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La Russia, dall'Asia all'Europa (e ritorno?)

di Il Lato Cattivo

Introduzione a David B. Rjazanov, Karl Marx e le origini del predominio della Russia in Europa (1909)1

ilc875Dallo scorso 24 febbraio, ovvero dal giorno in cui le forze militari russe hanno varcato i confini settentrionali e orientali dell'Ucraina, la retorica dell'Occidente democratico in lotta per la difesa dei propri valori contro la Russia autocratica e perfino «imperialista» (!) è stata promossa al rango di verità ufficiale, di sola ed unica verità ammissibile nella sfera del discorso pubblico – soprattutto nell'Unione Europea. Tacere questo fatto equivarrebbe a sminuire la straordinaria pervasività della guerra psicologica nell'epoca dei social media, e la nostra stessa esposizione ad essa. Triste ma vero, la propaganda e l'infowar fanno presa anche sulle menti meno propense a farne le spese, e ciò non tanto per il loro carattere ubiquo e martellante: «Il segreto che non ha mai smesso di avvolgere tutto ciò che riguarda la guerra sembra essere una condizione intrinseca e necessaria della società attuale. “Ignoriamo ogni cosa della guerra”, questo significa, fra l'altro, che non abbiamo alcun potere su ciò che ignoriamo.» (Karl Korsch, Guerra e rivoluzione)2. Finché si persiste a considerarla come una faccenda di esclusiva competenza dei militari, ciò che in una certa misura avviene sempre fintanto che la società si riproduce normalmente, la guerra – vicina o lontana – ci coglie inevitabilmente di sorpresa (perché non seguiamo con sufficiente attenzione l'insieme dei focolai di tensione suscettibili di esplodere) e ci fa inciampare nelle false evidenze (perché non padroneggiamo gli indicatori che permettono di comprendere l'evoluzione dei conflitti sul campo). L'antimilitarismo di principio non aiuta, se si riduce a tapparsi occhi e orecchie di fronte al fatto militare, o nascondersi dietro a qualche slogan buono per tutte le stagioni. Lo scopo di quest'introduzione, comunque sia, non è di ristabilire il vero, o meglio il verosimile sulla guerra in corso in Ucraina – ciò che viene e continuerà ad esser fatto da altri3 – ma di abbozzare una riflessione più generale sulla traiettoria del capitalismo russo.

La retorica dell'Anti-Russia, talvolta anche a dispetto della crassa ignoranza dei suoi odierni diffusori, affonda le sue radici nella storia. Una storia che non è estranea, a dire il vero, a quella del movimento comunista, anzi alle sue origini stesse, ben prima che il pianeta – nel quadro delle ricadute dell'insorgenza di classe degli anni 1917-1921 – si dividesse fra «mondo libero» e blocco dell'Est. L'opposizione fra nazioni democratico-progressiste (Europa occidentale) e nazioni reazionarie (principalmente la Russia) fu teorizzata da Marx stesso e riprodotta, per quanto in forme più moderate, ben oltre la sua data di scadenza. A mo' di tragedia che si muta in farsa, l'europeismo attuale riporta nuovamente in auge quest'opposizione. Non si tratta di un'eccezione: molto, se non tutto, nelle vicende che da vicino o da lontano riguardano la guerra in Ucraina, rimette in circolo un passato, finanche remoto, superficialmente considerato – ancora ieri l'altro – come roba da museo. È la nemesi necessaria della Fine della Storia teorizzata all'inizio del ciclo storico di cui stiamo vivendo il tramonto. Questa non si riduceva a una mera trovata ideologica, ma corrispondeva a un certo vissuto, o meglio a una certa esperienza della storia, in una certa parte del globo, all'indomani della caduta del Muro. «La storia è sempre esistita, ma non sempre in forma storica.» (Guy Debord, La società dello spettacolo, § 125): un aforisma da riscrivere al presente. Quando un evento come la Grande guerra del Nord (1700-1721) non è più – né a Mosca né a Stoccolma – un lontano riverbero senza significato per il presente, e a Belgrado (ancora formalmente candidata all'ingresso nell'UE) sfilano cortei che inneggiano all'amicizia serbo- russa, vuol dire che la storia ha ripreso ad esistere pienamente nella sua forma storica.

