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cumpanis

“L’essenza, per le fondamenta”. Intervista a Bruno Casati

Dallo scioglimento del PCI all'attuale crisi del movimento comunista italiano

di Bruno Casati*

“Cumpanis” ha posto a Bruno Casati, come ad ogni altro interlocutore/interlocutrice di questo Speciale, “L’essenza, per le fondamenta”, alcune domande, le cui risposte l’Autore ha preferito sintetizzare in questo unico testo

Immagine primo editoriale Interviste Bruno CasatiNegli anni ’80, e men che meno nel decennio precedente, non si ebbe mai la percezione della gravità che, nel PCI, andava ad assumere un doppio fenomeno. Il primo dato dai riformisti che, ancora con Berlinguer vivente, conquistano la maggioranza nella Direzione e nella Segreteria Nazionale del Partito, tanto che Berlinguer opera la “seconda svolta di Salerno”, con cui recupera il rapporto che si era allentato con la base comunista, forzando le regole del centralismo democratico e solo così aggirando il dissenso della Direzione.

Il secondo fenomeno si configura nel manifestarsi, cautamente all’inizio, di una nuova generazione di comunisti. È la leva dei giovani della FGCI degli anni Sessanta che, nell’80, diventati quarantenni alzano la testa. È la loro la prima generazione che non può, ovviamente, disporre del “cursus honorum” dei precedenti gruppi dirigenti del PCI: i fondatori di Livorno, i quadri della clandestinità, poi della Spagna, della Resistenza, del “partito nuovo” di Togliatti e, infine, della “via italiana al socialismo”.

I giovani della FGCI del Sessanta sono, invece, entrati direttamente negli apparati del partito dopo qualche anno di università, taluni, senza aver mai diretto, tutti, una lotta di fabbrica o di territorio. Però sono molto ambiziosi e si propongono di farsi largo nel partito, ma prima devono liberarsi dei padri. L’operazione rasenta l’impossibile fintanto che resta in campo Berlinguer, che avrà pure perso la maggioranza della Direzione ma resta l’ultimo grande dirigente per il quale si possa parlare di “sacralità del capo”. Pertanto, bisogna liberarsi di Berlinguer e della sua intransigenza che lo aveva portato sia alla critica frontale del craxismo che alla denuncia del malcostume interno al partito. I Riformisti filo craxiani che controllano la Direzione, la CGIL e alcune importanti federazioni come quella di Milano, sono d’accordo con i quarantenni rampanti e si apprestano cinicamente a usarli.

V’è da aggiungere che a fianco dei soggetti del doppio fenomeno, anche l’ala che dei primi anni Ottanta fa riferimento a un Armando Cossutta che, a malincuore, è dovuto scendere a patti con gli operaisti e i secchiani di Interstampa, dissente dalle forzature che Berlinguer ha impresso in politica internazionale, ma concorda con lui sui contenuti e le pratiche della “seconda svolta di Salerno”. Ma i riformisti di Napolitano, che hanno una prima linea aggressiva nei miglioristi milanesi di Gianni Cervetti, alleati con i quarantenni lanciati alla scalata delle Botteghe Oscure, circondano i cossuttiani con un muro dissuasivo. Ed è la storia degli ultimi congressi del PCI, di cui, anche nel centenario, non si deve parlare, perché si dovrebbe ragionare di un terzo scottante fenomeno: quello delle pratiche di autofinanziamento del partito.

Il terzo fenomeno è dato dai traffici in cui si è imbarcato il Partito da quando l’Unione Sovietica ha chiuso il rubinetto dei finanziamenti. È da allora che è stata messa a punto una raffinata strategia di auto finanziamento fondata, principalmente, sui grandi appalti delle opere che acquisiva la Lega delle Cooperative. Ecco: sono le Cooperative lo strumento principale di una operazione che consente al PCI di mantenere il ricco patrimonio delle sedi, mandare in edicola il quotidiano, promuovere le grandi e costose feste dell’Unità. Poi, in analogia, c’è la presenza parallela dei fidatissimi amministratori comunisti calati nelle aziende pubbliche, dall’Enel alle municipalizzate. Tutti operano allo stesso fine: l’assegnazione delle commesse con un ritorno per il Partito. Ovviamente, questa strategia richiedeva la formalizzazione di un patto d’acciaio con i socialisti e i democristiani ed era il democristiano Gianstefano Frigerio il garante generale di un meccanismo raffinato. Ed è sul meccanismo che si concentrò la critica di un Berlinguer che per i riformisti del PCI era diventato un ostacolo frapposto alla loro modernità. In pratica con questo meccanismo le cooperative sostituivano il rublo.

