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sinistra

Tra delegittimazione e ristrutturazione

Una nuova tappa della crisi dello Stato borghese e della società italiana

di Eros Barone

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La recente tornata delle elezioni amministrative segna, per tutte le aree politiche, un vero e proprio salto di qualità nella crisi organica che attanaglia da tempo lo Stato borghese e la stessa società italiana. Così è, a tutti gli effetti, e i risultati elettorali, per chi abbia seguìto le tappe successive di tale crisi, solo in apparenza sono sorprendenti.

Con il dato dei votanti alle Comunali che si attesta al 54,69% questo primo turno delle amministrative costituisce un record per la bassa partecipazione al voto: in pratica un elettore su due non si è recato alle urne. Dal 2010 ad oggi la minore affluenza si era registrata in precedenza solo nel 2017 con il 60,07%, mentre nella tornata di cinque anni fa aveva votato il 61,52% degli aventi diritto e lo scorso anno l'affluenza era stata del 65,62%. Il crollo della partecipazione è spettacolare soprattutto nelle grandi città italiane. Nella capitale la partecipazione dei cittadini al voto è stata del 48, 83, laddove cinque anni fa l'affluenza era stata del 57,03%. Parimenti, è in calo l'affluenza alle elezioni comunali di Milano, dove meno di un elettore su due è andato alle urne, un dato mai verificatosi in città: alla chiusura dei seggi ha votato infatti il 47,6% contro il 54,6% del 2016 quando si votò in un solo giorno. Così pure a Napoli, dove le elezioni fanno segnare un tracollo dell’affluenza alle urne, che si attesta sul 47,19% degli aventi diritto, nel mentre, cinque anni fa, al primo turno aveva partecipato al voto il 54,12% degli elettori. Anche a Torino l’affluenza è rimasta abbondantemente sotto il 50%, facendo così registrare il peggior risultato della storia nel capoluogo piemontese. Un’affluenza del 51,87% segna il dato più basso nella storia delle elezioni comunali di Bologna. Basti pensare che nelle elezioni di cinque anni fa votò il 59,66% degli aventi diritto al primo turno e il 53,17% al ballottaggio. Infine, è risultata del 35,93 l'affluenza alle elezioni suppletive per un collegio parlamentare della Toscana.

 

2. Due facce della stessa medaglia

La delegittimazione di massa della rappresentanza politica e la ristrutturazione in senso autoritario dello Stato borghese sono due facce della stessa medaglia: due facce della crisi della formazione socio-economica italiana che vanno continuamente osservate, organicamente inserite nel contesto internazionale e congiuntamente analizzate, poiché costituiscono il problema fondamentale che il movimento comunista è chiamato oggi a risolvere. Così, se per un verso l’astensione testimonia il distacco o, più realisticamente, la nausea della maggioranza delle masse nei confronti di quelle maleodoranti stalle di Augìa, che costituiscono, ai vari livelli, il parlamentarismo imperialista, per un altro verso va posta a tema la modificazione che, nella fase attuale dell’imperialismo, è maturata nel sistema della rappresentanza politica.

E però osservare unicamente la crescente distanza tra le masse e le istituzioni politiche potrebbe indurre a sopravvalutare il fenomeno in misura tale da spingere ad ipotizzare persino il delinearsi di una situazione preinsurrezionale, mentre cogliere unicamente l’aspetto della ridefinizione dei modelli del potere capitalistico significherebbe ignorare l’esperienza che le masse, spontaneamente, hanno fatto e, in conseguenza di ciò, le indicazione che una soggettività politica all’altezza dei tempi e della congiuntura deve ricavarne per orientare una prassi cosciente. Si tratta allora di cogliere la dialettica circolare che è propria del fenomeno, senza limitare lo sguardo ad una sola delle due facce.

Fondamentale è quindi la comprensione della causa che ha determinato l’astensione, di cui questa tornata elettorale ha mostrato una dimensione così vistosa. Una dimensione che sta costringendo sia il ceto politico che quello giornalistico, a differenza di altre elezioni in cui il fenomeno era stato ignorato o minimizzato, ad interrogarsi, con una certa ansia ed una crescente preoccupazione, su quale sia, per l’appunto, la causa di un’astensione così imponente da restringere a tal punto la base sociale della rappresentatività delle future amministrazioni. Orbene, mi sembra difficile negare che tale causa si identifichi con il passaggio, avvenuto dopo il 1989, dal regime socialdemocratico dei partiti di massa, partiti ‘pesanti’, al regime liberaldemocratico dei partiti di opinione, partiti ‘leggeri’. Tralasciando in questa sede la disàmina dei molteplici aspetti ed elementi che un simile passaggio comporta, è possibile individuare la causa, che ora ci interessa, nel mutamento radicale delle relazioni industriali costruite dal movimento operaio nel corso del Novecento e in particolare nel secondo dopoguerra.

