Print Friendly, PDF & Email

Coordinamenta2

“Donne di repressione”

di Elisabetta Teghil

“Ogni donna, del percorso della sua crescita, porta dentro di sé uno o più marchi indelebili di illibertà. Sono segni del potere, iniziazioni a quel maschile e al suo rispetto, sono seduzioni dell’alterità vincente che ci hanno fatto sentire vive dentro gli stereotipi di questa cultura e ce li hanno fatti assumere come nostri, dentro e fuori di noi: il risultato è una complicità con e per ciò che è “vincente”.” Daniela Pellegrini.[1]

donne di repressione 1L’8 marzo del 2019 il Consiglio superiore della Magistratura ha pubblicato i dati che ufficializzavano il così detto sorpasso rosa: su 9401 magistrati ordinari, 5103 erano donne, cioè il 53% del totale. E se guardiamo ai giovani magistrati in tirocinio, il dato è ancora più netto, perché la percentuale di donne è del 66%, 231 su un totale di 351.

In Italia poi fra i direttori di carcere, e usiamo volutamente il maschile sottraendoci all’ uso politicamente corretto di un femminile che costituisce un artificio e suona come un coccio rotto, le donne sono il 60%. Sei su dieci. Moltissime poi sono nei corpi di polizia e di controllo in senso lato.

Qualche giorno fa la portavoce del Movimento No Tav, Dana Lauriola, è stata arrestata all’alba e trasferita al carcere delle Vallette a Torino. Dana deve scontare una condanna definitiva a due anni per una protesta NoTav del 2012  in cui fu occupata l’area del casello autostradale di Avigliana facendo passare gli automobilisti senza pagare il pedaggio. Il legale di Dana aveva chiesto l’applicazione delle misure alternative che vengono normalmente concesse in questi casi, applicazione che è stata respinta tanto che l’avvocato difensore ha dichiarato che in trent’anni di professione non gli era mai capitato un caso analogo. La paradossale sentenza è stata emessa dal Tribunale di sorveglianza di Torino nella persona del giudice Elena Bonu.

Il giudice è una donna.

Il movimento NoTav ha già fatto esperienze di questo tipo. Nella vicenda di Maya, tanto per citare un altro caso, uno dei tanti. Maya, compagna No Tav, nel 2017 aveva denunciato le violenze e gli insulti subiti da parte della polizia di Torino e venne interrogata sia come parte lesa, perché aveva sporto denuncia, ma anche come indagata, non si sa bene di cosa.

Anche in questo caso, il pubblico ministero era una donna, Emanuela Pedrotta, nota per l’ “attenzione” al movimento No Tav e ai militanti torinesi.

O il caso di Marta, compagna pisana che durante una manifestazione notturna al cantiere di Chiomonte venne fermata dalla polizia dopo una violenta carica nel luglio 2013 e denunciò in una conferenza stampa di essere stata pestata, insultata e molestata sessualmente,  ripetutamente insultata, anche da un’agente donna, con gravi epiteti di carattere sessista. Come se non bastasse fu lei ad essere denunciata. Alla prima udienza del processo, le compagne che esposero uno striscione di solidarietà furono caricate, denunciate e accusate di ogni sorta di reato e condannate a 8 mesi. La pm era una donna come tutto il collegio giudicante.

Questo solo per citare alcuni casi che riguardano il Movimento NoTav dato che il posizionamento nei riguardi di questa lotta è una cartina di tornasole.

Queste donne di repressione fanno parte del vasto arcipelago delle Patriarche

[…] Le Patriarche realizzano in questo modo una forma moderna di endogamia e di innalzamento del loro status, e per far questo di fatto devono denigrare tutte le altre presentandole come retrograde o radicali o settarie o estremiste….Come nella stagione in cui le multinazionali distruggono l’ambiente e vengono create le oasi, così nella stagione neoliberista in cui la condizione delle donne è sempre più disperata, viene enfatizzata l’attenzione all’oppressione di genere per ridurla ad una questione di area protetta e le Patriarche si offrono come direttore, guide, rangers e mettono in preventivo l’abbattimento dei capi problematici o in sovrannumero.

Una nuova griglia, oggi, ricostruisce la dimensione simbolica, politica, sociale del patriarcato, nascosta dietro l’attenzione alle donne. E’ in questo contesto che nascono le Patriarche, nuova classe dirigente, che condanna all’odio e al silenzio chi non si intruppa, mentre si estende sempre di più la fascia delle donne intimidite, impoverite, disoccupate, emarginate.