Tutto però salta quando i mercati diventano internazionali ed è a questo punto che gli industriali cominciano a domandarsi perché mai debbano pagare tangenti ai partiti politici italiani che non hanno più la possibilità di incidere nell’assegnazione della committenza. È in questo preciso momento che interviene Di Pietro che avvia una stagione di processi ma, attenzione, i processi si aprono solo per i politici corruttori ma, quando tocca agli industriali corrotti, Di Pietro si toglie la toga ed esce di scena. Da allora, per il PCI, divenuto PDS, venuta a chiudersi la valvola della cooperazione, non si faranno più le grandi feste dell’Unità, lo storico quotidiano fondato da Gramsci si dovrà chiudere, la Federazione di Milano che si era ritagliata un sistema tutto suo al di fuori dalla cooperazione, dovrà vendere la sede, mentre alcuni suoi alti dirigenti passano con la loro modernità alla Compagnia delle Opere di Formigoni. Trascorsi trent’anni da allora su questo terzo fenomeno è calata la cortina del silenzio.

Questi fenomeni, intrecciandosi, fanno sì che quando cade Berlinguer su quel palco di Padova il PCI imploda e tutte le aree che si muovevano sommerse riemergano, ed il povero Natta, colpevole solo di essersi ammalato, viene liquidato in un battibaleno. I quarantenni, tolto Berlinguer, vanno all’assalto di un edificio costruito in decenni e decenni con le lotte e i sacrifici dei militanti, i riformisti lasciano loro il lavoro sporco, tanto prima o poi presenteranno il conto (e lo presenteranno per davvero). È in questo momento preciso che la battaglia delle idee per comporre anche nella pratica i primi tratti di un progetto di alternativa di società lascia il passo al pragmatismo di giornata che tutto riduce all’amministrazione del presente. È ovvio che questa svolta non richieda ricerca culturale in quanto ci si propone di gestire, al di là delle chiacchiere di Occhetto, gli imput che gli imprenditori e le banche trasmettono agli amministratori del presente. Quel che si prospetta non è una riscrittura, forse necessaria, del “partito nuovo” ma un nuovo partito, ed è la storia degli ultimi congressi del PCI in cui l’alternativa di sistema, in verità abbandonata da tempo, è sostituita dalla governabilità dell’esistente e, per la gestione politica, è introdotto il concetto di alternanza. Va da sé che nel nuovo partito sono allontanati quanti ancora si ritengono marxisti mentre vi si avvicinano i carrieristi, gli spregiudicati e, come in seguito si vedrà, anche qualche mascalzone. È in pochi mesi che i riformisti di Napolitano e Lama, con la Repubblica di Eugenio Scalfari alle spalle, pilotano i quarantenni di Occhetto, Petruccioli, Fassino, Veltroni, Mussi e D’Alema, nell’operazione di distruzione del capolavoro di Gramsci e Togliatti.

Oggi, di quella operazione restano solo le macerie e ricostruire dalle macerie è operazione complessa, già fallita nel tentativo di Rifondazione Comunista. È difficile se non impossibile, almeno nel presente, già attrezzare un nucleo coeso di quadri calati nei nodi di questa società in cui il capitalismo ha vinto anche perché, in Occidente, non ha trovato avversari. E oggi questo capitalismo, in forme inedite, controlla il progresso che procede con grandi balzi scientifici, e va studiato. A tal fine andrebbero chiamate a raccolta le intellettualità più curiose e tramite loro capire, con grande umiltà, i caratteri del “nuovo macchinismo” (intelligenza artificiale, nuovi materiali, informatica, industria 4.0) che continua a modificare in profondità l’organizzazione del lavoro che più non risponde alle regole del fordismo e taylorismo, ma richiede ancora il lavoro manuale, pur ridotto al 30% con l’attività cognitiva balzata al 70%. Va studiato il capitale, va studiato il lavoro. Se non lo si fa anche il teorico partito di quadri si allontana dalla costruzione di una politica di massa, si rende inutile rifugiandosi in dispute teoriche che lasciano la massa indifferente. Indispensabile, al fine del chiamare a raccolta le belle intelligenze, tenere attivi siti, riviste, centri culturali, alzare lo sguardo sul mondo e, soprattutto, ascoltare non chiudendosi ognuno nella propria piccola associazione che magari si autodefinisce partito. Associazioni-partiti che, oltretutto, a ogni scadenza elettorale non ricercano nemmeno di fare lista comune, quasi che la divisione convenga a piccoli leader che tutto sanno dei problemi di lontani paesi, più sono lontani più sanno, ma non conoscono i problemi di questo paese a partire dai problemi del lavoro e dei lavoratori. E qui ritorno al punto: o si riparte dalla nuova contraddizione capitale-lavoro o non si riparte affatto e si saltella sul posto.

