Capire la guerra
Gabriella Giudici intervista Silvano Cacciari
Silvano Cacciari, antropologo dell’Università di Firenze, ha appena pubblicato Guerra. Per una nuova antropologia politica.
Il testo esamina in sette capitoli (narrazioni, kill chain e tecnologie della guerra, social media, discorsi politici, fine dell’Università) tutto ciò che oggi produce la guerra, cambiando per sempre le nostre società, trasportandoci in un mondo in cui persino ciò che per secoli è stato il suo contrario, la politica, oggi non ne è l’antidoto ma la continuazione della guerra con altri mezzi.
Di seguito il testo di un’intervista nella quale risponde alle domande un gruppo di lettori del volume appena uscito.
Ė uscito Guerra. Per una nuova antropologia politica,
Per l’occasione, ecco una sintesi di domande fatte dai lettori del libro precedente, La finanza è guerra, e di estratti significativi di Guerra.
Ne è uscita un’intervista sugli scenari aperti dal nuovo testo e una di approfondimento dei concetti che rendono pensabile un mondo in cui la politica è diventata la continuazione della guerra ibrida con altri mezzi.
Le questioni sul tavolo sono diverse (la crisi Usa-Ue in contemporanea al conflitto russo-ucraino, le dinamiche di riarmo, la rivoluzione industriale della AI, il riemergere di una teologia politica che cerca disperatamente fattori di ordine in un mondo che non riesce a comprendere) per cui due interviste, una dedicata agli scenari e una ai concetti, rendono più produttiva la lettura di Guerra.
Risulta evidente che proprio il modo di pensare della geopolitica, che guarda alle relazioni internazionali fatte di alleanze di stati sovrani come se fossimo ancora a Westfalia, è messo in seria difficoltà da quello che sta accadendo. Come è altrettanto evidente che il capitalismo politico, l’apparato statale che promuove interessi nazionali, vede erodere significativamente il proprio spazio di sovranità.
Questo non è un periodo che prefigura un ordine mondiale o multipolare, ma uno nel quale le relazioni internazionali sono un sistema adattivo complesso con le sue interazioni non lineari e i tentativi di adattamento della politica a processi per lei insormontabili.
Ringraziando i lettori delle riflessioni pervenute, ecco qui in Scenari la parte di intervista che approfondisce il contesto globale in cui politica e sovranità si presentano prevalentemente come forze in via di disgregazione. Nel nuovo campo di forze antropologico che si è creato a partire dall’ormai lontano 11 settembre 2001 e che viene definito guerra mondiale non dichiarata, molto ormai è cambiato. Vediamo cosa.
* * * *
D. Quando le reti globali si fanno arma. Il concetto di interdipendenza armata di Farrel e Newman è centrale per il presente e il futuro: le reti globali (energia, logistica, finanza) non creano commercio pacifico, ma diventano compiutamente armi di guerra. Qual è l’impatto politico più serio di questa realtà?
R. L’impatto politico più serio e profondo della weaponized interdependence è la trasformazione strutturale della sovranità nazionale e persino della coercizione internazionale. Qui il potere delle armi è significativo non solo se segue l’innovazione tecnologica, ma anche se le infrastrutture stesse si fanno arma: eserciti, AI e missili dettano la potenza sovrana solo quando vi è possibilità di controllo di reti transnazionali private (es. SWIFT per i pagamenti, cloud provider per i dati, sistemi logistici come Maersk o DP World).
Questo significa che lo stato di conflitto permanente si crea non solo tra alleanze e al loro interno (come nella Ue) ma anche dove le reti globali sono sia produzione di ricchezza che oggetto e mezzo della contesa. Lo stato moderno si definisce come il «monopolio della violenza legittima sul proprio territorio», ma la weaponized interdependence rende questo monopolio obsoleto: un potere straniero o non politico può infliggere, infatti, danni catastrofici alla società (collasso finanziario, blackout energetici) senza violare la sovranità territoriale, agendo oltretutto attraverso infrastrutture digitali e finanziarie che già risiedono legalmente nel paese target.
