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cumpanis

“L’essenza, per le fondamenta”. Contro la gabbia del “biopotere”

Alessandro Testa intervista Alberto Sgalla

Alberto Sgalla, nato in Ancona il 24.11.1948, dove vive, già docente di discipline giuridiche-economiche in istituiti tecnici e licei a Varese e Ancona, ha pubblicato in rivista saggi di filosofia politica e 4 romanzi (Il colore del vuoto, ed. Transeuropa 2000; Senza commozione, ed. Pequod 2005; Federico Onori, ed. Cattedrale 2009; Café Le Antille, ed. Italic Pequod 2014). Ha militato nel corso degli anni ‘70 nell’area “operaista”, con un’attenzione al pensiero di Hegel e un’ispirazione leninista.

51gxw6CUyOLCi piacerebbe cominciare quest’intervista chiedendoti una riflessione sullo Stato Postmoderno, sulla sua evoluzione come sovrastruttura e sui suoi legami con la maniera specifica con cui si è evoluto il capitalismo.

Siamo entrati in una nuova epoca, che non è definibile se non con il prefisso post- (postindustriale, postmoderna, postfordita, postumana, postverità eccetera), epoca di transizione da un non-più al trionfo dell’indefinito, del senza-identità, segno del caos della crisi, della società dell’incertezza, dove tutto è cedevole, disperso, movimento che non conduce da nessuna parte, se non all’accumulazione di profitti e poteri privati. Occorre comunque dare significato alle trasformazioni e la critica comunista resta la migliore per capire “lo stato di cose presenti”, critica totale, affermativa, vitale.

Con il postmoderno è avvenuta:

– la marxiana sussunzione reale della società al capitale, che ha completamente assorbito la società in sé, la società informatizzata e automatizzata, la società ridotta a mercato e spettacolo; il capitale non ha più un esterno, non ha niente fuori di sé, si presenta come forza produttiva primaria, separata dal lavoro, che sembra destinato ad uscire definitivamente di scena;

– la modificazione della natura dello sfruttamento dalla quantità alla qualità, con processi di creazione del valore che non trovano più al loro centro il lavoro di fabbrica;

– l’incapacità del capitale di pianificare lo sviluppo inteso come movimento dialetticamente compiuto, il capitale appare come vuoto apparato di costrizione, un parassita della cooperazione del lavoro vivo che si autovalorizza;

– la fine della dialettica tra lavoro e capitale nella costituzione del Welfare State, che era definito dal suo intervento nella sfera della produzione e della distribuzione, dalla mediazione e regolazione della forza produttiva e antagonistica del lavoro all’interno della costituzione giuridica dello Stato; lo Stato postmoderno non ha più bisogno di procedure contrattuali di equilibrio sociale, dei meccanismi mediatori di legittimazione e disciplinamento, che rendevano possibile lo sfruttamento;

– la fine della trinità della politica economica del WS (taylorismo nella produzione, fordismo nella contrattazione collettiva dei consumi, keynesismo nella pianificazione economica).

 

Quali sono quindi, secondo te, i tratti salienti del capitalismo postmoderno?

Nel capitalismo postmoderno s’afferma il nichilismo mercatistico in cui tutto è negoziabile, lo Stato diviene “snello” come l’impresa, è rotto l’equilibrio del mercato del lavoro, resa irrilevante la contrattazione collettiva, dilagano la precarietà dell’impiego e dell’esistenza, l’alienazione, la sostituzione dei lavoratori con gli automi, l’espansione della povertà, la privatizzazione dei beni comuni, la deregolamentazione economica, l’aumento dell‘arbitrarietà dei poteri privati.

Lo Stato postmoderno, astratto da ogni contenuto materiale, stabilisce simulacri di equilibrio e di ordine, non si confronta con i soggetti sociali, opera attraverso la manipolazione mediatica della società, costruisce la fiction di un’apparente armonia sociale competitiva, libero gioco di segni, una Disneyland cibernetica, un gregge di frammenti, da amministrare con spietatezza verso i “nemici della democrazia”. Lo Stato, negata l’attività della forza-lavoro come fonte della ricchezza sociale, si riduce a gestione sistemica della società del capitale che s’irradia come una metastasi. Scompare la società civile come società del lavoro.