La conseguenza, fortemente avvertibile in un Paese come l’Italia, che di quelle relazioni aveva rappresentato un esempio paradigmatico, è stata allora il venir meno di quel contropotere proletario, rappresentato in qualche misura dalle organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio, la cui presenza obbligava le classi dominanti a non prescindere dagli umori delle masse e ad agire al fine di impedirne i sempre possibili esiti rivoluzionari. I frutti di quello che è stato definito il “compromesso keynesiano” furono indubbiamente significativi: basti pensare alla costituzionalizzazione del lavoro operaio e alla concessione di un numero non irrilevante di diritti sociali.

D’altra parte, è evidente che il sistema dei partiti di massa traeva la sua legittimazione politica dal sostegno di settori importanti delle masse subalterne, le quali a loro volta ottenevano le conseguenti garanzie di ordine economico e sociale. Questo sistema di carattere neocorporativo non esiste più, in quanto la sempre più aspra competizione interimperialista sul mercato mondiale, quindi il vincolo esterno, i corrispettivi flussi migratori e l’assottigliamento dei privilegi dell’aristocrazia operaia, classica ‘frazione-cuscinetto’ tra il proletariato e la borghesia, stanno togliendo al capitalismo italiano le basi e i margini della intermediazione sociale e, nel contempo, accorciano i tempi di una grande rottura sociale. Ma che cosa spinge in questa direzione? Per capire quali siano i fattori che spingono verso questo esito occorre scendere dal cielo della politica sulla terra dei rapporti sociali di produzione.

 

3. La sovrastruttura dipende dalla base

La fine dei partiti di massa è strettamente connessa alla obsolescenza di una determinata organizzazione del lavoro e, insieme con questa, di un modello di rappresentanza politica che estendeva la sua intermediazione a gran parte dei settori sociali. Sennonché il mutamento di quella organizzazione del lavoro e del sistema di relazioni industriali costruito su di essa conduce inevitabilmente al crollo dell’intero sistema politico che di esse costituiva, nel contempo, il prodotto e la garanzia. L’organizzazione attuale del lavoro ha modificato, per usare una categorizzazione marxiana, il rapporto tra cooperazione, associazione e sussunzione, laddove la schiacciante prevalenza di quest’ultima – la sussunzione reale al capitale – ha spazzato via quel patrimonio di certezze e di garanzie che le lotte operaie e popolari, con le loro relative conquiste, avevano creato. Oggi dobbiamo realisticamente riconoscere che non vi è più nulla di consolidato e di irrevocabile, tranne la dura legge dei rapporti di forza tra le classi. 2 Il quadro della lotta di classe è cambiato e ha ben pochi rapporti con la storia precedente. Per le masse, il sistema della rappresentanza politica che ha dettato a lungo, almeno in parte, i tempi della politica appare del tutto estraneo e lontano. Dal canto suo, il mondo della politica istituzionale polarizza la sua attenzione soltanto per quei blocchi sociali che sono direttamente legati agli interessi del capitalismo, dei suoi circoli e dei suoi circuiti. Nella loro pochezza e nel loro squallore, che è proprio di una classe servente (non dirigente), gli stessi uomini politici dei partiti borghesi confermano l’esistenza di questo legame di ferro con il profitto e con la rendita. Dunque la stessa democrazia imperialista ha cambiato pelle. La ‘governance’ è assicurata da un ristretto numero di consorterie collegate agli organismi politici, economici e militari sovrannazionali e protese a soddisfare gli appetiti e le volontà delle loro ristrette clientele. L’unico conflitto possibile in un simile contesto è dato allora dagli attriti momentanei che, volta per volta, sorgono tra le suddette clientele per la spartizione del plusvalore operaio. Si tratta, però, di attriti radenti, per usare il linguaggio della fisica, che non incidono in alcun modo sugli assetti strategici del blocco dominante, il quale, al contrario, sulle scelte di fondo manifesta una compattezza monolitica. Sicché il fatto che possa prodursi un momentaneo conflitto tra una frazione della borghesia e un’altra frazione è, in genere, del tutto inessenziale.

 

4. La democrazia imperialista: un ossimoro massonico

Si può definire come democrazia imperialista un regime formalmente democratico, che è però privo di sostanza vitale, in altri termini è un mero guscio vuoto. Espropriazione della sovranità nazionale e della sovranità popolare, concentrazione del potere verso l’alto in ristretti gruppi oligarchici, partecipazione sempre più limitata e flebile alla vita pubblica, astensionismo elettorale che coinvolge oltre la metà dei cittadini aventi diritto al voto, emarginazione e discredito delle strutture intermedie (partiti, sindacati, Regioni ecc.): questi alcuni tratti salienti della democrazia imperialista.

