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“L’essenza, per le fondamenta”

I diversi destini del PCC e del PCI all’ombra della fine dell’URSS

Intervista a Fulvio Bellini*

Immagine secondo editoriale Intervista BelliniIl 2021 è stato l’anno di due importanti anniversari: quello della nascita dei partiti comunisti cinese e italiano. Molto si è scritto e dibattuto su questi temi. Qual è la tua opinione?

La prima riflessione sembra banale, ma solo apparentemente: salta all’occhio il destino diametralmente opposto che questi due partiti hanno avuto nel medesimo arco di tempo. Entrambe le organizzazioni politiche sono nate tra mille difficoltà, in Italia a causa del subitaneo avvento del ventennio fascista, in Cina a causa dell’inevitabile avversione delle potenze occidentali che là spadroneggiavano, dell’occupazione giapponese e dell’ostilità del Kuomintang di Chiang Kai-shek. Entrambi i partiti hanno avuto ruoli centrali nelle rispettive guerre di liberazione nazionali, e non si può negare che anche nel dopoguerra, in considerazione dei diversi contesti politici internazionali, e di collocazione rispetto ai propri governi, sia il PCC che il PCI hanno svolto ruoli centrali nella storia dei rispettivi paesi.

Ruoli sempre propositivi, comunque tesi al raggiungimento dell’obiettivo supremo che, a mio avviso, un partito socialista deve avere nella sua azione politica: come viene prodotta la ricchezza e come viene distribuita, che in altri termini possiamo definire come la lotta della supremazia tra il potere economico e quello politico.

La svolta che ha decisamente divaricato la storia dei due partiti è avvenuta certamente agli inizi degli anni Novanta, ed è coincisa con la fine dell’epopea dell’Unione Sovietica. Quell’evento ha determinato due conseguenze opposte: ha segnato la fine del Partito comunista italiano come soggetto politico di massa, mentre ha spronato i comunisti cinesi ad imprimere la svolta che ha portato il gigante asiatico ad essere la grande potenza che oggi conosciamo.

Da un lato abbiamo avuto la Bolognina di Achille Occhetto e, dall’altro, i fatti di Piazza Tienanmen gestiti magnificamente da Deng Xiaoping: il solo accostare questi due nomi dà i brividi. Il destino del PCI ha poi qualcosa di ulteriormente “misterioso”: non era affatto scontato il suo dissolvimento in una galassia di piccoli gruppi politicamente marginali e tra loro inconciliabili. Il Partito comunista russo diretto da Gennadij Zjuganov, ad esempio, erede del PCUS ha raccolto nel 2016 sette milioni di voti (13,34%) e quasi nove milioni nelle presidenziali del 2018 (11,77%), per non parlare della recentissima e clamorosa affermazione elettorale alle elezioni alla Duma dove ha ottenuto il 20% dei suffragi. In Germania, la Linke, erede della SED, ha raccolto oltre quattro milioni di voti alle politiche del 2017 (9,2%), ma il suo peso nei Lander che formavano l’ex DDR e a Berlino è ancora maggiore. Ho citato questi due partiti perché sono quelli che hanno subìto maggiormente le conseguenze del dissolvimento di URSS e Repubblica democratica tedesca.

 

La domanda sorge spontanea, allora: perché i destini del PCI e del PCC si sono rivelati opposti?

Bisogna fare alcune premesse. Abbiamo visto che l’avvenimento cardine è stata la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Anche se su questi avvenimenti si è scritto e dibattuto molto, a mio avviso non si è ancora fatta la necessaria chiarezza storica che sarebbe la base fondamentale per comprendere maggiormente gli eventi che hanno riguardato anche il PCI.