Ma la contraddizione va indagata. Ora domandiamoci retoricamente: ci fu un momento in cui questo processo di disgregazione della sinistra poteva essere se non indagato almeno contenuto? Sì, forse ci fu quando divenne chiaro che il PCI stava fuoriuscendo dalla propria storia e una sua parte, allora non trascurabile, si apprestava a dar vita a una nuova formazione politica. La storia allora avrebbe preso un altro corso, e si sarebbe contenuto il vuoto determinato dalla scomparsa del PCI, se dirigenti politici prestigiosi come Tortorella e Chiarante (non Ingrao) invece di ritrarsi a bordo campo si fossero gettati nella nuova impresa. La storia, è vero, non si fa con i se però mi vien da pensare che una rifondazione con Tortorella e Chiarante e quanti a quel tempo guardavano a loro, avrebbe impresso ben altro carattere a un partito che doveva raccogliere e attualizzare i valori che il PCI abbandonava, forse anche impedendo che di questo partito in formazione si impadronissero quanti poi lo avrebbero smontato, da Cossutta a Bertinotti. Purtroppo le cose sono andate in tutt’altra direzione. Va pure detto che il processo di disgregazione del PCI si concluse nel disimpegno di centinaia di migliaia di iscritti. Va bene criticare Occhetto e Napolitano e pure Ingrao, ma gli iscritti dove sono, perché non parlano? È la stessa domanda che ci si pose quando venne sciolto il PCUS? Perché i comunisti russi non si ribellarono? Dove erano i compagni operai sovietici? La verità è che ben prima di Occhetto e Napolitano il PCI era cambiato al suo interno e gli ultimi congressi ne offrono uno spaccato drammatico. Al penultimo congresso del PCI votò solo ad esempio il 18% degli iscritti, cosa pensasse l’82% che non ha partecipato non parve interessare nessuno. All’ultimo congresso torna a vincere la mozione Occhetto con il 66% dei consensi di una platea congressuale che rappresenta solo un quinto degli iscritti. Analizzandola, questa platea, si capisce cos’è diventato il PCI: essa risulta infatti composta per poco meno della metà da funzionari a tempo pieno, tra loro ci sono i famosi cooperatori, per i quali il partito è direttamente o indirettamente datore di lavoro. Questa parte della platea vota al 90% la mozione della “ditta”. L’altra metà è composta da compagni che, finito il congresso, tornano alle loro attività in un ufficio, una scuola, una bottega artigiana o altro. È bastato che meno di un terzo di loro votasse Occhetto per portare al 66% la sua mozione e chiudere il PCI. In sintesi la platea dei funzionari pratica il consociativismo, la platea dei volontari enuncia l’opposizione e viene sconfitta.

