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I comunisti, la politica e la classe. Fare i conti con passato e futuro

di Mauro Casadio*

Burani belloLa decisione del PRC di non partecipare alle elezioni di Potere al Popolo sullo Statuto, presa la sera prima della consultazione online, ci sembra sia stata una scelta errata e da un certo punto di vista incomprensibile. Un pronunciamento politico degli aderenti ad una forza, in cui il PRC ha evidentemente un peso notevole, non può portare ad una crisi e ad una spaccatura politica se si condividono i fini del progetto avviato un anno fa con l’assemblea del Teatro Italia.

Probabilmente è su questi fini che bisogna tornare a ragionare, per capire cosa è accaduto, al di là del clima conflittuale e del delirio sui Social, che si dimostrano essere sempre più un elemento dannoso di confusione dove l’opinione personale, cioè l’individualismo spinto, travolge ogni capacità di analisi raziocinante della difficile realtà con la quale tutti noi dobbiamo fare i conti, fuori dalla virtualità di quel mondo.

In questo frangente contraddittorio, prodotto da una trasformazione radicale delle condizioni generali in cui operiamo, sentiamo spesso nei ragionamenti fare riferimento alla questione dell’unità, che è certamente un elemento importante, in quanto non ci si può certo augurare la frammentazione. Una questione, l’unità, che nella storia della sinistra in Italia a partire dagli anni ’70 ha accompagnato (casualmente?) il declino della sinistra stessa fino all’attuale condizione, che non dipende certo dalle divergenze interne a PaP. Tale constatazione, evidente agli occhi di tutti, ci porta alla conclusione che non possiamo scindere la questione dell’unità necessaria dai contenuti che non sono “divisivi”, come oggi va di moda dire, ma che essa è il prodotto di determinate visioni della realtà, delle sue dinamiche e delle prospettive con cui ci si intende misurare.

In questa sede però non vogliamo riproporre i nodi che hanno fatto emergere le contraddizioni esistenti dentro PaP, dal giudizio sulla sinistra all’Unione Europea fino alla questione sindacale, ma vogliamo dare una chiave di lettura dal punto di vista del ruolo che i comunisti dovrebbero avere nel nostro paese, e più precisamente in un paese collocato in un polo imperialista come quello europeo, impegnato direttamente nella competizione globale.

 

Il partito non può diventare un feticcio

Per comprendere la condizione che oggi vivono i comunisti va delineato necessariamente un percorso storico che ha segnato i caratteri, gli sviluppi e le involuzioni dello strumento “partito” nel nostro paese. Questo è stato caratterizzato dal secondo dopoguerra come partito di massa prodotto dalla lotta di classe internazionale e dalla lotta contro il nazifascismo, nella quale si caratterizzò, invece, come organizzazione di quadri militanti e, ad un certo punto, anche militari.

Certamente si può criticare Togliatti ed il PCI di quei decenni, dopo la svolta di Salerno, sulle sue tendenze “revisioniste”, come si diceva all’epoca, ma non si può ritenere che quel partito non abbia avuto una funzione storica positiva nel nostro paese per l’emancipazione della classe operaia e dei ceti subalterni. Le forme adottate da quel partito in quel frangente storico hanno saputo rappresentare ed intercettare gli interessi di classe con una capacità di modellare e far evolvere l’organizzazione attorno a questi, dai lavoratori della grande fabbrica in espansione ai braccianti e contadini fino alla questione dei ceti medi.

La crescita elettorale, ma soprattutto lo sviluppo del rapporto di massa tramite la Cgil, le cooperative, le case del popolo, i comitati di quartiere e le varie forme di associazionismo, erano il prodotto di una analisi del contesto internazionale ed economico (chi si ricorda del boom degli anni 60 che cambiò il paese?) e della rapida modifica delle forme che la classe andava assumendo in quel contesto. Insomma il partito comunista di massa, inteso come un determinato rapporto con la classe, più che come mero dato quantitativo, in quei decenni ha svolto un’importante funzione storica i cui effetti materiali si sono riprodotti nei decenni successivi.

Il cambiamento per il PCI c’è stato negli anni ’70, epoca di grandi rotture rivoluzionarie a livello mondiale. In quel periodo quel partito si è trasformato da corpo vivo radicato nella società a “feticcio”, e talvolta anche in “clava”, come ad esempio nello scontro frontale portato contro quella che era divenuta dopo il ’68 la sinistra extraparlamentare, o rivoluzionaria. Quel conflitto frontale evidenziò l’irrigidimento politico di quel tipo di struttura, ormai non più capace di essere in sintonia con i profondi cambiamenti che stavano maturando nel mondo giovanile e nella società, divenendo subalterna alla sola dimensione istituzionale e statuale.

