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ospite ingrato

Dopo il disastro

Note su A Sinistra di Giorgio Cesarale

di Marco Gatto

giorgio cesarale a sinistra laterza recensioneI.

Al lettore italiano mancava una sintesi puntuale delle traiettorie teoriche in campo a sinistra. Non mi riferisco a semplici mappe da fruire per uno sterile aggiornamento disciplinare, ma a un tentativo molto complesso di restituzione di un universo filosofico e critico assai vario, la cui multiformità è essa stessa un problema su cui interrogarsi. Giorgio Cesarale, nel suo A Sinistra. Il pensiero critico dopo il 1989 (Roma-Bari, Laterza, 2019), lo fa con grande acume e propone una chiave di lettura assai netta, suggerendoci in che modo interpretare i percorsi della riflessione radicale più recente.

Prima di illustrare la prospettiva messa in campo dall’autore, mi permetto di indugiare sullo stato dell’arte. Più di un decennio fa, uno studioso brillante come Göran Therborn, in un libro dilemmatico dal titolo From Marxism to Post-Marxism?,1 aggiornava le tesi storiografiche di Perry Anderson (il cui noto resoconto de Il dibattito nel marxismo occidentale, datato 1977, rappresentava un tentativo di analizzare il grande turning point che avrebbe condotto alla crisi politica del marxismo) e constatava che il pensiero critico di matrice materialistica stava approssimandosi a una fase di mutazione molto consistente, nel corso della quale avrebbe interrogato la sua effettiva validità interpretativa. In Therborn poteva leggersi, fra le righe, la convinzione che il post-marxismo (ormai divenuto l’involucro del pensiero antagonistico tout court) si fosse ormai arreso all’evidenza di una postmodernità che ne aveva trasformato le modalità analitiche, relegandolo a una delle infinite possibili ermeneutiche del contemporaneo. E, in effetti, se il marxismo tradizionale è divenuto una sorta di “bene culturale” da conservare nei manuali di filosofia, la tradizione novecentesca – chiamiamola pure del marxismo occidentale – ha impresso una spinta a questa sterilizzazione politica, conducendo spesso il discorso politico verso ambiti assai ristretti, a volte solo e soltanto culturali.

Ciò pone una prima e importante questione, che riguarda il concetto stesso di “cultura” in un mondo, quello odierno, che si costituisce attraverso un rinvigorirsi del registro simbolico entro tutte le sue articolazioni. La sensazione diffusa di una crisi generale del sapere sta forse in questa particolare dialettica che viene a crearsi nell’orizzonte postmoderno: la “cultura-mondo”, per dirla con Lipovetsky e Serroy, è sì il sistema delle rappresentazioni attraverso cui pensare la realtà – e quindi, potenzialmente, il luogo in cui la critica viene a svilupparsi –, ma è anche il mezzo privilegiato attraverso cui il capitalismo finanziario, immateriale e simbolico – o, per dirla con Marx, l’astrazione capitalistica nella sua fase più estrema – dispiega se stesso attraversando tutti i segmenti della realtà ordinaria. Cosicché il momento di autocoscienza della teoria si esaurisce nel diagnosticare, in modi sempre diversi, il grado di compromissione (e di addomesticamento) cui l’elaborazione concettuale si consegna allorché diventa discorso culturale. Voglio dire che esiste una pervasività capitalistica nella teoria. Essa determina, in molti casi – e solo apparentemente si tratta di un paradosso –, una piena gestione e amministrazione del pensiero radicale e delle sue posture critico-oppositive. Alle quali, come oggi accade, è riservato un piccolo spazio nel mercato del risentimento e della negazione. Con il rischio di essere fin troppo sintetici, si potrebbe dire che esiste un pensiero radicale inconsapevolmente neoliberale e che la realizzazione di questo ossimoro concettuale privo di contraddizione risiede nella capacità che l’astratto capitalistico ha di penetrare nei nessi più profondi di pensiero, nei moduli di interrogazione e analisi, nelle vestigia della teoria.

 

II.