Le Patriarche vogliono instaurare una pace sociale propizia al capitale, al patriarcato e, per far questo, devono fare leva su un’informazione e una comunicazione manipolata e le vecchie e nuove oppressioni vogliono farle passare attraverso la retorica di una libertà di scelta che ricorda la libertà di scelta del consumatore. Il piatto è unico, ma si può scegliere il condimento[…][2]

Ma le donne di repressione hanno delle caratteristiche precipue che le rendono particolarmente rabbrividenti: condannano, puniscono, reprimono.

La lotta femminista, oggi come non mai, deve fare chiarezza sul ruolo delle donne che si sono messe al servizio del potere, che usano e hanno usato l’emancipazionismo per la promozione personale e hanno fatto propri i valori neoliberisti. L’oppressione sulle donne è trasversale ma nessuna lotta femminista può essere interclassista. Nessuna lotta femminista che voglia avere un minimo di credibilità può prescindere dalla denuncia del ruolo delle patriarche.

Alcune compagne femministe tempo fa hanno detto che, sì, è vero, è questa la realtà, ma sono restie nel portarla alla luce per il timore di rompere il fronte delle donne. Il conflitto invece deve essere portato alla luce, non può essere taciuto. E’ attraverso il conflitto che si può sperare nella presa di coscienza

 “La nostra resistenza contro l’uso che viene fatto di noi (resistenza che cresce quando l’analizziamo) rende la nostra esistenza omogenea […] Questo conflitto tra il soggetto (l’esperienza cioè delle sue pratiche)  e l’oggetto (l’appropriazione che ci frammenta) produce la nostra coscienza,. Oggi questa coscienza è ancora spesso individuale, è quella dell’esperienza particolare…e non è ancora la nostra coscienza di classe. In altri termini, è la coscienza di noi stesse come individue ma non ancora il sapere che la relazione in cui siamo definite è una relazione sociale e che non è un caso sfortunato o una cattiva sorte personale ad aver messo la nostra persona in questo invivibile dilemma…Sarebbe ora che ci conoscessimo per quello che siamo: frammentate sul piano ideologico perché utilizzate per usi concreti separati.[…][3]

questo ci dice Colette Guillaumin parlando del dominio che ci separa da noi stesse.

D’altra parte la criminalizzazione del conflitto è un motivo dominante della costruzione della socialità neoliberista, costruzione che propaganda la convivenza civile, la democraticità del confronto, la gestione della conflittualità e che sdogana quindi solo la legge del più forte. L’unica violenza legittima è quella del sistema.

Le donne dovrebbero inorridire al solo pensiero di far parte degli apparati di repressione e controllo. Sono state oppresse dagli ordini costituiti, dalle leggi, dai tutori della norma legale e sociale, sono state oggetto di stigma e punizioni, sono state bruciate sui roghi o internate come pazze e adesso diventano controllore di se stesse e degli oppressi tutti?

Questa mancanza di presa di coscienza di cosa sia l’oppressione patriarcale costituisce un vero e proprio supporto al sistema

Viene la pelle d’oca, come viene la pelle d’oca quando vediamo un magistrato/a o un poliziotto/a … nero/a. Neri da cortile e donne da cortile, parafrasando Malcom X.

Così un ministro dell’Interno donna, Luciana Lamorgese, vara con il ministro di giustizia, i nuovi decreti sicurezza che riguardo  al controllo sociale nelle più svariate accezioni, alla repressione delle lotte, all’asservimento della popolazione impostano una forte accelerazione ad una normativa che già di per sé era fortemente liberticida.

Viene ribadito tutto l’impianto  di criminalizzazione di chi porta la protesta nelle piazze e nelle strade, non cambiano le pene spropositate per “blocco stradale”, come non cambiano quelle che Salvini aveva inasprito nei confronti di chi porta in piazza strumenti difensivi, come caschi e scudi, o nei confronti di chi utilizza nelle manifestazioni materiale pirotecnico e coreografico anche se non viene usato come strumento d’offesa, cambia in peggio l’utilizzo del Daspo e viene introdotta la possibilità per i questori di disporre il Daspo dai locali pubblici per chiunque sia stato denunciato o condannato per atti di violenza all’esterno di un locale. Viene accentuata la criminalizzazione di chi si incontra a fare serata nelle strade e nelle piazze, come se questo fosse il peggiore di tutti i mali.