Lo stato, anche riarmandosi, perde così controllo definitivo sulla propria sopravvivenza funzionale. La sua capacità di fornire sicurezza, benessere e ordine attraverso la governamentalità dipende da reti, anche molto instabili, gestite altrove. La guerra finanziaria, pratica nata a fine ottocento oggi tecnologicamente avanzata, ha fatto già vedere questi processi che oggi sono compiutamente guerra ibrida e che possono essere rivolti contro qualsiasi paese.
La weaponized interdependence è il terreno più favorevole per la guerra ibrida, poiché permette di logorare un avversario anche rimanendo sotto la soglia del conflitto armato aperto. Stiamo parlando di uno scenario in cui le guerre contengono altre guerre: ad esempio, la guerra ibrida condotta tra occidentali e Russia su più piani di realtà – dal campo di battaglia, alla tecnologia, alla finanza – conteneva, fin dalla presidenza Biden, un’altra guerra ibrida sotto la soglia del conflitto armato, addirittura entro un quadro di alleanza formale, condotta dagli Stati Uniti contro la Ue.
D. La scomparsa dei limiti (Brooks): Rosa Brooks afferma che «ogni cosa è diventata guerra». Politicamente, questo cosa significa? Se non esistono più limiti (non c’è più un confine tra guerra e pace, tra militare e civile), in che modo si comportano le istituzioni?
R. Rosa Brooks – ci porta verso una trasformazione epocale della politica internazionale e domestica. L’impatto è profondo e destabilizzante. La guerra ottocentesca era, con Clausewitz, la «continuazione della politica con altri mezzi», un evento delimitato nel tempo e nello spazio, la cui concezione ha dominato ben oltre il periodo storico della sua concreta possibilità di applicazione. Oggi, la politica, quella istituzionale come quella informale, è diventata un’estensione della guerra permanente, condotta con mezzi ibridi.
La competizione strategica non si accende, né spegne: è sempre attiva, dall’influenza sui social media, alle evoluzioni dei mercati finanziari al controllo delle supply chain. Agenzie di intelligence e militari assumono ruoli domestici e globali senza precedenti (es. la NSA che fa cyber-warfare offensivo o i comandi cyber militari che difendono infrastrutture civili).
La burocrazia si militarizza: ministeri dell’interno, dell’energia, della salute sviluppano unità per la “resilienza” e la “guerra ibrida”, adottando logiche e budget di tipo bellico, perdendo la loro identità e specializzazione istituzionali e diventando tutte, in qualche misura, apparati di sicurezza nazionale. Nascono così task force e unità ibride che riuniscono militari, diplomatici, esperti di informazione e aziende private; strutture che operano in zone grigie normative, al di fuori dei tradizionali controlli parlamentari.
Per rispondere a minacce “senza limiti”, le istituzioni espandono il loro potere senza limiti (sorveglianza, interventi extragiudiziali, operazioni coperte), alimentando la conflittualità globale permanente, cioè lo stesso fenomeno alla radice dell’indebolimento della sovranità nazionale.
D. Il potere dell’infrastruttura digitale: L’uso delle reti finanziarie, logistiche, produttive e digitali come arma (tramite sanzioni mirate o attacchi cyber) verso quali soggetti sposta le dinamiche di potere? E cosa succede alla sovranità nazionale quando la capacità di difesa dipende dalla tecnologia di una rete complessa di aziende private?
R. L’uso delle infrastrutture digitali e delle reti globali come arma sta causando uno spostamento radicale del potere e una ridefinizione della sovranità nazionale. La tech sovereignty si impone come nuova sovranità nella guerra permanente: aziende come Amazon Web Services (cloud), TSMC (semiconduttori), SpaceX (connettività satellitare), SWIFT (finanza) controllano infrastrutture critiche a livello globale. Possono decidere, autonomamente , di disconnettere interi paesi o settori.
La tech sovereingty possiede anche un vero e proprio potere normativo definendo standard de facto (protocolli 5G, formati dati) che gli stati devono accettare. Se ne è visto l’effetto nella sospensione della Russia da SWIFT nel 2022: arma finanziaria possibile solo perché una società privata belga ne gestisce un monopolio infrastrutturale globale.