Da parte dei comunisti andrebbe fatto uno sforzo di analisi maggiore rispetto a quanto compiuto fino ad oggi, anche se mi rendo conto che non è facile, essendo i nostri decenni quelli che definirei della “Controriforma liberista”, che tutto vuole tranne che fare luce su quegli avvenimenti. Personalmente mi sono fatto un’opinione su quanto accaduto, opinione che si poggia su di un concetto, per così dire, di filosofia della storia e su due avvenimenti cardine del secondo dopoguerra.

Vediamo il concetto. Nel vigente sistema capitalistico, come nella storia dell’umanità, sono le guerre che determinano la gerarchia delle nazioni. Mi rendo conto che può non piacere, che implica un ragionare sulla guerra che speriamo verrà superato in futuro, ma è indubbio che la Seconda Guerra Mondiale ci ha lasciato due vincitori di primo livello: Unione Sovietica e Stati Uniti; vincitori di secondo livello: Gran Bretagna e Francia. Vi sono poi i tre paesi sconfitti: Germania, Italia e Giappone; vi è quindi la Cina e vi sono infine tutti gli altri. Come noto, i paesi vincitori dell’ultimo conflitto e la Cina sono istituzionalmente riconosciuti in qualità di membri permanenti del consiglio di sicurezza dell’ONU. Fino al prossimo conflitto, questo ordine non cambierà, nemmeno tenendo conto di importanti eventi avvenuti negli ultimi decenni: la nascita dell’Unione Europea, la dissoluzione dell’URSS e l’affermarsi sulla scena internazionale della Cina. Le due capitali vincitrici della seconda guerra mondiale restano Washington e Mosca e nei passaggi fondamentali della storia del dopoguerra, la Casa Bianca e il Cremlino si sono parlati e accordati anche a nome di tutti gli altri, volenti o nolenti.

Ecco i due avvenimenti. Il 29 agosto del 1949 è la data dell’esplosione della prima bomba atomica sovietica; da quel momento in poi inizia la corsa alla costruzione degli arsenali atomici americani e russi; l’esistenza di tali arsenali, ad esempio, hanno impedito agli Stati Uniti di far sfociare nella terza guerra mondiale il conflitto di Corea (famosa la destituzione “in volo” del famigerato Cesare del Pacifico, generale Douglas MacArthur, che stava appunto pianificando il bombardamento atomico del fronte coreano) e quello del Vietnam quindici anni dopo. Più in generale, l’eccessiva capacità distruttiva dell’armamento atomico rispetto alle necessità belliche “tradizionali”, e soprattutto politiche, ha inceppato quel meccanismo terribile ma necessario ai sistemi feudali/aristocratici prima e capitalistici/borghesi poi di sfogare e risolvere nel conflitto armato le contraddizioni, le tensioni e le crisi ricorrenti in quegli ordini economici e sociali.

Da un punto di vista sistemico, oggi viviamo in una sorta di “pentola a pressione” la cui valvola di sfiato si è inceppata, causando l’aumento smisurato della pressatura all’interno della pentola stessa. Fino a quando il sistema capitalistico/borghese potrà reggere questa forza esplosiva ed in costante aumento?

Come diretta conseguenza dello stallo militare tra URSS e USA, a mio avviso, va inquadrata la fatale decisione degli Stati Uniti di sospendere unilateralmente gli accordi monetari di Bretton Woods dell’agosto 1971. Tale decisione di Nixon è stata sempre ritenuta un avvenimento da specialisti delle monete, dalle conseguenze marginali per i sistemi economici mondiali. È esattamente il contrario. Si è trattata della seconda risoluzione fatale presa dagli americani. La prima, come noto, è stata la criminale scelta di bombardare atomicamente il Giappone; la seconda è stata quella di mettere a tributo tutto il mondo tramite l’acquisto di derrate alimentari, materie prime, energia, beni e servizi, cioè di cose tangibili e frutto del lavoro dell’uomo, in cambio di carta, pura e semplice carta. La sospensione di Bretton Woods ha reso il dollaro strumento di pagamento a circolazione forzosa (nel senso che non lo puoi politicamente rifiutare) tra gli stati, i quali sanno benissimo che tale divisa non ha più un valore intrinseco. Mentre fino al 1971, almeno formalmente, le banche centrali mondiali potevano chiedere agli Stati Uniti di cambiare 35 dollari in 1 oncia d’oro, dal settembre 1971 tale possibilità non esisteva più. Da allora ad oggi, il circolante di dollari è cresciuto a dismisura, come l’incredibile debito pubblico USA.