Nel mondo postmoderno della totalizzazione capitalistica al centro della vita c’è la produzione di plusvalore e lo Stato comanda la produzione sociale di figure senza storia e territorio, senza biografia, io deboli, indebitati, imprenditori di se stessi, sradicati, nomadi, sempre in gara, nuda vita al lavoro, non più soggettività in cui c’è gioia e piacere nello schiudersi della vita a se stessa. L’io debole postmoderno, malato d’insicurezza, per esistere deve fare marketing di sé, esibire permanentemente la propria immagine in vetrina.

Gli attuali processi produttivi hanno scomposto, disperso, flessibilizzato la forza-lavoro, ridotto l’io a “capitale umano”, io vuoto, modulare, misurato sulle contingenze del mercato, affetto da incontinenza affaristica, ma hanno anche fatto emergere un soggetto di classe in cui sono intrecciate attività materiali, saperi, competenze di comunicazione, collegate in reti produttive e sociali da una sviluppata cooperazione lavorativa, che allude ad un mondo “comunistico” descrivibile nei termini che Marx chiamò General Intellect, comunità socialmente produttiva, in cui il lavoro cognitivo, tecnico-scientifico, forma complessa di sintesi del lavoro sociale, assume un ruolo centrale, in cui il processo di produzione si presenta come impiego tecnologico della scienza, dell’informazione, dei linguaggi, prodotti generali dello sviluppo sociale. Si conferma di nuovo che Il lavoro è sociale poiché sotto il suo controllo passano le condizioni generali del processo vitale!

 

Più specificamente, potresti approfondire la tematica della relazione tra globalismo liberista e la sua evoluzione in senso imperialista?

Secondo la definizione dell’OCSE la globalizzazione è quel “processo attraverso cui mercati e produzioni nei diversi paesi diventano sempre più interdipendenti, a causa della dinamica di scambio di beni e servizi”; una volta che l’economia di un paese è integrata al mercato capitalistico mondiale essa subisce le condizioni che i soggetti economici più forti le impongono attraverso le leggi del mercato.

Con l’imperialismo globalizzato i soggetti economici più forti adattano l’economia dei paesi più deboli alle proprie esigenze, non solo nel senso tradizionale di sfruttamento delle materie prime, di mercati di sbocco di merci o di investimento di capitali secondo i modi e i prezzi stabiliti da chi ha potere di mercato, ma anche per tutte le finalità ritenute utili dai soggetti economici dominanti.

Questa interdipendenza strutturale comporta economie nazionali subalterne e distorte, incapaci di pianificare il proprio sviluppo, perché i centri decisionali da cui le economie nazionali dipendono sono interne alle economie dominanti, in grado d’imporre le proprie scelte attraverso la propria potenza finanziaria, tecnologica, monetaria, politica e militare. L’imperialismo globale attraverso i flussi globali di scambio di capitali, merci, persone, simboli, informazioni, inoltre impone ai paesi assoggettati i propri modelli di vita, consumo, insegnamento, eccetera.

 

Quale ruolo gioca secondo te la tecnologia in questo processo?

La svolta tecnologica, inoltre, sta inducendo anche una modifica dei concetti di spazio, di tempo, d’identità e di appartenenza, che qualificano i contesti sociali in cui ci collochiamo quotidianamente, le nostre vite sono influenzate da scelte, eventi e attività che hanno luogo al di là dei nostri contesti sociali, per cui possiamo dire che globalizzazione è “il processo in seguito al quale gli Stati nazionali e la loro sovranità vengono condizionati e connessi trasversalmente da attori transnazionali, dal loro potere e dai loro orientamenti” (U. Beck). Pertanto, risultano del tutto inefficaci le politiche nazionali keynesiane di programmazione. È Il nuovo “disordine” mondiale prodotto dal capitale senza frontiere, tanto più mortifero quanto più avanza il declino del dominio economico mondiale esclusivo degli USA.