Ci sono anche paesi che ospitano nodi fisici decisivi (come Taiwan per i semiconduttori o i Paesi Bassi per ASML – stesso settore – e i porti europei o Singapore per la logistica marittima), acquisendo un potere di interdizione sproporzionato rispetto alla loro dimensione militare tradizionale. Cosa accade alla sovranità nazionale? Che la difesa nazionale dipende da infrastrutture fuori dal controllo statale diretto, ma uno stato non può “difendere” ciò che non possiede o non controlla appieno (cloud altrui, software proprietario).
Abbiamo quindi un paradosso che, in fondo, non sorprende, visti i tre decenni di liberismo da cui veniamo, ovvero che mentre la sovranità formale (confini, leggi) rimane, quella funzionale (capacità di garantire servizi essenziali) è condivisa con grandi aziende o ceduta a soggetti privati di ogni genere.
D. In questo scenario di politica come continuazione della guerra ibrida quali sono i fattori scatenanti le guerre sul campo come quella russo-ucraina? L’accumulazione di capitali che tende inesorabilmente verso la guerra? La guerra ibrida che diviene incontrollabile agli stati sovrani e alle alleanze?
R. Quando la guerra non militare si estende su troppi piani di realtà l’intervento armato diviene inevitabile. La guerra a bassa intensità del conflitto russo-ucraino (una compresenza di guerriglia, guerra a bassa intensità, guerra finanziaria, sanzioni e lawfare, scontro continuo sugli accordi di pace di Minsk) termina con il 2022 in un drammatico scontro sul campo nel quale entrambe le parti fanno calcoli strategici e, allo stesso tempo, sono trascinate da una situazione incontrollabile.
Qui la ragione di stato non è padrona della guerra: deve solo sapersi adeguare alla direzione che hanno preso queste forze incontrollabili. La guerra ibrida, come quella adottata dal 2014 al 2022, opera per logoramento e destabilizzazione senza dichiarazione di guerra. Quando questi strumenti non riescono a piegare l’avversario, emerge la spinta ad intervenire sul campo aggiungendo la l’arma militare piena alle altre non militari. Poi i media, la filosofia della guerra giusta intervengono per definire chi ha ragione, chi è l’aggressore o l’aggredito.
La costruzione di questa spinta è accelerata dalla guerra ibrida stessa, che fornisce informazioni dettagliate sulle vulnerabilità nemiche (attraverso cyber spionaggio, corruzione, disinformazione che testa le reazioni). Quando le vulnerabilità nemiche si fanno un oggetto definito nelle piattaforme AI, nelle catene di comando militari , nei Cda aziendali dell’economia della guerra lo scatenamento della guerra sul campo non è un fenomeno controllabile dagli stati.
Questo tanto più quando i mercati finanziari cominciano a scommettere sulle materie prime, e sui veicoli finanziari. che diventano essenziali in una guerra sul campo. E’ il momento in cui le grandi tech e le aziende di difesa private, che hanno partecipazioni strategiche ovunque, vedono l’accelerazione del mercato. Si impone l’interesse a vendere strumenti di guerra ibrida (sistemi di sorveglianza, piattaforme di analisi dati, servizi di cybersecurity offensiva) a stati e attori non statali e a perfezionare quelli di guerra (Palantir che diventa, di fatto, la guerra in Ucraina). Si sviluppa un mercato della vulnerabilità del nemico e della difesa che commercializza il conflitto nel quale, oltretutto, i media ufficiali non sono solo militarizzati ma anche ufficio stampa dell’espansione di questo mercato dello scatenamento della fase convenzionale della guerra.
La guerra russo-ucraina rappresenta il ciclo dell’immissione della guerra convenzionale entro la quella ibrida e quello dello svuotamento della sovranità statale alla quale gli attori politici cercano di adattarsi.