Sennonché è evidente che un regime di questo tipo provoca necessariamente una traslazione di poteri in vari luoghi, molti dei quali opachi, per non dire impenetrabili. La crescente diffusione e penetrazione della massoneria nei gangli vitali dello Stato e di altre istituzioni collaterali (tra cui la Chiesa) è allora causa ed effetto di quel fenomeno che viene rubricato correntemente, con un sintagma peraltro fuorviante, come ‘crisi della politica’ o anche ‘crisi della democrazia’.

Oggi la massoneria è una vera potenza, anche se è difficile, per definizione, valutare il peso effettivo di una organizzazione attraverso cui determinate frazioni della classe dominante, facendo leva su rapporti assai stretti con analoghe organizzazioni straniere, controlla, spesso in alleanza con forze clericali, alcune delle istituzioni culturali più prestigiose del nostro paese, diverse università tra le più importanti, interi settori degli apparati strategici dello Stato, nonché centri vitali dell’economia capitalistica pubblica e privata. È peraltro noto che esiste una distinzione fra la massoneria ‘buona’ e la massoneria ‘cattiva’ (si pensi alla loggia P2 di Licio Gelli e alle trame eversive che questa cricca borghese ha posto in essere, conseguendo, uno dopo l’altro, gli obiettivi prefissati nell’ossimorico “Piano di rinascita democratica” elaborato e puntualmente applicato dalla loggia P2).

Senza escludere che sono possibili conflitti tra l’una e l’altra componente della massoneria su questioni decisive, è tuttavia doveroso osservare che là dove non esistono né trasparenza degli atti e delle decisioni né visibilità degli associati è estremamente difficile individuare la linea di demarcazione tra l’una e l’altra massoneria. Soltanto l’obbligo generale, sancito per legge, di rendere pubblici gli elenchi degli iscritti consentirebbe di separare il grano dal loglio, ammesso e non concesso che, così come accade per la distinzione tra ‘denaro sporco’ e denaro ‘pulito’, sia possibile evocare un’analoga distinzione riguardo alla massoneria.

In realtà, la tendenza che si è affermata nei regimi borghesi del nostro tempo è strutturalmente di tipo massonico, poiché occulta, sia a livello interno che a livello internazionale, l’esistenza, le procedure e il ‘modus operandi’ del potere del grande capitale monopolistico sotto una cappa impenetrabile di segretezza, come accade, in modo sostanzialmente affine, con le istituzioni della Unione Europea e con centri di potere informali, quali il Gruppo Bilderberg e la potente banca d’affari Goldman Sachs (di cui faceva parte, come è noto, Romano Prodi). Tanto per dare una plastica idea della composizione di queste organizzazioni, basti pensare che ad una delle ultime riunioni del Gruppo Bilderberg hanno preso parte, in ordine alfabetico, il manager Franco Bernabè, il presidente di Fca John Elkann, la giornalista Lilli Gruber, l’ex commissario Ue ed ex premier Mario Monti e il numero uno di Techint, Gianfelice Rocca.

 

5. Il significato della tesi leniniana sulla questione parlamentare e l’attualità dell’astensionismo

È bene precisare che la tesi con cui Lenin risolve la questione del parlamentarismo e della partecipazione alle elezioni si basa essenzialmente sull’uso rivoluzionario della tribuna parlamentare nel quadro della combinazione del lavoro legale con quello illegale. In tal senso l’esperienza bolscevica dimostrava che il partito rivoluzionario aveva sfruttato bene questa possibilità, che il partito non era caduto nel “cretinismo parlamentare” e che la tattica parlamentare aveva permesso al partito di portare avanti (non di abbandonare o di ridurre) il lavoro di preparazione della rivoluzione socialista. Per questo motivo la tattica bolscevica, dice Lenin, non ha una validità soltanto “russa”, ma “universale”. La tesi di Lenin è importantissima e la sua mancata assimilazione è stata uno dei fattori della disgregazione e degenerazione del movimento comunista.

Ma perché è importantissima la tesi di Lenin? Forse perché dice che bisogna utilizzare da rivoluzionari la tribuna parlamentare? Una simile interpretazione, oltre che sbagliata, sarebbe puerile. In realtà, la tesi di Lenin è importantissima perché sostiene che l’attività di un partito rivoluzionario è una combinazione di lavoro legale e di lavoro illegale, e per queste ragioni e per questo fine ben preciso, e non tanto per un generico “fine socialista” invocato da ogni opportunista, la tribuna parlamentare deve essere utilizzata. La tribuna parlamentare rientra, infatti, nell’àmbito del lavoro legale, alla stessa stregua dei giornali, dei sindacati, delle cooperative, delle sezioni ecc.