 

Perdonami ma non capisco, cosa centra tutto questo ragionamento con la caduta dell’Unione Sovietica?

Gli anni Settanta sono stati un decennio positivo per l’Unione sovietica. La pessima figura rimediata dagli americani in Vietnam, i movimenti studenteschi di protesta fortemente orientati a sinistra, sia negli Stati Uniti che in Europa, avevano “sdoganato” e reso popolari le esperienze di socialismo reale del blocco sovietico, e soprattutto di Cuba e della Cina. Alcuni paesi africani si erano espressamente rivolti ai paesi socialisti per essere supportati nella loro uscita dal colonialismo europeo: penso all’Etiopia di Menghistu, all’Angola di Neto.

Gli americani non potevano più mantenere una posizione internazionale evidentemente perdente e decisero di mutare drasticamente la propria strategia globale, abbracciando la tesi di Henry Kissinger. Il segretario di Stato di Nixon predicava che dopo la sconfitta in Vietnam, gli USA non erano più in grado di fronteggiare contemporaneamente i due fronti del socialismo reale: l’URSS da un lato e la Cina dall’altro. Occorreva chiuderne uno per moltiplicare la pressione sull’altro: fu chiuso il fronte cinese. Tale chiusura fu definita la “diplomazia del ping pong” e fu ufficializzata dalla visita di Richard Nixon a Pechino del febbraio 1972. Ecco una prima risposta al quesito sui diversi destini tra PCI e PCC. La Cina poté iniziare una nuova “lunga marcia” di progresso economico e sociale perché uscita dalla morsa mortale degli americani. A riprova del profondo mutamento dei rapporti tra Pechino e Washington di quegli anni è sufficiente ricordare il ruolo da protagonisti avuto dalle major americane negli investimenti nelle zone speciali cinesi a partire già dalla fine degli anni Ottanta, senza che il governo USA ponesse particolari difficoltà o restrizioni.

Al contrario il PCI si trovò nel bel mezzo del teatro di scontro tra USA e URSS, fortissimo agli inizi degli anni Ottanta. Nel 1979 gli Stati Uniti diedero inizio alla crisi degli Euromissili grazie alla cosiddetta “Doppia decisione”, cioè alla pantomima attraverso la quale i governi dei paesi europei occupati pregavano agli Stati Uniti di schierare i missili a medio raggio Pershing-2 e quelli da crociera Tomahawk dotati di testate atomiche e rivolti verso l’Unione Sovietica. In quegli anni, gli strateghi militari erano concentrati sui principi del “first strike”, del primo colpo. Nei calcoli del Pentagono, grazie al posizionamento degli Euromissili in Germania Ovest, Italia, Belgio e Gran Bretagna, si prevedeva di riuscire a colpire i centri nevralgici sovietici prima che quest’ultima potesse lanciare validamente tutti i suoi missili da crociera intercontinentali sul territorio americano. Va da sé che in questo folle calcolo, i paesi dell’Europa occidentale avrebbero invece subìto la ritorsione nucleare sovietica grazie ai suoi missili di medio raggio SS-20. In altre parole, gli strateghi americani valutavano che vi fosse uno spazio di relativa superiorità strategica grazie alla quale ottenere una vittoria militare in una guerra nucleare: l’Urss sarebbe stata fatalmente colpita, l’Europa totalmente devastata e gli Stati Uniti “marginalmente feriti”. La pistola era carica e messa sul tavolo. Agli inizi degli anni Ottanta Mosca era sotto scacco dal punto di vista militare. Ma non era questa la notizia peggiore per i dirigenti sovietici.