L’interdipendenza armata rivela l’ accumulazione di capitale in crisi e spinge verso la guerra ibrida come strumento “a basso costo” di risoluzione della crisi stessa; la guerra ibrida, per sua natura multifrontale, genera instabilità, escalation impreviste e logoramento; questa instabilità può superare la capacità di controllo di stati e alleanze, specialmente quando attori finanziari e dinamiche tecnologiche accelerano le crisi; infine dall’impasse e dalla perdita di controllo, gli stati possono ricorrere alla guerra convenzionale, direttamente o per procura, come presunto “reset” o soluzione definitiva, aggiungendo il conflitto sul campo agli altri piani di realtà che si sono fatti arma creando una tempesta le cui dinamiche sono difficilmente controllabili anche dall’eventuale vincitore.
D. La crisi di legittimità del governo: La guerra ibrida opera anche al di sotto della soglia della violenza palese, ma crea comunque una precarietà sistemica. In che modo un governo mantiene la sua legittimità e il sostegno pubblico se non può garantire né la “pace” (perché il conflitto è diffuso) né una “vittoria” (perché il conflitto non finisce), ma solo una gestione permanente della crisi che appare senza limiti?
R. La guerra ibrida crea una crisi di legittimità esistenziale per la forma governo perché smantella le fondamenta di ogni genere di patto sociale immaginario o costituzionalizzato che sia: lo stato non può promettere sicurezza né tanto meno pace, ma solo una perenne e logorante gestione dell’insicurezza. La legittimità, in questo contesto, non si è persa in un giorno, ma è evaporata gradualmente nel corso degli ultimi trenta anni liberisti.
La forma governo si trova oggi, e per il futuro, intrappolata in un paradosso simile a quello di Schrödinger: deve dichiarare simultaneamente che c’è una guerra (per mobilitare risorse e poteri speciali) e che non c’è (per evitare panico e costi politici e materiali). In questa zona dai caratteri indistinti, il sostegno pubblico non si mantiene con le vittorie, ma con la capacità di costruire una narrativa distopica da guerra senza limiti (“la necessità di difendersi”, narrazione quasi mistica).
Il governo mantiene il consenso se produce la narrazione del controllo attraverso una successione calcolata di crisi “gestite”: un attacco informatico, una sconfitta militare , uno scandalo finanziario. Ogni evento viene ufficialmente narrato come grave ma controllato, dimostrando sia l’onnipresenza della minaccia che l’indispensabilità della guida vigile. Il pubblico, compresi i social, rinuncia a prospettive a lungo termine e si aggrappa all’autorità che promette di gestire il prossimo disastro imminente. La politica si riduce alla narrazione dell’emergenza.
Uno scenario già prefigurato negli anni ’70, il cui risultato oggi non è una dittatura classica con i carri armati in piazza, o una socialdemocrazia che sospende la democrazia (come nella Germania di Helmut Schmidt), ma uno stato la cui legittimità non deriva più dal benessere o dalla giustizia, ma dalla percezione che, per quanto brutale e claustrofobica, l’alternativa a questa gestione sia l’apocalisse. Il consenso si cristallizza in un silenzio assorto, in uno stato di shock congelato, dove il sostegno al governo non è attivo, ma è l’assenza di energie per immaginare un altro futuro.
D. La nuova rivoluzione industriale – trainata da AI e robotica – quanto è in grado di far evolvere questo scenario della politica come continuazione della guerra ibrida con altri mezzi? E quali sono le criticità più forti in questa dimensione?
R. La fusione tra AI, robotica e guerra ibrida, promossa dalla nuova rivoluzione industriale non fa semplicemente evolvere lo scenario, ma trasforma la «politica come continuazione della guerra con altri mezzi» nella componente antropologica di un sistema autonomo e autopoietico. Un cambiamento enorme che la politica, istituzionale ma anche informale, deve ancora metabolizzare.
Con AI e robotica avanzate, gli attacchi ibridi possono essere sempre più progettati, eseguiti e adattati da sistemi autonomi, con la conseguenza che l’attribuzione delle responsabilità diventa quasi impossibile: è stato un algoritmo? Un errore? Uno stato? Un’azienda? Un hackeraggio da parte di un algoritmo? L’ambiguità, già arma della guerra ibrida, diventa totale.