All’epoca questo cambiamento strategico non era evidente, mentre era molto evidente la modifica di linea politica sulle questioni generali: dal governo di unità nazionale con la DC alla svolta sindacale dell’EUR, fino al “farsi Stato” dentro una fase di crisi sociale. In altre parole, di fronte al mutamento che si è manifestato prima negli anni ’70 e poi con più forza negli anni ’80, il Pci ha prodotto non solo un ripiegamento strategico, riflesso naturale anche della crisi internazionale del movimento comunista, ma soprattutto un gruppo dirigente che aveva abbandonato la relazione, analitica e pratica, con la classe in via di trasformazione.

Per tutti gli anni ’80 il carattere di feticcio del partito si è rafforzato; e se dentro la crisi dell’URSS è stato messo in discussione dalla svolta occhettiana, che portò alla nascita di Rifondazione Comunista, ne è stato, invece, la sola base materiale ed identitaria che ne ha garantito la continuità. Questo inaridimento teorico e politico ha rimosso definitivamente ogni capacità di analisi della società, ormai immersa in una trasformazione accelerata, e la stessa capacità di radicamento in quella inedita condizione. Rimase in piedi cosi la sola eredità elettorale, che ha permesso ai vari ceti dirigenti di quel partito, succedutisi nel corso di quasi un ventennio, di usare un capitale di rappresentanza istituzionale che si è via via logorato fino all’attuale condizione di superfluità.

L’ubriacatura massmediatica ed elettoralistica del bertinottismo, negli anni ’90 sino agli inizi del 2000, sta lì a documentare esattamente quel feticismo dello strumento che all’epoca si sovrappose al culto della personalità. Molti ricordano, almeno quelli che c’erano, la ridicola richiesta di autografi a Bertinotti, antesignani dei renziani selfie, durante le manifestazioni. Nel successo elettorale del tempo e nel politicismo imperante si è avuta sul piano del rapporto di massa, dalla Cgil all’associazionismo vario legato al Pds/Ds/Pd, una subalternità politica completa in cui sono stati fatti deperire e modificare gradualmente tutti gli strumenti di relazione di massa, tanto che ancora oggi la Cgil è ritenuta l’ambito di “classe” privilegiato in cui operare contro ogni evidenza palese.

 

Le conseguenze delle modifiche nella composizione di classe

Quello che sta accadendo oggi è dunque conseguenza diretta di quella evoluzione che ha portato alla crisi definitiva della sinistra e all’affermazione nel nostro blocco sociale di riferimento di forze quali il M5S e la stessa Lega, i quali stanno facendo maturare un movimento reazionario di massa nelle forme a noi tutti note.

Allora la domanda che si pone con forza, a nostro avviso, è se il partito comunista a carattere di massa, quando addirittura non è più nemmeno quantitativamente di massa, abbia ancora una funzione positiva. Questa domanda la vogliamo rivolgere direttamente alle compagne ed ai compagni del PRC, ma anche del PCI, con i quali in questo ultimo anno abbiamo fatto percorsi unitari dentro Potere al Popolo, anche se talvolta complicati e contraddittori. Ma questa stessa domanda, se è particolarmente pressante per i comunisti del nostro paese, in qualche modo va posta anche per i partiti e le formazioni che operano negli altri paesi che stanno trainando la costruzione imperialista dell’Unione Europea.

La risposta che da tempo abbiamo dato, come Rete dei Comunisti, sull’adeguatezza del partito comunista di massa è decisamente negativa. I motivi non risiedono in un nostro particolare posizionamento politico, ma nel grande balzo avuto nello sviluppo delle forze produttive e negli effetti che questo ha prodotto nella composizione di classe e sociale. Come ben sappiamo, la disgregazione della classe nasce proprio da questa evoluzione complessiva del capitalismo, ma è stata aggravata dalla incapacità dei comunisti (“la sinistra”, oggi, non si sa più cosa sia esattamente) di tenere testa con una ipotesi di organizzazione di classe adeguata alle trasformazioni sociali intervenute materialmente e ideologicamente nella classe, la cui parabola abbiamo sopra cercato di rappresentare sinteticamente.

Ci si è limitati infatti alla liturgia sindacale cigiellina, movimentista, politicista di un partito (non più) di massa che oggi non può che riproporre la politica delle “alleanze” a sinistra come placebo per una sconfitta che non si sa come affrontare. Questa incapacità non solo ha prodotto nel tempo il ridimensionamento del conflitto di classe, ma ha lasciato spazio nel nostro blocco sociale a forme ideologiche, localiste, individualiste, razziste, che ora ci si presentano come una ulteriore barriera “immateriale” alla ricomposizione.