Per non trovarci del tutto impreparati di fronte a questi nodi, siamo andati, come nostro solito, a spulciare gli archivi alla ricerca di qualche gioiello smarrito. Il testo di David Rjazanov, Le origini del predominio della Russia in Europa, che rendiamo qui disponibile, è di notevole interesse nell'ottica di riprendere lo studio della questione russa. Muovendo dal Marx della «Nuova Gazzetta Renana» e delle Rivelazioni sulla storia diplomatica del XVIII secolo, e illustrandone con abbondanti citazioni le principali tesi, esso le mette poi alla prova della storia reale, non mancando di rilevarne i punti deboli e le lacune. Ne risulta una ricostruzione storica che traccia a grandi linee la genealogia dell'europeizzazione della Russia dal XVII fino alla fine del XIX secolo. Come Rjazanov finemente suggerisce, non solo lo statuto − per così dire – geo-storico e culturale della Russia si è profondamente trasformato sotto la spinta dello sviluppo del capitale, ma questo sviluppo ha di volta in volta spostato i confini di cosa si considerava «Europa» e cosa non (gli scandinavi, ad esempio, non ne hanno sempre fatto parte). In questo quadro, in cui dunque si rapportano delle costruzioni storiche e non delle essenze intangibili, il Novecento – assente per ovvi motivi nella trattazione di Rjazanov – annovera, in merito all'europeizzazione della Russia, almeno quattro tornanti fondamentali (si noterà che la Germania è sempre, in una maniera o nell'altra, centrale nell'intreccio):

  • Pietrogrado, 1917: con lo scoppio della Rivoluzione di febbraio, e ancor più con quella d'Ottobre, si apre la prospettiva di una congiunzione fra rivoluzione russa e rivoluzione tedesca − congiunzione non meramente ideale, ma da realizzarsi nelle cose stesse, sconvolgendo il fronte fra Impero russo e Imperi centrali;
  • Brest-Litovsk, 1918: «spazio in cambio di tempo» secondo Lenin, «accoppiamento grottesco fra Lenin e Hindenburg» secondo Rosa Luxemburg; in ogni caso, è già un sintomo del ristagno del processo rivoluzionario russo, visto sotto l'angolo degli assetti territoriali;
  • Berlino, 1945: l'esercito russo è nel cuore del Vecchio Continente, l'europeizzazione della Russia (e la russificazione dell'Europa) al culmine, certo non come rivoluzione inter-nazionale (di rivoluzione a-nazionale o anti-nazionale non fu mai questione, se non nella testa di qualche spiritato), ma come sforzo sovrumano, economico e militare, del capitalismo russo plasmato dallo stalinismo, nella guerra totale che lo impegna contro la Germania nazista (il fronte orientale è, quantitativamente e qualitativamente, di gran lunga il più importante della Seconda Guerra mondiale);
  • Berlino, 1989: il processo, che i decisori del capitalismo russo volevano controllato, di disimpegno politico e militare della Russia dall'Europa orientale e centrale, principalmente in ragione degli elevati costi economici di quella proiezione, «sfugge di mano»; si trattava di trasformare i vassalli in semplici clienti, ma le cose non andarono come previsto, ciò che ebbe pesanti ripercussioni sulla Russia nei durissimi anni 1990. Vittoria della concezione americana dell'Europa su quella russa (e non solo: si pensi all'Europa dall'Atlantico agli Urali di De Gaulle...) − non per KO tecnico, ma per abbandono prematuro del ring da parte dell’avversario. L'URSS stava perdendo il treno della microelettronica come produzione di massa, non tanto per incolmabili ritardi nel campo della ricerca fondamentale, quanto per mancanza di incentivi materiali all'innovazione in ambito aziendale. Ma non era scritto che l'URSS dovesse per forza finire così.

Ma da allora, dove va la Russia? Ristabilito l'ordine dopo il caos dei primi anni 1990, e posto un freno alla voracità dei cosiddetti oligarchi (termine arci-abusato, ormai utilizzato per designare l'insieme della grande borghesia russa, mentre in origine si riferiva alla sua frazione che aveva fatto fortuna grazie alle pratiche di intermediazione commerciale come il tolling), la Russia, rimessa su rotaia dall'élite – più nazionalista che liberale – dell'era-Putin, ha per tutto un periodo cercato di farsi accettare al tavolo occidentale, e poi di sottrarre l'UE al guinzaglio americano. Grossomodo, ciò è andato di pari passo con la ridefinizione della NATO come alleanza apertamente offensiva votata al regime change su uno vasto spazio comprendente il Nordafrica, l'Europa orientale, il Vicino e Medio Oriente, il Caucaso e l'Asia centrale. Una ridefinizione, questa, che ha rinnovato e non certo soppresso le tre funzioni fondamentali della NATO nel quadro della Guerra Fredda («to keep the Americans in, the Russians out and the Germans down»). Se la sua sopravvivenza fu inizialmente caldeggiata dalla Russia stessa in virtù dell'ultima di queste funzioni (impedire il militarismo tedesco), essa ha dovuto progressivamente prendere atto dell'impossibilità di separarla dalle altre due. In questo senso, la guerra in Ucraina simboleggia la fine delle illusioni: quelle nutrite dai russi, ma anche quelle di certi europeisti, francesi in particolare, di una maggiore indipendenza strategica dell'UE (superamento della NATO in un'Europa della Difesa etc.). Non tutto, nella contesa mondiale, è ancora scritto a lettere scolpite nel marmo (il posizionamento della Germania resta un'incognita, malgrado le apparenze), ma è certo che la Russia torna a guardare verso Oriente: il fatto non è proprio nuovo, ma ormai il dado è tratto e tutte le alternative – dalla German Connection al reset russo-americano di marca trumpiana, scioltosi come neve al sole di fronte allo strapotere degli apparati americani – sono oggi più evanescenti che mai.