Era un decennio che gli Stati Uniti usavano contro l’URSS un’arma altrettanto potente di quella nucleare: il dollaro. Da un punto di vista economico, i due “imperi” funzionavano in modo opposto. Quello americano, grazie alla sospensione degli accordi di Bretton Woods, agiva da vero “impero tradizionale” drenando immense risorse dal mondo e dando in cambio solo carta. Il dollaro permetteva agli USA di avere i soldi per i cannoni e per il burro: consentiva loro d’investire cifre crescenti nell’industria bellica e di accordare alla sua popolazione un alto tenore di vita, che pubblicizzava in tutto il mondo tramite Hollywood e la cosiddetta cultura “Pop”, caratterizzata da un edonismo esasperato ma fortemente attrattivo per le masse sia ad ovest che a est della cortina di ferro. L’URSS doveva invece mettere proprie risorse per mantenere i paesi satelliti, e contemporaneamente investire nell’industria bellica sempre più sofisticata e costosa. La Polonia necessitava delle commesse cantieristiche sovietiche, la DDR di quelle di alta tecnologia, la Cecoslovacchia di quelle meccaniche e così via. Nel Comecon vigeva un particolare sistema compensativo che costringeva l’URSS a pagare le importazioni con risorse alimentari, energetiche e sotto forma di beni. E quando Cuba chiamava, l’Etiopia e l’Angola chiedevano aiuti, a Mosca ci si metteva le mani nei capelli. Il confronto tra i due imperi era del tutto improponibile: gli americani avevano già vinto senza bisogno di lanciare i Pershing. I sovietici non potevano reagire adeguatamente semplicemente perché la loro Banca centrale non poteva stampare dollari. Il Cremlino iniziava a porsi la fatidica domanda: “che fare?”. Andrebbe approfondito quali siano stati le discussioni al vertice del PCUS circa le opzioni sul tavolo, che noi possiamo solo immaginare a posteriori, avendo visto cosa sarebbe accaduto poi. Mi permetto solo di segnalare che l’avvento al potere di Gorbaciov e il dipanare della sua politica erano già la conseguenza della decisione presa e non la premessa.

 

Non è stato quindi Gorbaciov a determinare la fine dell’URSS?

Certo che è stato Gorbaciov a liquidare l’URSS, e sono convinto che lo ha fatto in “buona fede”, credendo fermamente nella Glasnost e nella Perestrojka, godendo del plauso del mondo occidentale, dell’ammirazione degli intellettuali, dei cantanti, degli attori che ci raccontavano, e ci raccontano tutt’ora dall’alto delle loro vite privilegiate, cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. In politica i Gorbaciov si chiamano “utili idioti”, e lui è certamente stato un campione di questa razza. Ma il personaggio era noto a chi ha permesso la sua scalata al potere e lo ha fatto sapendo bene cosa avrebbe poi combinato.

Sono convinto che il percorso per arrivare a Gorbaciov sia stato preceduto da due processi fondamentali: la discussione al vertice del partito accompagnata da una difficile e tormentata trattativa con gli Stati Uniti. Ritengo anche che le due anime di tale percorso, a volte d’accordo e a volte in contrasto, sono state di ben altro calibro rispetto al misero Gorbaciov: Jurij Andropov, direttore del KGB dal 1967 al 1982 e poi segretario generale del PCUS dal 1982 alla sua morte nel 1984 da un lato, e Andrej Gromyko, ministro degli Esteri dell’URSS dal 1957 al 1985 e capo dello Stato dal 1985 al 1988, con un passato da ambasciatore negli Stati Uniti durante la fase conclusiva della seconda guerra mondiale. Attorno a questi due uomini si coagularono le due strategie, e relativi sostenitori: salvare ad ogni costo l’URSS oppure liquidarla, accettando lo “scacco matto” che Washington stava dando tramite il combinato disposto di “dollaro” ed “euromissili”. Ma sia in un caso che nell’altro, Mosca instaurò una linea di comunicazione riservata con Washington e sono convinto che dall’altra parte del filo vi era, tra gli altri, George Bush senior, direttore della CIA dal 1976 al 1977, vicepresidente dal 1981 al 1989 e presidente dal 1989 al 1993. Soprattutto, Bush era esponente di spicco dell’“aristocrazia” americana, la cui famiglia ha dato un senatore (Prescott) due presidenti (George padre e figlio) e un governatore (Jeb). Mosca voleva trattare col vertice dell’Élite statunitense, non con attori prestati alla politica come Ronald Reagan.

