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Fare scuola durante un genocidio

di Michela Pusterla

gaza1.jpgMi trovo da settimane di fronte a un dilemma didattico: entrare in classe e parlare di qualcosa, qualsiasi cosa, quando mi pare che non si possa parlare d’altro. Nei miei anni di insegnamento, ho sempre fatto lezione sulla Palestina, e in particolare ho sempre ricostruito la storia del sionismo all’interno di un’unità didattica sul colonialismo, che si concentrava sulle colonizzazioni della Palestina e sul colonialismo italiano. Ma, a partire dall’autunno 2023, quell’approccio squisitamente storiografico ha cominciato a rivelarsi insufficiente e, dall’inizio di questo anno scolastico, limitarsi alle coordinate storico-geografiche non è più solo insufficiente, è diventato sbagliato. Mi è apparso evidente che la questione del genocidio in atto a Gaza pone una domanda cruciale al mio stare a scuola: ne va del fatto stesso del mio essere insegnante.

 

La debolezza dell’ideologia dei diritti umani

Negli ultimi decenni, la scuola è stata egemonizzata dall’ideologia neoliberale, che ne ha influenzato sia la didattica sia la pedagogia. Ha vissuto così un periodo di grande pace sociale, dove sembravano ormai assenti sia lo scontro sul piano materiale sia quello sul piano ideologico. Se dal punto di vista strutturale il modello egemonico è quello di una scuola al servizio delle aziende e in sé stessa azienda, dal punto di vista valoriale la scuola – una volta democratica e antifascista – si è da tempo accucciata sotto l’ala ecumenica dei diritti umani e, più recentemente, dell’«Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile». Alla luce di questa ideologia, prospettata vagamente e senza analizzarne le contraddizioni, si depotenziano tutti i discorsi di liberazione: una volta varcata la porta dell’aula, ogni discorso sembra deradicalizzarsi necessariamente. Il femminismo in classe assume spesso le fattezze della storia delle donne e del contrasto alla violenza di genere, mentre l’ecologismo si traduce nelle buone pratiche della raccolta differenziata e delle energie rinnovabili.

Negli ultimi due anni però abbiamo assistito a un fatto nuovo: questa cornice concettuale un po’ vaga dei diritti umani in salsa europeista si è frantumata di fronte al genocidio del popolo palestinese, mentre Greta Thunberg, già onnipresente sui manuali, ne è subito scomparsa non appena si è messa la kefiah. L’ideologia dei diritti umani, lo stesso primo nucleo tematico dell’educazione civica chiamato Costituzione, diritto (nazionale e internazionale), legalità e solidarietà, hanno rivelato cioè la loro approssimazione e inconsistenza. L’assurdità sta tutta qui: l’educazione civica – che siamo tenuti/e a fare, nelle scuole di tutti gli ordini e gradi, per almeno trentatré ore all’anno – nell’a.s. 2025/2026 si può benissimo fare senza dire la parola genocidio e addirittura senza parlare di Gaza.

Di fronte alla fumosità di una cornice concettuale che permette una tale ipocrisia, la Palestina, al contrario, pretende precisione, non accetta la vaghezza; vuole coerenza, non permette la contraddizione; ci chiede di essere partigiani/e. A cosa serve spiegare l’Onu se non diciamo che le numerose risoluzioni delle stesse Nazioni unite condannano le azioni di Israele a Gaza e in Cisgiordania?; a cosa serve insegnare diritto senza dire che Israele non rispetta il diritto internazionale?; a cosa serve celebrare la Giornata della memoria se non diamo conto del genocidio che è in corso ora? A nulla, ecco. Gaza del resto, scrive Khaled Saleh Atieh, «non è solo geografia, è un’esperienza esistenziale, è l’esame che mette l’umanità davanti a uno specchio».