Questi furono solo gli atti finali, la triste agonia di una lunga storia della quale il PCI era stato protagonista assoluto dalla Resistenza in poi. In questa grande storia ci sono state domande che non hanno avuto risposta. Perché, ad esempio, nel 1947 quando il PCI viene allontanato dal Governo non ci fu nessuna manifestazione? Va bene il timore di finire come in Grecia, ma tra la Grecia e il non fare niente ce ne corre. E poi la questione della “via italiana al socialismo”, lo straordinario documento votato all’Ottavo Congresso che indicava i tratti di una rivoluzione in occidente, che però non ebbe seguito alcuno, certo frenato da un accavallarsi di eventi, dai fatti d’Ungheria alle sconfitte della CGIL nelle elezioni delle commissioni interne. Eppure ci furono, dal luglio ‘60 alla vertenza degli elettromeccanici milanesi, occasioni non colte per fare dei passi su quella via. E ancora non si andò a sviluppare la presenza decisiva dello Stato nei settori trainanti della nostra economia dal carattere misto, la stessa FIAT, che in quegli anni metteva in produzione la “seicento” dovette la sua fortuna alla bontà di un progetto che fu realizzato con i lamierini d’acciaio a buon mercato dell’Italsider pubblica. L’economia mista italiana era o non era un elemento di socialismo così come la nazionalizzazione delle baronie elettriche private a partire dalla potente Edison? In quel tempo parallelamente la Jugoslavia, al di là dell’Adriatico, portava avanti una sua rivoluzione non sovietica con esperienze avanzate di economia autogestita e di amministrazione partecipata dal basso (Porto Alegre cinquant’anni dopo non ha inventato niente), esperienze che solo le bombe della NATO misero fine. Forse uno scambio di queste esperienze avrebbe aiutato il percorso della via italiana, anche se è difficile pensare che questa ricerca avrebbe trovato il consenso dell’Unione Sovietica. Ma la ricerca non fu mai tentata.

È interessante e insieme curioso rilevare come gli straordinari successi conseguiti dalla Cina e avviati ai tempi di Deng, fondino proprio su un modello di economia lontanissimo da quello sovietico della statalizzazione totale, dalla grande industria meccanica ai negozi di ferramenta, richiamino invece, fatto ovviamente salvo le dimensioni, il modello di economia mista con il quale l’Italia costruì dopo la guerra la propria ripresa economica. La Cina prosegue sulla sua via di “socialismo con caratteristiche cinesi” mentre l’Italia ha abbandonato il suo modello quando, soppressa l’IRI all’inizio degli anni Novanta, avviò una campagna devastante di privatizzazioni con l’appoggio, ovvio, del padronato e, meno ovvio forse, del neonato PDS che spiegava anche con questa scelta il perché il PCI era stato sciolto. E oggi nessuno, anche di sinistra ha il coraggio di dire che bisogna ritornare all’IRI. Ma questo è anche il terreno su cui bisognerebbe muoverci se si vuol recuperare il concetto e la pratica di alternativa di società e così fare in modo che formule abusate di “transizione ecologica” e “rivoluzione digitale” non diventino bandiere impugnate da quanti non hanno mai dismesso di fare pesante lotta di classe nei confronti dei ceti popolari. Solo così, uscendo dalla gabbia della sola amministrazione che sta legittimando alleanze in tutte le direzioni, può tornare a circolare un sentimento popolare di sinistra, una sinistra che oggi non ha simboli, non ha rappresentanza. Non è nei partiti ma, come “il popolo degli abissi” di Jack London è sciolta nella società. Questa sinistra va rintracciata, recuperata, ma chiede credibilità, idee forza.

In verità dopo il PCI ci fu un breve periodo in cui si seppero offrire, da quanti si erano ribellati alla scomparsa del Partito, frammenti di sinistra di alternativa che però non si composero in un progetto di alternativa di società. Furono questi i primi anni di Rifondazione Comunista. Poi entrò in scena Fausto Bertinotti. Lui era uscito dal “gorgo” del PDS, in cui era entrato seguendo Ingrao, solo dopo che Rifondazione aveva raccolto al primo voto politico un inaspettato 5,6%. Solo allora Bertinotti aveva aderito al nuovo partito e Armando Cossutta aveva investito su di lui come segretario.