Questa modalità di penetrazione pervasiva ha un effetto che è consustanziale alla natura superficiale di molti discorsi critici: l’estroflessione del concetto, ossia l’egemonia acquisita da un pensiero del fuori rispetto a un pensiero del dentro. Lo spiega bene Cesarale – ed è la tesi che regge l’impianto della sua mappatura: da un esame delle recenti posizioni teoriche, pur nella loro legittima diversità, si può ricavare «l’impressione che si sia soprattutto imposta una domanda sul rapporto della nostra realtà […] con ciò che la delimita, con i suoi confini, con il suo “esterno costitutivo”. La domanda su come plasmare concretamente e internamente l’ordine, che ha dominato il Novecento sia sul piano economico (meglio il capitalismo o il socialismo?) sia sul piano politico (democrazia liberale o no?), ha ceduto il passo a una interrogazione che esplora il bordo esterno dell’organizzazione sociale, la separazione da quell’esteriorità che, pur non essendo direttamente implicata nella costruzione dell’ordine, ne rende possibile la stabilizzazione» (p. XI). Questa estroflessione del pensiero – che forse ha una sua epifania in un sintomo ricorrente: la forma ostensiva acquisita dal concetto nel suo presentarsi e rivelarsi al pubblico della filosofia e del cosiddetto sapere critico – produce una dipendenza dall’oggetto di indagine che implica la rinuncia a una sua comprensione integrale. Per dire, cioè, che la tendenza a interrogare solo l’esterno di un fenomeno presuppone l’accettazione di una forma separata o parziale di analisi e conoscenza di quest’ultimo. È forse questo il motivo per cui, in virtù di una tendenza a ripartire gli ambiti di interesse, il pensiero critico preso in esame da Cesarale esibisce la sua incontestabile varietà. I pensatori considerati – da Arrighi, Wallerstein, Agamben, Negri, fino a Jameson, Badiou, Zizek, Spivak, Gilroy, Fraser – inscenano un pluralismo che va interrogato a fondo. Cesarale ne mostra anzitutto la valenza dialettica: se, da un lato, la multiformità è l’esito di un tracollo che possiamo individuare nella crisi del concetto di totalità e, probabilmente, in una modalità di pensiero che ha sancito l’egemonia della decostruzione sulle lyotardiane “grandi narrazioni” o, più in generale, il successo della riflessione sul potere di area francese (mi riferisco agli insopportabili volgarizzamenti di Foucault), dall’altro, essa rispecchia, spesso come proiezione utopica, la necessità che la relazione tra dentro e fuori, tra interno ed esterno, tra inclusione ed esclusione, si rompa per mezzo di «un profondo rimaneggiamento della nostra forma di vita» (p. XII), con chiaro riferimento a un’espressione che è stata acquisita anche dai teorici contemporanei di derivazione francofortese (penso, in particolare, a Jaeggi).

 

III.