Davanti a questo specchio, ci rendiamo conto che la scuola è, come è sempre stata, un campo di battaglia culturale e materiale, dove si scontrano diverse esigenze politiche, economiche e sociali: il genocidio in corso a Gaza sta facendo riemergere questo conflitto, che negli ultimi anni era sopito per l’egemonia schiacciante di una parte sulle altre. Quella stessa ideologia neoliberale dei diritti umani però si sta ora rivelando incapace di denunciare il genocidio in atto e si sta concedendo alla virata bellicista richiesta dalla Nato, per questo è urgentissimo porsi sull’altro lato della barricata e guardarsi intorno per vedere chi c’è al nostro fianco.

 

Guardarsi negli occhi e ricomporre un fronte

Quando diciamo che la Palestina libera tutti/e stiamo dicendo che ci sta dando un’occasione. Negli ultimi anni, il corpo docente – sempre più precarizzato e oberato da compiti superflui – ha progressivamente ridotto la sua capacità di risposta sindacale alle riforme della scuola e, parallelamente, autosoffocato la sua coscienza collettiva. Esiste, a mio avviso, una larghissima fascia di astensionismo nella classe docente, soprattutto tra le persone precarie e neo immesse in ruolo: gente che lo Stato costringe a una costosa instabilità esistenziale e che vive nella frustrazione di perdere tempo, risorse e slancio in inutilissimi corsi di formazione malfatti. Queste persone giovani insieme ad altre più anziane, tutte a loro modo disilluse, sono gli astenuti che non riescono a trovare un protagonismo nei collegi dei docenti formati da centinaia di persone e schiacciati da ordini del giorno lunghissimi e mai sostanziali.

A questa fetta di astenuti/e, che si limita al lavoro in classe rifuggendo incarichi e riconoscibilità all’interno del corpo docente, Gaza sta dando un’occasione: quella di prendere parola e riappropriarsi della propria funzione educativa e del proprio ruolo intellettuale. E non a caso, dall’inizio di quest’anno scolastico la quantità di insegnanti che si stanno mobilitando, in varie forme, è impressionante, a maggior ragione se paragonata all’apatia e al qualunquismo con cui vengono affrontate normalmente le questioni politiche. Moltissimi/e docenti parlano del genocidio in classe, mostrano documentari, commentano articoli, propongono podcast, hanno seguito la flotilla, creano momenti di discussione.

In varie scuole d’Italia, a fianco della didattica, molti e molte di noi hanno tentato di aggiungere un altro tassello, quello della presa di parola dei collegi dei docenti. Chi ha chiesto di mettere un punto sul genocidio all’ordine del giorno o è riuscito/a a presentare una mozione sul tema, si è tuttavia scontrato/a contro alcuni problemi strutturali: i collegi dei docenti, troppo numerosi a causa degli accorpamenti degli istituti, si sono ridotti ad annoiati organi ratificatori su questioni di routine (l’educazione civica, gli incarichi nei consigli di classe, il regolamento sull’uso dei cellulari, il fumo nei bagni), dove la discussione collettiva è pratica ormai quasi estinta. Laddove non esistono già conflitti sindacali aperti, spesso le mozioni su Gaza hanno permesso di aprire una faglia nel funzionamento stesso dei collegi, mettendo in luce una disabitudine alla discussione e un imbarazzo nella presa di parola. Le mozioni su Gaza hanno spezzato l’assedio, hanno riconsegnato al collegio la sua originale funzione di esercizio democratico; hanno permesso, in ogni caso, anche dove non è stato possibile presentarle, di riflettere sulla funzione stessa di quell’assemblea: se il collegio dei è l’organo tecnico dell’istituzione scolastica in materia didattica, dove stanno i confini di quella materia didattica?

Non a caso, in una nota diramata ai dirigenti scolastici, la direttrice regionale dell’Ufficio scolastico del Lazio, Anna Paola Sabatini, ha sentito il bisogno di dichiarare che le riunioni degli organi collegiali «devono essere esclusivamente finalizzate alla trattazione delle tematiche relative al buon funzionamento dell’istituzione scolastica e sottratte a qualunque altra finalità». Il tentativo è quello di sancire ufficialmente il silenziamento della discussione di un organo che, per prassi, è già abbastanza silente.