Del resto, è ovvio che per il sistema capitalistico il piano strategico rivoluzionario sia illegale, in quanto va contro i suoi dispositivi di difesa e di conservazione. Da questo punto di vista, stabilire ciò che è legale e ciò che è illegale nella attività generale di un partito rivoluzionario è un problema che riguarda la borghesia e non il partito che si propone di rovesciare tutto l’ordinamento capitalistico. Pertanto un partito realmente rivoluzionario cercherà di utilizzare tutte le possibilità di lavoro legale che oggettivamente sono presenti in una determinata situazione (sindacati, giornali, sezioni, tribuna parlamentare ecc.) per poter continuare la sua propaganda ed accumulare forze per la rivoluzione socialista.

Se si riflette sulle esperienze degli ultimi cento anni di lotta di classe, si giunge inevitabilmente alla conclusione che, mentre il proletariato non ha assimilato la lezione bolscevica, il capitalismo ne ha fatto tesoro. In effetti, il capitalismo permette un lavoro legale oggi in certi paesi, perché la situazione generale è controrivoluzionaria. Ma laddove le sue crisi generano forme più intense di lotta di classe non esita a mettere in moto i suoi apparati repressivi e a sviluppare il processo di fascistizzazione, sia nella società che nelle istituzioni, al fine di annullare ogni possibilità di lavoro legale e di propaganda rivoluzionaria. Per questo il compito rivoluzionario che sta di fronte al movimento di classe e alle forze autenticamente comuniste è quello che consiste nel passare dall’astensione all’astensionismo. Per questo non ha senso strategico ed è uno spreco delle poche energie disponibili, cercare di utilizzare la tribuna parlamentare in paesi come l’Italia, in cui il partito rivoluzionario è ancora nella fase di preparazione dei quadri e l’attuale corso della lotta di classe riduce ai minimi termini gli spazi di iniziativa e di propaganda.


Note
1 “Il moto è più veloce verso la fine”: una frase latina che ben si attaglia alla descrizione di questa tappa del processo che scandisce la crisi organica. I dati sull’affluenza ed i confronti con le precedenti tornate elettorali sono stati desunti dall’Agenzia Ansa del 4 e del 5 ottobre.
2 Circa la portata epocale di questo mutamento è di straordinaria attualità quanto scrivono Marx ed Engels nel Manifesto del partito comunista: «Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la loro posizione e i reciproci rapporti» (Manifesto…, capitolo primo: “Borghesi e proletari”, Einaudi, Torino 1964, p. 104).

Comments

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claudio DV
Wednesday, 06 October 2021 15:23
Eros sulla nota 1 mi viene in mente: Seneca famossissimo: La fortuna è di crescita lenta, ma la rovina è rapida (Lucius Anneus Seneca, Lettere a Lucilio, 91–63) ripreso di recente dai sostenitori dei limiti della crescita (Ugo Bardi e C).
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claudio DV
Wednesday, 06 October 2021 15:22
sulla nota 1 mi viene in mente Seneca famossissimo: La fortuna è di crescita lenta, ma la rovina è rapida (Lucius Anneus Seneca, Lettere a Lucilio, 91–63) ripreso di recente dai sostenitori dei limiti della crescita (Ugo Bardi e C).
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carlo lucchesi
Monday, 11 October 2021 15:06
L'astensionismo alle elezioni amministrative, molto più alto di quello delle elezioni politiche, si spiega anche con l'accresciuta consapevolezza da un lato che i poteri decisionali a livello dei territori sono quasi irrilevanti, e dall'altro che gli schieramenti e i relativi programmi sono assai poco alternativi. In sostanza, mancando l'oggetto del contendere rispetto alle condizioni generali di vita e all'idea di società, vengono meno la voglia e l'interesse a partecipare. Comunque tutto rinvia all'uscita di scena del movimento dei lavoratori (anni '80-'90 del secolo scorso) con il naufragio della sua rappresentanza politica e con la crisi della sua rappresentanza sindacale, risultati entrambi della precarizzazione del lavoro, vero e grande obiettivo della ristrutturazione capitalistica. Penso che se non si parte da qui, da una lotta incisiva contro la precarizzazione e per la ricostruzione dell'unità del mondo del lavoro, obiettivo difficilissimo ma possibile, qualunque progetto antagonistico non avrà la forza per fare un solo passo in avanti
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