 

In questo contesto, quali sono le dinamiche del rapporto tra lavoro, capitale e potere?

Il lavoro rimane la fonte innovativa e creativa della produzione e della società, ma il capitale finanziario ne occulta il ruolo, il sistema capitalistico global marcia come un automa, che si autogoverna, automa astratto dal terreno delle passioni e dei rapporti sociali, che cerca di cancellare il problema reale del potere dando senso ai sogni di eternità del capitale. È La circolazione la dinamica che anima il sistema, sorretta da un’invadente mitologia del mercato.

Viene posto come potere giuridico il diritto del capitale d’intervenire su scala mondiale, con l’unificazione del comando globale mediante l’imposizione della norma economico-finanziaria e l’intervento militare “umanitario”. Il comando centrale del capitale organizza la logica capitalistica e la massima concentrazione di mezzi bellici, si separa, quindi, dal processo di organizzazione sociale e politica dei popoli.

Il nuovo disordine mondiale è rappresentato dalla necessità capitalistica di strutturare e dominare il mercato mondiale e la divisione del lavoro su scala internazionale e dal potere letale della macchina bellica, che ha la decisione finale sulla vita e sulla morte; la legittimazione dei singoli sistemi di governo si definisce solo in relazione alle loro posizioni all’interno del nuovo dis-ordine mondiale.

Il denaro si è sostituito alla norma giuridica e la norma tecnocratica alla norma politica, precede ogni dinamica di legittimazione democratica, il cui posto è preso dall’interesse capitalistico. Le fonti della produzione giuridica sono poste sempre più lontano dai luoghi della sovranità popolare. Le politiche di bilancio degli Stati sono in gran parte determinate da luoghi di decisione extranazionali che curano l’applicazione delle regole del mercato mondiale imponendo decisioni repressive (es. taglio della spesa pubblica) e logiche costrittive di comando sul lavoro sociale.

La globalizzazione capitalistica-liberista è lo scatenamento degli egoismi lucrativi e di un’imprenditoria di rapina, si fonda sulla idolatria del mercato assoluto, sull’anarchia produttiva, l’universalità della concorrenza selvaggia, la riduzione dei lavoratori a “poveri” imbelli, vittime-animali da lavoro o vittime-esclusi dal mercato. La natura dell’uomo-vittima è ben analizzata dal filosofo francese Alain Badiou, che attacca la vuota astrattezza di un’idea di Uomo indistinto, titolare di formali diritti, idea il cui successo discende dal declino del marxismo rivoluzionario (nozione d’un senso della Storia e della potenza del soggetto collettivo del lavoro) e dal dilagare dell’individualismo competitivo e delle libertà individuali contro le responsabilità dell’impegno collettivo organizzato.

 

Eppure, mai come oggi si parla con insistenza, soprattutto da parte della “sinistra radicale”, di “diritti umani”. Non ti pare che questo sia in forte contraddizione con quanto tratteggiato sopra?

La retorica dei diritti umani definisce l’uomo come una vittima, come “ciò che è capace di riconoscere se stesso come vittima”, assimilando l’uomo alla sua pura e semplice identità di vivente, all’“insieme delle funzioni che resistono alla morte”; Badiou sostiene che l’essere umano è invece potenza, rivolto a possibilità di vita ricca, orientate sull’idea di felicità, rompe con l’identità di vittima, s’ostina a restare un non-essere-per-la morte, sostiene la necessità di “riunire gli uomini attorno ad un’idea positiva del Bene”, identificando l’Uomo con la volontà collettiva del Bene. Viene affermata l’idea di Uomo-potenza immerso nell’avventura con l’incommensurabile ricchezza della vita e del linguaggio. Il Male, quindi, si determina solo “a partire dalla capacità positiva del Bene”.