Immaginiamo una supply chain intelligente e auto-adattiva controllata da AI: in tempo di pace, ottimizza i flussi globali per l’efficienza; in caso di tensione geopolitica, un algoritmo può riorientarla automaticamente per strozzare un avversario, prima ancora che un qualsiasi governo ordini una sanzione. Il conflitto economico diventa così proattivo e automatizzato.
La nuova rivoluzione industriale non accelera semplicemente la guerra ibrida ma la trasforma in un ecosistema vivente di conflitto. Le criticità più forti risiedono nella perdita di controllo della società per questo tipo di processi, ma il rischio maggiore non è Skynet di Terminator che diventa consapevole, quanto una società che delega a sistemi opachi le decisioni più critiche, in una corsa verso l’efficienza che sacrifica la deliberazione, la solidarietà e la sovranità. La politica, in questo scenario, non è più la continuazione della guerra con altri mezzi, ma la continuazione della logica algoritmica, intrecciata con quella dello stato di emergenza, con mezzi umani.
D. I nuovi attori della forza: Se il conflitto è ibrido, la forza coercitiva non è più monopolio dello Stato. In che modo l’emergere di attori privati (mercenari, hacker di stato, gruppi finanziari con potere di vita o di morte) sta decentralizzando la violenza e sfidando il fondamento stesso dell’ordine politico moderno?
R. Gli eserciti tradizionali permangono, anche se finiscono per essere governati da piattaforme AI private (come Palantir in Ucraina), ma l’emergere di attori privati nel mercato della forza coercitiva non sta semplicemente decentralizzando la violenza: sta disassemblando il concetto weberiano di stato moderno e riscrivendo le regole fondamentali del potere politico.
Almeno tre soggetti, oltre ai creatori di AI, sono significativi in questo processo: Mercenari 2.0 (PMC 2.0) non più solo “cani da guerra” in zone marginali. Compagnie come il gruppo Wagner (prima della crisi), ma anche le nuove entità che sono emerse, offrono pacchetti di sovranità completi: controllo territoriale, intelligence, guerra informatica, influenza politica. Sono proxy che si possono disconoscere in caso di necessità, ma capaci di alterare confini (Ucraina 2014, Sahel) e rovesciare governi (Libia). Lo stato che li usa, perde il controllo sulla violenza che scatena, vedendosela anche rivoltare contro (colpo di Stato in Mali sponsorizzato da Wagner, insubordinazione verso Putin in Russia).
Hacker di stato (state-sponsored hacktivist): gruppi come APT28 (Fancy Bear) o Lazarus Group operano in una zona grigia tra intelligence nazionale e gang criminale privata. Permettono agli stati di compiere atti di guerra (sabotaggio di infrastrutture critiche, furto di proprietà intellettuale) senza responsabilità diretta. La violenza è digitale, ma le conseguenze sono fisiche (blackout, disastri industriali). Lo stato che li ha ingaggiati (come desidererebbe fare Crosetto per l’Italia) nega, se necessario, ogni responsabilità, ma la violenza è reale.
Capitalisti della coercizione: fondi speculativi e holding finanziarie che controllano, attraverso debito o acquisizioni, infrastrutture critiche nazionali (porti, reti energetiche, sistemi di comunicazione, debito pubblico, banche strategiche) di paesi vulnerabili. Possono minacciare di “spegnere” una nazione per ottenere concessioni politiche, usando il controllo proprietario come leva di coercizione non militare.
L’ordine politico moderno, costruito sullo Stato-nazione come attore razionale e responsabile del potere finale, è stato sostituito da un ecosistema di potere policentrico, amorale e caotico, dove il più forte non è tanto l’esercito più grande, ma chi controlla la rete più agile di forza privatizzata, denaro opaco e connivenza politica. La sfida portata da tutto questo, non è solo di sicurezza, ma esistenziale per il progetto di civiltà basato sullo stato di diritto
D. Governare la crisi come metodo: Invece di risolvere le crisi, la politica è costretta a “governarle”, ovvero gestirle in modo cronico. Questa costante necessità di agire sotto emergenza, a quale modello di eccezione permanente porta ?