Ma il punto è capire quale strada intraprendere per giungere a una così radicale presa di posizione, senza che assuma tratti esclusivamente letterari. Mi pare che Cesarale, nelle dense pagine introduttive, colga un elemento essenziale: l’estroflessione del pensiero o l’interrogazione del solo bordo esterno si lega inestricabilmente a una sorta di slittamento, spesso entusiastico, verso un’idea non meglio verificata (e, per certi versi, quasi metastorica) di contingenza o di immanenza – il solo terreno, per alcuni, su cui varrebbe la pena opporsi in tempo reale al dominio –, che produce una rinuncia a una comprensione piena, sia verticale che orizzontale, dei rapporti sociali, spostando ad esempio l’analisi di classe nella direzione delle politiche dell’identità o del riconoscimento. Non si tratta di vedere in questo spostamento solo e soltanto la piena manifestazione di una raggiunta passività politica. Bensì di comprendere in che modo lo scivolamento verso certe forme di interrogazione sia legato al rapporto che esse intrattengono con l’oggetto di analisi (e se questo oggetto sia colto o meno in tutta la sua complessità). Da un lato, l’immanentismo deleuziano, declinato in forme anticapitalistiche, appare (o vuole apparire) fin troppo simultaneamente interno a ciò che vorrebbe contestare – dal momento che il soggetto desiderante si confonde, spesso in modo euforico, con la soggettività messa in campo dal capitalismo –, cosicché la critica sembra vivere il paradosso di nutrirsi del suo oggetto, dal quale diventa dipendente (si veda, a tal proposito, la risemantizzazione del concetto di “autonomia” nei percorsi che vanno dall’operaismo al post-operaismo più recente); da un altro, il modello critico che aggredisce dall’esterno un ordine pensato come riformabile non sufficientemente sembra porsi le ambiguità di tale operazione e restituisce un’immagine forse troppo pacificata dei conflitti e del capitalismo stesso (si veda la lettura che Cesarale fa dell’approccio di Boltanski e Chiapello, nella cui proposta la critica «si innesta sullo spirito del capitalismo e, in certe condizioni, anche sul meccanismo interno dello stesso, per trasformarli»: p. 43). I due atteggiamenti vanno però colti alla luce di quella dialettica tra inclusione ed esclusione di cui si parlava, in un orizzonte più ampio. Entrambi articolano una modalità di comprensione che resta comunque fedele a una nozione di contingenza che sovente scivola nel particolarismo o nella rinuncia ad una totalizzazione più vasta. Aspetti che rientrano nella capacità che l’assetto capitalistico contemporaneo ha di scardinare, a livello, diremmo, sistemico, quelle precondizioni filosofiche che rendono possibile un orientamento critico-negativo. L’impressione è, a conti fatti, che vi sia una bolla teorica che spesso resta un passo indietro rispetto al riconoscimento di un quadro più generale entro cui muoversi.

 

IV.

Questo quadro complessivo può essere riassunto, seguendo le indicazioni di Cesarale, in più punti (che rispondono a problemi d’ordine storico da discutere e ridiscutere). La forma e la sostanza del pensiero critico contemporaneo vanno comprese entro contorni epocali, che certificano fenomeni di ampio respiro come «la dissociazione del capitale dalla borghesia, o meglio la piena sussunzione di quest’ultima sotto il primo, onde ciò che si eclissa è, da un lato, la possibilità di trasformare, nel contesto occidentale, la classe dominante in una classe dirigente con precise responsabilità “civili” e, dall’altro, nei paesi del Sud-Est asiatico, la tradizionale difficoltà a forgiare una classe votata all’accumulazione di capitale»; come «la fine dell’universalismo ancorato nei poteri della ragione “europea”, illuministica, trascendentale, dialettica e il suo riemergere – grazie alla globalizzazione del mercato dei beni, della forza-lavoro e dei capitali – in forma neoliberista, come imposizione, in tutti i gangli della divisione sociale del lavoro, di standard internazionali di comportamento e produttività»; e come l’ascesa del populismo e del fanatismo etnico-religioso, cui si collega la deriva neo-securitaria di molti paesi europei; come il sostanziale «regresso del regime democratico, il quale non è più considerato omogeneo all’articolazione del dissenso organizzato e di massa, ma solo di quello individuale, protetto da una rete di garanzie il cui valore appare fondato più su una matrice metastorica (i “diritti umani”) che su rapporti concretie conflittuali di riconoscimento» (pp. X-XI). Se si perde questo sfondo disastroso, non è possibile interrogarsi sul grado di autocoscienza dei percorsi teorici, sulla qualità del loro legame con il contesto che, in un verso o nell’altro, ne rende possibile l’emersione.