Chi ha tentato la strada del collegio in vari casi ha avuto modo di vedere approvata una mozione di condanna del genocidio, sentendosi così, individualmente e collettivamente, ricononsegnato/a quel ruolo di soggetto pensante, di intellettuale potremmo dire, che è da lungo negato a una classe docente svalutata socialmente ed economicamente. Chi ha parlato del genocidio in collegio ha avuto l’occasione di conoscere colleghi e colleghe, riconoscersi a vicenda, sentirsi meno solo/a. Questo ha determinato una presa di coscienza collettiva e uno svelamento della presenza di una battaglia culturale e materiale, che c’era anche prima, come sa benissimo la destra che la sta combattendo sul piano ideologico attraverso l’infiltrazione nel curricolo di educazione civica con le nuove Linee guida di Valditara e nei programmi, con le recenti nuove indicazioni nazionali per il curricolo. Se ora, sulla Palestina, stessimo zitti/e, questo non significherebbe l’assenza del conflitto: significherebbe che l’ideologia sionista ha fagocitato ogni forma di opposizione.

Questo riconoscersi tra docenti ha portato a una inedita partecipazione agli scioperi generali del 22 settembre e del 3 ottobre, ai quali hanno preso parte anche insegnanti che non avevano mai scioperato. Secondo il Ministero dell’istruzione, la percentuale di adesione allo sciopero del 22 settembre è stata del 10,16% sul 50,7% delle scuole rilevate, mentre il 3 ottobre siamo al 7,43% sul 51,18% delle scuole rilevate. In molti istituti, tuttavia, l’adesione è stata molto più alta, soprattutto tra il personale docente. Ritrovare, al mattino del 22 settembre, vari colleghi e colleghe al varco 4 del porto di Trieste è stata un’emozione difficile da spiegare. È un atto di riconoscimento, un rispecchiarsi, che non può essere forse fino in fondo capito da chi non ha mai sperimentato la solitudine e la scomodità che si possono provare in un’aula insegnanti.

La Palestina ci indica la strada, gli scioperi hanno aperto una breccia, hanno rotto l’incantesimo dello scoramento e della disillusione: nei tempi più bui che ci siamo mai trovati a vivere, ci sembra all’improvviso che ci siano degli spiragli per fare qualcosa di significativo dentro le scuole, su questa questione e su tutte le altre, in primo luogo sulla lotta più strutturale che si prospetta, quella contro il disinvestimento nell’istruzione che accompagna l’ingente investimento nella difesa richiesto dalla Nato e dall’Unione europea.

 

La libertà di insegnamento è una barricata

Il tema qui non è morale, è materiale e deontologico, ovvero di etica professionale: ci obbliga a chiederci, con un’urgenza che mai avevamo sentito prima, chi siamo noi come lavoratori e lavoratrici della cultura e dell’educazione e che cosa significa fare scuola.

In un istituto professionale, come quello in cui insegno io, il bilancio tra educazione e istruzione pende a favore della seconda: la scuola dove insegno è in primo luogo, per sua vocazione, uno strumento della riproduzione della forza produttiva molto più che un’istituzione nella quale la società cerca di perpetuare i propri principî, quali sono invece ancora in maniera preponderante i licei, per quanto anch’essi minati dall’ideologia della alternanza (oggi formazione) scuola-lavoro. In una scuola del genere, dove non esistono i programmi, dove l’educazione civica si fa seguendo un curricolo di istituto, dove moltissimo del tempo scuola è sottratto alla didattica e dedicato a pcto e orientamento, parlare di Palestina, di genocidio e di pace è una scelta radicale. E tuttavia, proprio quando il tempo-scuola è già profondamente eroso, proprio laddove la didattica è soffocata dalla burocrazia e dalle progettualità, mi pare che non si possa fare altro che parlare di quello. E in questa stessa scelta si dà un’idea di scuola: una scuola – avrebbe detto Lucio Lombardo Radice – «laica, di libertà, di ragione, di rigore scientifico ma non neutrale, ispirata ai valori dell’antifascismo e della Resistenza».