La risposta al globalismo neoliberale, che allunga la sua ombra di morte, è, ovviamente, la verità del sentirsi comunità, la costruttività umana dei popoli, in cui l’unità materiale crea identità, è l’Autodeterminazione Economica e Politica dei Popoli, che devono decidere sull’organizzazione sociale, sulla produzione e distribuzione della ricchezza, sulla divisione sociale del lavoro, sui beni comuni, sui progetti di sviluppo umano. Le lotte antimperialiste hanno costretto l’ONU a riconoscere il diritto dei popoli alla disponibilità delle proprie risorse materiali con la conseguente nazionalizzazione di tali risorse sottratte allo sfruttamento monopolistico delle grandi società multinazionali, ma l’effettività dei rapporti di forza capitalistici nel mercato mondiale ha svuotato tale diritto.

 

Un altro tema interessante è lo sviluppo enorme delle forze produttive, sviluppo che potrebbe essere la base per la tanto agognata “liberazione dal lavoro” preconizzata da Marx nel capitolo 6 dei Gründrisse, il cosiddetto “frammento sulle macchine”. Cosa ne pensi?

Oggi è palese la natura distruttiva del capitalismo, costretto a tagliare l’eccesso di capacità produttiva, chiuso com’è nella contraddizione tra il fatto che la fonte del valore aggiunto è il lavoro vivo e la tendenza del capitale ad accrescere la produttività sostituendo le macchine (robot, intelligenza artificiale) al lavoro vivo.

Nei Grundrisse Marx scrive: “il lavoro è il fuoco che dà vita e forma”, potrebbe procurare gioia al soggetto sociale che detiene tale potenza; lavoro è pratica che produce valore, costituisce società, è potenza affermativa di vita. Il Rinascimento ha scoperto la vis viva del lavoro, il materialismo l’ha interpretata, il capitalismo l’ha soggiogata, riducendo il lavoro ad astrazione, pena, noia, miseria.

L’antagonismo di classe ha rivelato che:

  • il lavoro è incorporato come forza interna al capitale, che espropria le menti e i corpi dei lavoratori, prigione che rinchiude la potenza del lavoro vivo portandosi via il nostro tempo,
  • ma anche che il lavoro produce le condizioni della propria liberazione, è mondo, forza-invenzione, produzione positiva dell’essere, sostanza della storia umana (Marx).

Oggi il processo lavorativo (catena del valore), frammentato in una lunga serie di appalti, subappalti, esternalizzazioni, ha investito l’intera società, permeata, nelle sfere della produzione e della riproduzione sociale, dai rapporti di forza capitalistici e la soggettività, motore di trasformazione del mondo attraverso il lavoro, si produce sempre più nell’interfaccia tra l’umano e la macchina (integrata nel soggetto). Il cyborg, ibrido di macchina e organismo è nuova figura sociale capace di comunismo.

 

Quale potrebbe essere, dunque, una strategia per liberare l’essere umano dall’alienazione causata da questo modo di produzione?

Alla vecchia emancipazione attraverso il lavoro si dovrebbe sostituire la liberazione dal lavoro-merce, alienato, penoso; la possibilità di ridurre ad un minimo il tempo di lavoro socialmente necessario, visto che lo sviluppo della scienza e della tecnologia rende possibile la sostituzione del lavoro umano con l’uso intensivo di dispositivi tecnici (informatica, automazione, robotizzazione eccetera).

È materialmente possibile introdurre una razionalità cooperativa e solidale nel modo di produzione, che faccia perno su un individuo sociale ricco di capacità, informazioni, conoscenze, bisogni, desideri, una società di individui dotati di libertà creativa, produttori di ricchezza, conoscenza e cooperazione, in cui il soggetto scopra un’identità comunitaria, base d’una nozione sostanziale di bene comune e di merito sociale.

Il modo di produzione capitalistico postmoderno ha assorbito in sé aspetti fondamentali della natura umana, capacità linguistiche, comunicative, cognitive, sensibilità estetica, energia desiderante, ecc., cioè tutte le forze produttive stimolate e mobilitate nella produzione postfordista di capitale; la vita stessa è divenuta mezzo della produzione postfordista, su cui s’esercita la nuova accumulazione.