 

Potere al Popolo ha accentuato contraddizioni già esistenti

Ed è esattamente su questo crinale strategico che si è manifestata la vera contraddizione dentro PaP sulla vicenda dello Statuto. Chi pensa, infatti, che esistano ancora forze organizzate, coerentemente di classe e democratiche, non subalterne alla finanza, si pone come obiettivo prioritario per modificare i rapporti di forza attuali la costruzione di un fronte, ovvero individuare le forme giuste delle alleanze politiche per invertire la tendenza. In questa logica, che ha ovviamente piena legittimità, PaP non poteva che essere un pezzo del “puzzle” della sinistra esistente su cui costruire una proposta. Questa ipotesi, che nei documenti del PRC si è poi concretizzata nel cosiddetto “quarto polo”, non poteva che concepire, di conseguenza, una coerente ipotesi statutaria alternativa all’altra ipotesi che intende invece dare a Pap una propria e piena soggettività politica.

Chi si è posizionato sul primo statuto ha pensato, diversamente dal Prc, che bisognava procedere su un percorso di ricostruzione delle forze antagoniste, distrutte proprio dalla “sinistra”, un percorso sicuramente molto più complesso, radicato direttamente nel blocco sociale e promotore del conflitto di classe, politico, sindacale e sociale, nelle molteplici forme in cui questo oggi si manifesta.

Un conflitto sulle questioni del lavoro come quelle ambientali, da quelle di genere a quelle democratiche, ma avendo sempre come obiettivo di fondo la ricostruzione, in un percorso processuale e sperimentale non breve, di quel tessuto connettivo che è l’unico in grado di restituire rapporti di forza perduti e coscienza di classe, a condizione che sia basato sulla indipendenza politica e fuori dal “mito” della sinistra come dato preliminare per un processo organizzativo e, dunque, anche statutario. Questo ragionamento non prevede il rifiuto di alleanze, sempre da valutare nei contenuti e nei passaggi politici che si porranno anche sul piano elettorale, ma deve sapere che le alleanze, per funzionare nella direzione scelta, devono avere una base radicata nella società.

Tornando alla questione della funzione dell’organizzazione comunista, che abbiamo posto all’inizio dell’articolo, è evidente che se la prima ipotesi “giustifica” ancora una logica di partito di massa, la seconda, sicuramente più dura e difficile ma per noi più reale, implica una capacità di intervento e di organizzazione del blocco sociale che non può essere svolta da un partito ancora basato su una “fisiologia” classica, caratterizzata dalla vita di sezione, dai riti formali di strutture uguali a se stesse nei decenni, dal flusso delle scadenze elettorali che hanno un carattere annuale e che, inevitabilmente, assorbono tutte le energie mentali e materiali dei militanti in scadenze contingenti che impediscono strutturalmente ogni visione di più lungo periodo ed una corrispondente formazione politico-teorica.

Dunque, quello che è stato rimesso in discussione dalla storia degli ultimi venti anni è il modo con cui i comunisti debbono affrontare una fase nuova ed inedita, dove la forma organizzata non può che essere, a nostro avviso, quella del partito di quadri militanti con funzione di massa, nel senso di costruire una solida capacità di radicamento sociale ritrovando quella vitale relazione con la classe ormai persa. Tutto ciò con la consapevolezza di avere di fronte una classe passata dentro il “tritacarne” della riorganizzazione produttiva, sociale ed ideologica del capitale, che ci si presenta con forme del tutto nuove e da capire nelle dinamiche che ancora stanno producendo ulteriori mutazioni. In altre parole, se un processo di ricomposizione non viene prodotto dalle condizioni oggettive, non può che essere determinato da una soggettività progettuale, strutturata e militante.

Pensare che questo spessore storico delle questioni possa essere affrontato dall’identitarismo, ideologico o elettorale, è un errore in quanto la rottura avuta alla fine del ‘900 non può non avere effetti sulle forme, sui modi e sui caratteri dell’organizzazione dei comunisti. Questo piano di analisi e di elaborazione teorica diviene ancora più credibile e necessario, di fronte ad una rinnovata crisi sistemica del capitale che sta rimettendo in discussione la “fine della storia” che ci aveva raccontato l’egemonia borghese ed alla quale molti dei “nostri” sembrano aver creduto.


*Rete dei Comunisti

(il quadro in copertina è di Paolo Burani)

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