Ritorniamo al saggio di Rjazanov e al suo punto di partenza: gli equivoci e le insufficienze marxiane riguardo alla Russia. Fra i tanti passi importanti, quello qui riportato ci sembra cruciale:

«Il fatto che Marx ancora nella sua polemica con Vogt citi il suo lavoro sui rapporti diplomatici tra Russia e Inghilterra nel XVIII secolo e riprenda le più importanti delle sue conclusioni, dimostra che egli, all'inizio degli anni Sessanta, era rimasto ancora fermo alla sua concezione precedente. Lo sviluppo interno della Russia da Pietro I ad Alessandro II rimane fuori dal suo campo d'indagine. Egli non notò l'evoluzione congiunta dell'assolutismo russo durante questo periodo e sottovalutò lo sviluppo economico della Russia e il suo stretto legame con quello inglese. Egli non vide il fatto che la Russia nel XVI e XVII secolo costituiva una delle più importanti colonie dell'Inghilterra capitalistica, che nel XVIII secolo la fioritura dell'industria di costruzioni navali in Inghilterra e conseguentemente anche la sua egemonia commerciale durante tutto il periodo delle manifatture si basava sulle esportazioni dalla Russia, che ancora negli Sessanta del XIX secolo la Russia era il paese che approvvigionava la grande industria inglese di materie prime e di pane gli iloti di questa industria. Non vide, in una parola, che l'assoggettamento e lo sfruttamento delle classi borghesi delle diverse nazioni europee ad opera del despota del mercato mondiale – l'Inghilterra – era possibile, fra l'altro, solo grazie all'aiuto dei despoti della Russia.

Ma con ciò perdeva sempre più significato il vecchio schema della politica estera della democrazia europea, che Marx ed Engels avevano fatto proprio nei suoi tratti principali: da una parte l'Europa occidentale e dall'altra la Russia asiatica; da una parte la rivoluzione, dall'altra la centrale della reazione in Europa, l'assolutismo.» (pp. 173-176).

Per completare le considerazioni di Rjazanov, possiamo ancora aggiungere che, dopo la morte di Marx, la sua discendenza teorico-politica vide bene l'accelerazione dello sviluppo capitalistico nella Russia dell'ultimo quarto del XIX secolo. Tale sviluppo viene oggi sminuito o semplicemente ignorato dagli scopritori fuori tempo massimo della comune rurale russa: resta a costoro l'onere di spiegare come mai buona parte degli esponenti del populismo russo che interrogarono con preoccupazione Marx sulla sorte della comune rurale e sull'avvenire del capitalismo in Russia, a cominciare da Vera Zasulič, appena qualche anno più tardi ruppero con il populismo e divennero social-democratici incalliti. La genia marxista, dicevamo, apprezzò correttamente la più forte penetrazione dei rapporti capitalistici in Russia – ma non ne comprese la causa fondamentale. Furono le misure protezioniste introdotte in campo commerciale prima sotto Alessandro II, in seguito alla Guerra russo-turca (1877- 1878), poi sotto Alessandro III, con la supervisione del comitato ad hoc affidato a Mendeleev (sì, proprio quello della tavola periodica degli elementi!), a favorire la forte crescita economica del periodo 1880-1914 e a permettere al PIL russo, nel 1913, di eguagliare quello francese e superare largamente quello dell'Austria-Ungheria. Si trattava del tentativo dello Stato russo di emanciparsi dalla condizione semi-coloniale (semi-periferica, diremmo oggi), e fu esso a fare da sfondo allo sviluppo del movimento proletario russo e delle sue lotte. Una considerazione, questa, che non è forse superflua in rapporto al presente, nella misura in cui il tentativo americano di isolamento economico della Russia, finora riuscito solo parzialmente, potrebbe condurre a risultati inattesi e indesiderati, qualora le sanzioni dovessero funzionare come delle barriere tariffarie de facto, spingendo la Russia verso l'integrazione economica con l'Asia da un lato, e verso una (relativa) sostituzione delle importazioni dall'altro. In molti, oggi, vendono la pelle dell'orso prima di averlo ucciso: altra manifestazione della russofrenia contemporanea, quella che vorrebbe la Russia sull'orlo del baratro e allo stesso tempo pronta a prendersi la Polonia, la Lituania, la Lettonia e chissà cos’altro ancora. Per conto nostro, non ululeremo con i lupi. La guerra è guerra, e lo Stato russo porta su di sé la responsabilità immediata di averla iniziata. Ma il tribunale della storia giudicherà più severamente, in primo luogo, coloro che, con un cinismo senza eguali, si sono adoperati per anni e sono infine riusciti a fare della popolazione di un failed State carne da cannone da mandare allo sbaraglio contro la Russia. Vale lo stesso per tutti gli utili idioti di questa tragedia, da quelli che in barba ad ogni pur borghese Realpolitik hanno sacrificato il loro paese sull'altare delle utopie da un quarto d'ora, a quelli che oggi ci preparano a stare al freddo... «per gli ucraini».