Il presidente della regione dove insegno, Massimiliano Fedriga, ha affermato che il corpo docente «non può utilizzare le ore di lezione per portare avanti una propria idea, come verità assoluta, senza un contraddittorio o senza capacità di critica». Addirittura, pare che in Senato, si stia discutendo un ddl censorio che parte dall’equazione disonesta tra antisionismo e antisemitismo, vòlto a colpire proprio la libertà di insegnamento nelle scuole e nelle università. Di fronte a un clima simile, mi pare, ci si può ricompattare non solo in difesa dell’articolo 33 della Costituzione, che sancisce la libertà di insegnamento e garantisce autonomia ai/alle docenti come lavoratori e lavoratrici della conoscenza, ma anche per una scuola «non neutrale» tra oppressi e oppressori, e antifascista.

 

Contro l’economia di guerra

Da due anni a questa parte, e più intensamente negli ultimi mesi, abbiamo visto lezioni tematiche, appelli, raccolte firme, riunioni informali tra colleghi, nuovi coordinamenti nazionali come Docenti per Gaza, assemblee sindacali, mozioni nei collegi dei docenti, spezzoni scolastici nei cortei e una partecipazione significativa agli scioperi. Certo, il corpo docente non ha dimostrato di anticipare il resto della società e la sua mobilitazione massiccia arriva ora che la società è già mobilitata, tuttavia, seppur in ritardo, il corpo docente sta cogliendo appieno questa occasione per ridestarsi, per assumersi una responsabilità e per ritrovarsi anche dalla stessa parte degli e delle studenti che stanno assumendo un ruolo centrale in queste mobilitazioni.

È indubbio che sia successo qualcosa in questi mesi nella scuola. Il rischio è che non si tratti di un risveglio intellettuale pieno e forte ma di una scelta simbolica: se è vero che molti/e insegnanti hanno scioperato per la prima volta, è anche vero che altri/e, pur solidali, hanno preferito essere in classe e fare lezione su Gaza, come se fosse la stessa cosa. Se questa fase rappresenta senza dubbio una cesura nella scuola, esiste – dentro le aule come fuori – il rischio che questa vampata possa spegnersi presto. Bisognerà avere l’intelligenza di non confinare questa presa di parola al piano etico o valoriale, ma lasciarla proliferare a quello materiale. Bisognerà che gli/le insegnanti, una categoria dove il ricatto sul lavoro resta più blando di quello nel settore privato, si percepiscano prima e si autorganizzino poi come lavoratori e lavoratrici in grado di esprimersi e mobilitarsi contro l’economia di guerra che influenza e influenzerà sempre più le nostre vite, a partire dal piano materiale degli stipendi a quello intellettuale della libertà di espressione e insegnamento.


Questo articolo è il risultato delle discussioni, nei corridoi e nelle piazze, con studenti e colleghi/e, che ringrazio.
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Comments

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BDS+M
Thursday, 30 October 2025 21:27
"L’ideologia dei diritti umani, lo stesso primo nucleo tematico dell’educazione civica chiamato Costituzione, diritto (nazionale e internazionale), legalità e solidarietà, hanno rivelato cioè la loro approssimazione e inconsistenza".
Una pseudo-professoressa kefiahta che scrive così dovrebbe essere sbattuta fuori da scuola a calci in culo (la concordanza tra soggetto e verbo, dio cristo!)
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Lorenzo
Wednesday, 29 October 2025 12:12
Quindi la "libertà di espressione e di insegnamento" consiste nell'assenza di neutralità e nel plagiare la gioventù ai valori umanisti e antifascisti.

E se un insegnante invece intende avvalersi di dette libertà ed assenza di neutralità per plagiarla a valori diversi e opposti?

La capacità delle scimmie glabre di alienarsi dai più basilari presupposti dell'onestà intellettuale non cessa mai di stupirmi.
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