In verità, quando Cossutta lo impose alla guida del partito al posto di Sergio Garavini, alcuni compagni storici che provenivano dal PCI, come Guido Cappelloni e il milanese Giuseppe Sacchi, si dissociarono. Gli anziani riconoscevano in lui il movimentista che, con “Essere Sindacato”, riempiva le piazze ma, aggiungevano: “lui non ci dà garanzie, non è comunista”. Cossutta respinse l’accusa con durezza e in molti, compreso chi scrive, si trovarono d’accordo con lui. Bertinotti divenne così il segretario del PRC al Secondo Congresso. All’epoca, Cossutta accarezzava un suo progetto di direzione del Partito a tre teste: quella appunto di Bertinotti, l’affabulatore colto ed elegante da esibire nei salotti televisivi, e lui in effetti costituì un fenomeno mediatico per qualche tempo; quella di Lucio Magri, il raffinato analista politico di scuola togliattiana con un tocco di eresia ingraiana; e, infine, la sua di testa, quella dell’Armando, il saggio timoniere. Solo che Cossutta, uomo di apparato e di relazioni anche internazionali ad alto livello, aveva il suo limite, oltre che in materia economica, nella scelta degli uomini che lui voleva sempre e solo schierati ai suoi ordini come soldatini, che spremeva e poi abbandonava, come aveva già fatto con Gian Mario Cazzaniga, solo uno dei tanti. Questo approccio però non funzionò né con Magri, che abbandonò subito la nave, né con Bertinotti che addirittura gliela sottrasse. Percepito però il pericolo Cossutta avvicinò proprio quegli anziani che lui pochi anni prima aveva irriso quando avanzarono critica nei confronti della scelta di Bertinotti segretario, usando con disinvoltura lo stesso loro argomento: “lui non è comunista”. Troppo tardi vecchio Armando! Solo che Bertinotti la prima cosa che fece, liberatosi del Presidente, fu quella di attivare le procedure tese a liberarsi di quanti nel partito avevano le loro radici nel PCI e, in particolare, nell’area di Interstampa.

E così se ne andò a Livorno a dichiarare pubblicamente aperta una curiosa lotta allo “stalinismo” abbandonando una qualsivoglia ricerca di alternativa di società. Usò una storia chiusa sessant’anni prima da Togliatti per fini strumentali del presente. Bertinotti aveva allora la strada assolutamente spianata per recuperare la ricerca sulla via italiana al socialismo e ottenere il consenso del partito tutto e invece imboccò un vicolo chiuso nella ovvia indifferenza dei militanti ma con l’entusiasmo dei quattro trotzkisti di Livio Maitan e di quanti, non provenendo dal PCI ma da DP e dal PdUP, godevano nel vedere allontanati dei competitori. Ma così fece un frontale spaventoso con la realtà. Nacque allora il fenomeno del “Bertinottismo” che porterà in breve tempo Rifondazione alla scomparsa, tanto che quella formazione che oggi mantiene il vecchio nome e il vecchio simbolo considera il suo atto di nascita non a Rimini nel 1991 ma a Chianciano quando vent’anni dopo viene cacciato Bertinotti che aveva portato il partito all’esclusione dal Parlamento. Qui si chiuse infaustamente il bertinottismo che, decollato dopo la rottura con Cossutta, può essere inteso come ricerca ossessiva di eventi, di bei gesti dannunziani, di atti simbolici e provocazioni come quella di portare in Parlamento un domatore di tigri, atti che avrebbero dovuto spiegare un fine che non appariva mai, perché non era previsto: il bertinottismo viveva di solo presente. Fu così che Rifondazione passò dal sostegno al primo governo Prodi da cui uscì da sinistra (Prodi da buon democristiano si era rimangiata la promessa della riduzione dell’orario di lavoro), all’essere “nel e col movimento”, per rientrare da destra nel secondo governo Prodi, scambiando la resa di Rifondazione ridotta a forza ornamentale con la Presidenza della Camera per Bertinotti. Rifondazione esce così a pezzi da questa avventura e Bertinotti esce dalla politica attiva. Nessuno lo rimpiange, nemmeno la cordata di quei giovanotti senza arte né parte che lui aveva mandato a Genova con il casco e poi in Parlamento in giacca e cravatta.