E la lotta di classe? Esiste sempre, comunque e ovunque... e quindi anche in Russia. Ma dove sta scritto che essa debba essere per forza di cosa anti-regime? Chi si intende un minimo di cose russe, sa bene che intorno alla «colomba» Putin, dentro e fuori la compagine di governo, ci sono «falchi» ben più oltranzisti, capaci di fare leva sul malcontento popolare e tradurlo in maniera ancor più virulenta sul piano delle relazioni internazionali. Il regime change pro-occidentale è, in relazione alla Russia attuale, l'ennesima fantasia d'anima bella che, messa in pratica, condurrebbe con ogni probabilità a risultati opposti rispetto a quelli sperati. Se potessimo azzardare un'ipotesi, diremmo che il vento ha cambiato direzione: è finito il tempo in cui il mondo occidentale poteva strumentalizzare i movimenti sociali per favorire regime changes a lui graditi nei cosiddetti Stati-canaglia. È ora la Russia, volente o nolente, a fomentare le tensioni sociali in Europa occidentale e centrale, soffiando sul fuoco dell'ondata inflazionista4. «Si può dire che al giorno d'oggi, in maniera più o meno inconscia, si attribuisce ai russi la colpa di aver fatto la rivoluzione.» (Jacques Camatte, Morte ed estinzione)5. Senza voler sminuire l’idiosincrasia per un passato che continua a turbare i sonni dell'alta borghesia europea, le cose sono forse più semplici: in maniera più o meno inconscia, si attribuisce ai russi la colpa di mandare all'aria la pace sociale in Europa. L'ondata di scioperi in Gran Bretagna è già un cattivo presagio. Il fervore anti- russo è commisurato al pericolo: nonostante le belle dichiarazioni di intenti e la parvenza di unità ritrovata, l'UE e l'eurozona non sono mai state così deboli.


Note
1 David B. Rjazanov, Karl Marx über den Ursprung der Vorherrschaft Rußlands in Europa, «Die Neue Zeit: Ergänzungshefte zur Neuen Zeit», quaderno n. 5, 5 marzo 1909. Trad. it. in Karl Marx, Storia diplomatica segreta del 18° secolo, La Pietra, Milano, 1978, pubblicata con diverso titolo: Le origini del predominio della Russia in Europa.
2 In Aa. Vv., Capitalismo e fascismo verso la guerra: antologia dai "New Essays", La Nuova Italia, Firenze, 1976.
3 Tra le analisi più recenti della situazione sul campo e dei possibili sviluppi del conflitto, segnaliamo: Enrico Tomaselli, La vittoria impossibile, reperibile qui: https://giubberosse.news/2022/08/19/la-vittoria-impossibile/.
4 Questo ovviamente non significa che la Russia sia la sola né la principale responsabile dell'ondata inflazionista. Allo scoppio della guerra in Ucraina, quest’ultima era già ben delineata, sia negli USA che nell'UE. D’altra parte, è bene anche ricordare che la preferenza accordata ai contratti a lungo termine in materia di esportazioni di combustibili, non contraddice il fatto che «i russi» (vale a dire i membri del Consiglio di sicurezza della Federazione Russa, una parte degli alti funzionari dello Stato, i dirigenti di imprese come Gazprom e Rosneft, etc.) conoscono fin troppo bene i meccanismi altamente finanziarizzati del mercato spot del gas e quelli regolamentari del mercato comune dell'elettricità, per non sapere come orientare i prezzi al rialzo o al ribasso.
5 Reperibile qui: https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/23385-jacques-camatte-morte-ed-estinzione-sull- invasione-dell-ucraina.html. 

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