Si potrebbe dire che il quadro è caratterizzato da un più accentuato dinamismo, dal momento che la circolazione dei discorsi teorici ha subito impensabili accelerazioni. Il disorientamento che si accompagna a ogni possibile presa di posizione non è solo il segno di una generale liquidazione dei criteri di senso che avevano caratterizzato il moderno, ma anche una proprietà costante (antropologica, sociale, politica) delle posture intellettuali, perlomeno in Occidente, che rende molto difficile il lavoro di potenziamento di nuove impalcature concettuali, di nuovi spunti, di nuovi margini di costruzione filosofica. Per dire, cioè, che il pensiero critico si pone anche e soprattutto all’interno di un sistema di articolazione delle proposte culturali che rende preferenziali ed egemoni certe tendenze, certe modalità di analisi. Pertanto, la coscienza di una dialettica più profonda tra l’interno del pensiero e la sua presenza in un mondo-culturale che della superficializzazione delle istanze concettuali e dell’esteriorizzazione delle pratiche simboliche fa il suo credo risulta essere il terreno o il banco di prova di quelle filosofie che intendano inaugurare reali percorsi di rottura con l’ordine esistente. A conferma del fatto che il peso raggiunto dall’astrazione capitalistica realizza ciò che solo formalmente è un paradosso: all’approfondimento del dominio corrisponde la leggerezza delle proposte simboliche, perché l’inasprirsi del conflitto e il raggiungimento di quote sempre più sostanziali di usurpazione in ragione del profitto, insieme alle nuove forme di alienazione della contemporaneità, vengono coperte, nascoste dalla leggiadra volatilità della “cultura”, oggi non solo divenuta la seconda pelle dell’individuo postmoderno, ma lo strumento di produzione soggettiva più agguerrito messo in campo dal capitale. Come difendersi da questo assedio?

 

V.

Se guardiamo all’ultimo quarantennio, il declino del marxismo e delle filosofie sociali, accanto ad una sempre più ovvia inefficacia politica, ha spesso generato forme di compensazione iperteorica. Le resistenze sono diventate prodotti, per dirla con Günther Anders. E se questo adagio viene smentito da chi vede nella teoria una pratica politica irrinunciabile, salvo poi insistere su un salvifico rinvio alla prassi, più concepito come salvacondotto intellettuale che come inevitabile conseguenza di una posizione, è bene dire che il pensiero radicale dovrà probabilmente accedere a un ripensamento complessivo delle sue forme e dei suoi modi di interrogare la realtà capitalistica. Dalla quale, talora, sembra essere inconsapevolmente sedotto. Un esercizio di mappatura, che è anche il primo passo per una ricognizione autocritica, rappresenta, pertanto, più di una necessità, in tempi di evidente difficoltà per chi concepisca ancora la lotta politica come processo di emancipazione dal dominio capitalistico.


Considerata la mole di teorici studiati da Cesarale, si propone al lettore una bibliografia essenziale di alcuni autori interessati:
G. Arrighi, Il lungo xx secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo [1994], Milano, Net, 2003.
Id., Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo [2007], Milano, Feltrinelli, 2008.
L. Boltanski, È. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo [1999], Milano, Mimesis, 2014.
J. Butler, Corpi che contano. I limiti discorsivi del “sesso” [1993], Milano, Feltrinelli, 1996.
W. Brown, La politica fuori dalla storia [2001], Roma-Bari, Laterza, 2012.
N. Fraser, Fortune del femminismo. Dal capitalismo regolato dallo Stato alla crisi neoliberista[2013], Verona, ombre corte, 2014.
P. Gilroy, The Black Atlantic. L’identità nera tra modernità e doppia coscienza [1993], Roma, Meltemi, 2003.
F. Jameson, Valences of the Dialectic, London-New York, Verso, 2009.
D. Harvey, La crisi della modernità. Riflessioni sulle origini del presente [1989], Milano, Il Saggiatore, 2002.
Id., La guerra perpetua: analisi del nuovo imperialismo [2003], Milano, Il Saggiatore, 2006.
Id., L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza [2010], Milano, Feltrinelli, 2011.
A. Mbembe, Critique de la raison nègre, Paris, La Découverte, 2015.
M. Postone, Time, Labor, and Social Domination. A Reinterpretation of Marx’s Critical Theory, Cambridge, Cambridge University Press, 1993.
W. Streeck, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Milano, Feltrinelli, 2013.
Id., How Will Capitalism End? Essays on a Falling System, London-New York, Verso, 2016.
I. Wallerstein, Capitalismo storico [1983], Torino, Einaudi, 1985
Id., Alla scoperta del sistema-mondo [2000], Roma, manifestolibri, 2003.

Note
1 G. Therborn, From Marxism to Post-Marxism?, London & New York, Verso, 2008.

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