R. Il modello politico che emerge dalla governance cronica della crisi non è uno “stato di eccezione” temporaneo, ma un ecosistema istituzionale patologico che possiamo definire «stato manageriale di emergenza cronica». Questo sistema sviluppa caratteristiche distintive e auto-rinforzanti: il potere si concentra in comitati d’emergenza (task force, unità di crisi) che operano al di fuori dei normali circuiti istituzionali.
La legittimità deriva dalla percezione suscitata di competenza tecnica e di decisione militare, cioè della capacità di gestire l’ingovernabile di cui Trump vuol rappresentare un esempio. Si crea un dualismo istituzionale: mentre le strutture formali dello Stato (parlamento, ministeri) continuano a esistere, il potere reale risiede sempre più in reti informali di esperti, consulenti e agenzie con mandati speciali. Il sistema sviluppa una classe di manager della crisi (crisis managers) il cui rilievo, budget e potere sono direttamente proporzionali alla perpetuazione dello stato d’emergenza.
Si tratta, così, di reti che hanno un incentivo strutturale a normalizzare l’anormale e a patologizzare il normale. Qui, la quarantennale esperienza italiana dei commissari all’emergenza ha prodotto uno sterminato campionario di esempi antropologicamente validi. Nel nostro mondo è nato un vero e proprio un complesso industriale della resilienza: aziende di cybersecurity, consulenti di risk management e contractor per l’emergenza diventano lobbisti per politiche che garantiscano la domanda perpetua dei loro servizi.
Le leggi “temporanee” d’emergenza diventano strati permanenti dell’ordinamento giuridico. Si irrobustisce un diritto parallelo (emergency law) che coesiste con quello ordinario, più flessibile. L’iper-focalizzazione sulla gestione dell’immediato (il “buzz” delle crisi) atrofizza la pianificazione a lungo termine. Lo stato perde la capacità di immaginare e costruire futuri alternativi, diventando solo uno strumento reattivo che reagisce solo a un complesso limitato di stimoli. La memoria istituzionale si accorcia: ogni crisi sembra senza precedenti, cancellando le lezioni del passato e favorendo soluzioni improvvisate e caotiche che producono nuove crisi.
D. Il prezzo politico del controllo: La necessità di difendersi da un nemico invisibile e onnipresente (come richiesto dall’interdipendenza armata) richiede una maggiore sorveglianza interna e un controllo pubblico-privato sui flussi di informazione e dati. Quali sono le conseguenze per la vita sociale e politica di un paese?
R. Il prezzo politico più alto è la trasformazione della cittadinanza da fonte di sovranità a soggetto monitorato. Si ottiene (forse) una società più controllabile, ma certamente una nazione meno libera, meno innovativa e, di conseguenza, nel lungo periodo, meno capace di resistere a quelle stesse minacce ibride che il controllo dovrebbe debellare. Di conseguenza, abbiamo la militarizzazione del discorso politico: i partiti competono non su visioni diverse di società, ma su chi è più duro con le minacce ibride (il tema è stato importato anche in Italia).
La politica estera e di sicurezza diventa il campo dominante e scompaiono le questioni di giustizia sociale, ambiente, cultura. L’opposizione politica viene sistematicamente associata a rischi di sicurezza (“sono morbidi con il nemico”, “le loro proposte giocano a favore di Putin”). Il gioco democratico si trasforma in una lotta tra “patrioti” e “potenziali traditori”.
L’ascesa di un Deep State viene legittimata: gli apparati di sicurezza (agenzie d’intelligence, unità cyber) acquisiscono un’influenza politica diretta senza precedenti. La loro competenza tecnica li rende immuni alla sfida democratica (“non puoi capire, è classificato”) mentre le piattaforme AI utilizzate per la sorveglianza sociale sono le stesse che si sono addestrate sul fronte ucraino o a Gaza. Qualsiasi soggetto elettorale progressista che accetta questo scenario può benissimo vincere le elezioni: sarà, nel migliore dei casi, un governo risucchiato in una dimensione, vasta, altamente complessa, fenomenologicamente superiore, di fascismo molecolare rispetto alla quale non riuscirà nemmeno a salvare le forme.








































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