ’60 e ’70 in Europa. La serie di Dallas, negli anni ’80, è un altro esempio. Nell’articolo intitolato Come Dallas vinse la guerra fredda di Nick Gillespie e Matt Welch della rivista Razón, gli autori affermano: “Era la caricatura alcol-es-sesso della libera impresa e dello stile di vita che si rivelò irresistibile non solo per gli statunitensi stanchi di stagflazione, ma per gli spettatori dalla Francia all’Unione Sovietica alla Romania di Ceausescu… .Dallas non era semplicemente uno show televisivo. Era una forza culturale che alterava l’atmosfera… contribuì a definire gli anni ’80 come glorioso “decennio di avidità”, inaugurando un’epoca in cui il capitalismo divenne fico, anche se appesantito da molteplici dubbi morali”. Il programma è stato presentato in anteprima il 2 aprile 1978 come miniserie su CBS. I produttori inizialmente non avevano piani di espansione, tuttavia, data la popolarità, lo spettacolo divenne in seguito una serie regolare che durò 14 stagioni, dal 23 settembre 1978 al 3 maggio 1991. La popolarità della miniserie iniziale in Paesi come Polonia, DDR e Cecoslovacchia aveva molto a che fare coll’aumento del budget per i registi. La CIA incanalò milioni di dollari per finanziare Dallas. La guerra culturale non lasciò lacune: durante l’inaugurazione a Mosca dell’American National Exhibition del 24 luglio 1959, presieduta da Nikita Khrushjov e Richard Nixon, si svolse un dibattito sulle presunte virtù del capitalismo e la sua presunta superiorità. Il cosiddetto dibattito in cucina si svolse nel bel mezzo di una cucina di una casa prefabbricata costruita appositamente per l’occasione dalle All State Properties per presentare ai sovietici “la casa che ogni statunitense può avere”. Nella cucina ideale, una modella bionda, snella e sorridente diligentemente lavorava per gli osservatori, manovrando abilmente tutte le apparecchiature elettroniche di ultima generazione. L’impatto di tale messa in scena fu devastante.
La radio svolse un ruolo importante nella lotta culturale contro il socialismo dell’Europa orientale. Radio Liberty trasmetteva dalla spiaggia di Pals, Girona, in Catalogna, verso Unione Sovietica e altri Paesi del blocco socialista. La prima trasmissione ebbe luogo il 23 marzo 1959, col nome Radio Free Europe/Radio Liberty del Comitato americano per la liberazione dei popoli della Russia. Per molti anni e fino alla chiusura fu la stazione radio più potente del mondo. Stazioni simili erano di stanza in tutto il mondo. In Portogallo ce n’erano due, in Germania tre e altre in Grecia, Marocco e altrove. Tutti erano a onda corta e dirigevano le trasmissioni verso l’URSS. Alcuna aveva la potenza della prima, ma avevano obiettivi simili. Nella battaglia simbolica tra i due sistemi che caratterizzò gli anni ’60, ’70 e ’80, una visione idealizzata della vita culturale del capitalismo plasmò l’immaginazione di molti, specialmente dei giovani.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Don
Monday, 21 September 2020 20:01
Attribuire a Trotsky e ai trotskisti le guerre umanitarie dell'imperialismo USA è una tesi talmente demente da disarmare (lo confesso) ogni possibile risposta. Chiunque può documentare la lotta dei trotskisti americani e di tutto il mondo contro la guerra del Vietnam, contro la guerra in Iraq, e contro tutte le politiche criminali dell'imperialismo USA, e dell'imperialismo in genere.
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Luciano Pietropaolo
Sunday, 20 September 2020 21:32
Nella galassia internazionale del trotzkismo dedito alla totale stroncatura dell'esperienza sovietica, possiamo segnalare la figura di un ex comunista italiano, Bruno Rizzi, che sul finire degli anni trenta elaborò una teoria a suo modo organica sulla "burocratizzazione del mondo" accomunando addirittura la pianificazione sovietica, il new deal roosveltiano e il dirigismo economico nazista come fattori decisivi per il tramonto della vecchia classe proprietaria e dell'avvento della nuova classe manageriale. Queste idee presero piede nell'ambito dei seguaci americani di Trotsky e presto il concetto di "nuova classe" tecno burocratica che in Urss esercitava il potere sulla classe operaia in modo più oppressivo della vecchia borghesia cominciò a diffondersi nella sinistra "eretica". Questa teoria in effetti trovò conferma, ma molti anni dopo,quando a seguito del disarmo ideologico avvenuto dopo Stalin, negli anni 80 i "manager" vennero allo scoperto e in barba alle previsioni di Rizzi, addirittura decisero di diventare "azionisti", facendo compiere alla Storia un passo indietro di un secolo.
Quanto all'oggi, bisognerebbe da un lato far notare ai trotzkisti in buona fede che dopo l'implosione del campo socialista e la scomparsa dei partiti comunisti ad esso collegati (che comprimevano la loro predicazione) immense praterie si sono aperte ai loro pascoli, ma senza alcun risultato di crescita e di influenza politica da parte loro. Ci sarà una ragione?
D'altro lato i comunisti dovrebbero sviscerare quegli "errori spesso pesanti e a volte tragici compiuti carsicamente dai dirigenti dei partiti comunisti al potere dopo il 1917", cosa in parte già fatta ma che meriterebbe una migliore puntualizzazione e comprensione, per evitare di ripeterli.
A proposito di trotzkismo e dintorni, apprendo ora che è passata a miglior vita colei che nel 2011 sollecitava la costituzione di brigate internazionali che come in Spagna accorsero ad aiutare la Repubblica, cosí in Libia avrebbero dovuto sostenere i "rivoluzionari" di Bengasi contro il dittatore Gheddafi. Parafrasando Carlo Rosselli, "ieri in Spagna, oggi in Libia!".
E fu pure accontentata, dai piloti di cinque paesi della nato!
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Napol
Sunday, 20 September 2020 17:16
Quindi io, che sono sono sempre stato un comunista trotzkista, sarei stato finanziato dalla CIA ? Ma magari ! Perchè il mio portafoglio non se ne è mai accorto ?
E anche tutti i mie amici e compagni trotzkisti, a partire da mio fratello, tutti pagati dalla CIA ?! E lo vengo a sapere così!
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