È stato infatti introdotto il concetto di biopotere, potere sulla vita, volto a produrre delle forze, farle crescere, ordinarle per “metterle in valore” al servizio dello sviluppo capitalistico; potere sul corpo-oggetto, sul corpo-macchina, per potenziarlo e per valorizzare la sua utilità, per estorcere le sue energie; gestione calcolatrice dei corpi, che decide sul valore della vita, su quali sono le qualità (garantite da diritti) attribuite all’esistenza umana; contro la gabbia del biopotere si pongono le singolarità composte nella vita plurale del popolo (o moltitudine), aggregato sociale omogeneo depositario di valori positivi e di lealtà civile, animato dalla potenza del soggetto costituente, la classe produttiva, affermativa, dei lavoratori, dotata di un insopprimibile desiderio di vita.

 

Concludendo, ci piacerebbe chiederti quali sono a tuo avviso i punti chiave per la ricostruzione di una prospettiva Comunista in Italia.

La prospettiva comunista nel capitalismo postmoderno globalizzato può aprirsi dopo aver analizzato con cinica passione le ragioni d’una sconfitta, d’una esperienza conclusa e dopo aver indagato l’attuale composizione della classe operaia, “rude razza pagana”, della sua soggettività e della sua potenza, che oggi sta nella qualità massificata dell’intellighenzia operaia. La questione del comunismo è tenuta aperta dalla collettiva intelligenza in azione che richiede il controllo dei lavoratori sulle condizioni materiali di vita e di lavoro, dalla soggettività creativa del lavoratore cognitivo, che ha capacità di autovalorizzazione, ma è controllato e assorbito dal capitale nella gestione della potenza che esprime.

Dal superamento di questa contraddizione s’apre la strada al comunismo, che è frutto della moderna corrente del materialismo critico e del desiderio profondo di comune felicità e di eguale libertà che corre attraverso la storia dell’umanità. La modernità è storia di una rivoluzione permanente, incompleta, dello sviluppo contraddittorio in cui vi è sempre stata un’alternativa tra lo sviluppo di libere forze produttive e il dominio dei rapporti di produzione capitalistici, a partire dalla rivoluzione rinascimentale. La modernità è percorsa dal conflitto tra la capacità produttiva della ragione nella costruzione della vita e della storia e un’organizzazione della società diretta alla riproduzione del potere economico e politico. Il marxismo è il magazzino degli attrezzi per capire, con una visione energetica del mondo, i processi storici che si fondano sulla potenza civilizzatrice del lavoro.

Compito di un’avanguardia comunista è:

  • criticare la miseria del mondo contemporaneo;
  • liberare le energie materiali, intellettuali, etiche di soggettività capaci di comunismo, cioè di un regime politico di democrazia comunitaria, in cui è possibile affinare i sensi, sviluppare le facoltà di godimento della vita, costituire una società bene ordinata, in cui gli individui, con un forte senso di giustizia, curano i beni comuni partecipativi.
  • preparare la Rivoluzione, fonte di creatività e di potere, l’unificazione della società nella fraternità, in cui è implicita una nozione materiale di bene comune, favorendo il passaggio dalla spinoziana cupiditas (il desiderio di vivere) alla cooperazione, allo sviluppo dell’essere sociale per mezzo di un processo di costituzione di comunità, il cui autogoverno è ordinato al comune benessere.

Nel mondo postmoderno i rapporti di forza tra le classi si situano sul terreno della produzione di soggettività, oggi ridotta dentro un orizzonte totalitario di comando nella Società-Teatro della Merce, ma sempre capace di sovranità in base a ciò che i cittadini-lavoratori hanno in comune, capace, di cooperazione dei saperi, di definire e interpretare i bisogni sulla base di un’identità collettiva, di positività, cioè di porre la bellezza dell’umano come sicura, effettiva, di costruzione di comunità di vita e di lavoro.

Di fronte al profluvio di immagini, notizie, dati, simulazioni, forme ideologiche che caratterizzano il postmoderno, per il quale esiste ciò che viene rappresentato con le fattezze dell’informatizzazione digitale, occorre fare appello al senso di realtà, a quella autenticità a cui collegare le possibilità di definire o interpretare gli interessi comuni, di condividere il valore dei beni sociali e di una jouissance collettiva. Qui possono marciare la ragione e la sensibilità comunista.

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