Con questa odissea di scelte errate e grandi occasioni perdute alle nostre spalle, sono oggi diventate profonde le ragioni che ostacolano la ricostruzione di una soggettività antagonista. Ancora oggi è evidente che la crisi dei partiti è il segno tangibile della crisi della sinistra dove tutta la competizione politica si gioca solo sull’immagine che ognuno offre di sé nell’intento di sintonizzarsi sugli umori prevalenti del momento. Certamente era già andata in crisi la centralità della grande impresa industriale e, con essa, si era già dissolta l’idea dell’egemonia della figura sociale dell’operaio di quell’impresa. E questo è un limite però, se lo si vuol vedere, è dispiegato un nuovo e grande campo d’azione che va indagato: che imprese sono colossi come Amazon, Faceboock, Alibaba che oggi impongono non solo consumi a metà pianeta ma direttive politiche ai governi? E chi vi opera? Pertanto, oggi la priorità è diventata quella della “conoscenza della realtà” e delle figure sociali che la popolano. Solo dalla conoscenza può ripartire il difficile tentativo di recupero delle energie attive e vitali che, se non ancora oppiate dai social, oggi tendono a investire se stesse in ambiti diversi dalla politica che appare loro come luogo degli intrighi e della corruzione. E non hanno torto. Forse, se si attiva questo tentativo, e oggi si sarebbe costretti a farlo dall’alto e con funzioni pedagogiche, può riprendere senso sia la concezione di un futuro partito, che comunque ci sarà tra dieci anni e forse più, come depositario degli interessi stessi della classe, come può riprendere l’idea stessa di conflitto che si è abbandonata nel momento stesso in cui la qualità dello sviluppo, del lavoro, dell’ambiente lo esigeva. Certo il conflitto, ma a sostegno di un interesse assolutamente di parte, lontano da larghe intese a sostegno di un falso interesse generale. C’è però un macigno da rimuovere, dato da una società che pare aver perso i propri freni inibitori, una società dove si è lasciato distruggere il senso del collettivo, una società in cui avanza una generazione digitale di mansueti appagati dall’esibizione ridicola di se stessi, una generazione che si ribella solo se si toglie loro il diritto all’aperitivo e alla movida. Con una politica che li lusinga e una sinistra che si è dissolta. Questo è il macigno che, novelli Tantalo, va rimosso recuperando la realtà delle cose, ripartendo assolutamente dalla concretezza di un lavoro e dei suoi soggetti e, anche, da un povero sindacato umiliato dalla politica. Nell’assenza del sindacato che appare ormai rassegnato alla sconfitta permanente, appaiono i moderni fermenti dell’antico anarco-sindacalismo che prese la scena ai primi anni del Novecento in risposta all’impotenza dei sindacalisti socialisti che si beavano delle loro “frasi scarlatte” pronunciate nei comizi.

Oggi, che non ci sono più nemmeno le frasi scarlatte, andrebbe rivisto come formazione politica dell’obbligo il film “I compagni” di Monicelli, uno straordinario e attuale affresco della lotta di classe dove, ora come allora, agli ultimi i padroni scagliano contro i penultimi. E dovrebbero vederlo quanti del PD ancora si illudono che esista una terza via blairiana. Il compagno Tantalo, e quindi noi, deve rimettere mano a quel macigno per impedire che rotoli a valle (anche perché, forse, a valle ci siamo già).


Bruno Casati è nato a Monza nel 1940. Quadro direttivo dell’Enel. Dal 1971 al 1985 Segretario generale del sindacato Cgil dell’energia di Milano. Dal 1986 al 1990 membro del Comitato federale del PCI. Dal 1991 nella Segreteria milanese di Rifondazione Comunista e dal 1966 al 2002 Segretario generale dello stesso partito. Dal 1996 al 2010 membro della Direzione nazionale del PRC con la responsabilità del dipartimento politiche industriali. Dal 1995 al 2004 eletto Consigliere della Provincia di Milano e dal 2004 al 2009 Assessore al lavoro e al patrimonio della stessa Provincia. Dal 2010 Presidente del Centro Culturale Concetto Marchesi di via Spallanzani, dove si sono promosse centinaia di iniziative. Autore di numerosi articoli apparsi sui quotidiani Liberazione e altre testate, così come oggi su riviste politiche on line come Gramsci Oggi, Oltre il Capitale, Cumpanis. Per la Casa Editrice Aurora ha collaborato per la pubblicazione di molti testi e ha scritto L’INNSE che c’è e, con la partecipazione di Maurizio Landini, Il volto oscuro dell’impresa. Nel maggio 2021 è uscito un suo saggio, per i tipi dell’Editrice Aurora, dal titolo Nel centenario della fondazione del PCI. Quelli di via Spallanzani, libro già recensito per “Cumpanis” da Vladimiro Merlin.

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