Vengono inasprite le pene per chi partecipa a una rissa, multa da 309 a 2.000 euro e la reclusione, se qualcuno resta ferito o ucciso, da sei mesi a sei anni. Per chi non rispetta il Daspo comminato è prevista la reclusione fino a due anni e una multa fino a 20.000 euro. Daspo anche per lo spaccio di sostanze stupefacenti e istituzione di un elenco di siti internet utilizzati per la diffusione delle suddette sostanze che i gestori delle reti dovranno proibire ai propri utenti. Va da sé che un’impostazione di questo tipo si presta a qualsiasi tipo di abuso, sopruso, minaccia e ricatto da parte del così detto ordine costituito.

Il ministro Lamorgese si è dimenticata delle denunce, delle delazioni, dei soprusi, delle torture, dei ricatti, della paura che hanno sempre accompagnato la vita delle donne? Il timore dello stigma, della condanna sociale, dell’essere fuori dalla norma? Non sente odore di legna bruciata?

[…] I meccanismi stessi della persecuzione confermano che la caccia alle streghe non fu” un movimento spontaneo da parte dei contadini che le classi dominanti e amministrative furono costrette ad assecondare” ma fu fomentata direttamente dalle classi dominanti, Come Christina Larner ha dimostrato nel caso della Scozia, una caccia alle streghe comportava l’arresto e il rastrellamento di varie persone e richiedeva quindi un’organizzazione e un’amministrazione ufficiale. Prima che una persona denunciasse il proprio vicino o che intere comunità fossero colte dal “panico”, era necessario un indottrinamento capillare. Anzitutto le autorità manifestavano pubblicamente una grande preoccupazione per il diffondersi della stregoneria e si muovevano di villaggio in villaggio per insegnare alla gente come riconoscere una strega, in alcuni casi portando con sé le liste dei nomi delle streghe sospette, minacciando di punire chi le aiutasse e le nascondesse.[…]La caccia alle streghe fu anche la prima persecuzione in Europa in cui si fece uso  di una propaganda multimediale per generare una psicosi di massa tra la popolazione.[…][4]

A conferma che il neoliberismo, la fase matura e attuale del capitalismo, ha costruito una società di persecuzione, paura, controllo, stigma, delazione, manipolazione per piegare le popolazioni ad un cambiamento epocale nel rapporto con il potere. Gli oppressi/e devono volontariamente assoggettarsi allo sfruttamento di ogni più recondito aspetto della loro vita privato e pubblico.

Il patriarcato ci racconta che le donne sono istintive e uterine e le loro scelte di conseguenza sono senza logica oppure sono fatte per amore. Oppure in altre occasioni, a seconda dell’utilità, ci racconta che sono condizionate da padri, mariti, fratelli, figli, non sono autonome, non sono capaci di decidere da sole. Noi rigettiamo con forza questa lettura, sappiamo che le donne sanno benissimo decidere da sole, possono decidere percorsi di liberazione oppure di asservimento oppure di repressione delle altre donne e degli oppressi tutti. Sanno benissimo scegliere dove collocarsi e da che parte stare.

Il patriarcato è diventato più forte anche perché il movimento femminista non è stato in grado di smascherare e di opporsi alla svendita dell’emancipazionismo al potere. Per questo dimenticarsi che la lotta di genere è inestricabilmente legata alla lotta di classe non solo è nocivo per la liberazione di noi tutte, ma è una precisa scelta di campo.

N.B. apprendiamo ora che a Dana Lauriola sono stati inflitti altri 10 giorni di carcere per oltraggio a pubblico ufficiale perché durante il sit in di fronte al tribunale in sostegno di Marta, per la vicenda che abbiamo raccontato, avrebbe insultato al microfono i poliziotti che stavano caricando. Il giudice Maria Cristina Tognoni ha emesso la condanna in primo grado.


Note
[1] D.Pellegrini, La materia sapiente del relativo plurale ovvero il luogo terzo delle parzialità, Vanda edizioni,2017 p.24
[2] E.Teghil, Femminismo materialista, Appunti e riflessioni, Bordeaux edizioni, 2015, pp.178-179
[3] C.Guillaumin, Sesso, razza e pratica del potere. L’idea di natura, ombre corte,2020 pp.121-122
[4] S.Federici, Calibano e la strega-le donne, il corpo e l’accumulazione originaria- Mimesis Edizioni, 2015 pp.214-215

Add comment

Submit