È all’interno di questo canale di comunicazione che vanno ricercate le mutazioni strategiche e le decisioni prese dalla dirigenza sovietica tra il 1979 ed il 1984. I sostenitori della difesa dell’URSS ad oltranza e quelli della sua liquidazione si fronteggiarono anche in modo drammatico, e, sempre a mio avviso, la svolta decisiva a favore dell’opzione di “liquidazione” dell’URSS fu la vicenda dell’abbattimento da parte di un intercettore sovietico del volo della Korean Air Lines da New York a Seoul del 1° settembre 1983 nel mar del Giappone. In quel momento gli Stati Uniti avevano la scusa per iniziare la terza guerra mondiale con largo utilizzo di armi atomiche. Ma Washington non sfruttò l’occasione, forse perché aveva già concordato condizioni vantaggiose con il “partito dei liquidatori” di Mosca.

 

Le motivazioni della difficoltà sovietica di quel periodo mi sembrano plausibili, la modalità assomiglia ad una “spy story”.

È solo un’impressione dettata dalle biografie personali dei protagonisti della trattativa che ne hanno influenzato lo stile. Abbiamo visto che gli interpreti erano specialisti della politica estera e dei servizi segreti. Occorre invece sottolineare che la trattativa e l’accordo di quegli anni non rappresentavano affatto una novità.

Di medesima importanza va ricordato il precedente accordo strategico tra USA e URSS a chiusura della crisi dei missili di Cuba del 1962. Quella volta l’accordo tra la Casa Bianca e il Cremlino riguardò ad esempio, anche l’Italia. Sono convinto che uno degli “articoli” non scritti prevedeva la mano libera per Washington di procedere all’eliminazione fisica di un nemico storico delle Sette Sorelle come Enrico Mattei, cosa puntualmente avvenuta il 27 ottobre 1962 in piena chiusura dell’affair dei missili. Da un punto di vista storico, nemmeno la decisione della dirigenza sovietica, a mio avviso caldeggiata da Gromyko, di liquidare il paese dei soviet rappresenta una novità. Noi non possiamo sapere quali argomenti sono stati usati dal “partito dei liquidatori” per far passare questa grave decisione, ma possiamo immaginarne le ragioni di fondo facendo parallelo con un altro momento storico. Victor Hugo nei primi capitoli del secondo Tomo del suo capolavoro “I Miserabili” descrive mirabilmente la battaglia di Waterloo. Ad un certo punto del racconto, Hugo afferma che la sconfitta di Napoleone non fu dettata dai fatti contingenti della battaglia, dalla pioggia che rallentò fatalmente la sua artiglieria, dal ritardo dei suoi rinforzi rispetto a quelli prussiani eccetera; il celebre scrittore affermò che la sconfitta di Bonaparte era semplicemente scritta nelle cose, che nel XIX secolo non vi era più posto per la Francia di Napoleone, che era lo spirito della storia in persona ad esigere la caduta dell’Imperatore dei francesi.

Come “tradurre”, per noi marxisti, le pagine del grande scrittore? Hugo intendeva dire che la Francia non poteva più reggere altri anni come quelli passati dal 1789 al 1815, cioè gli anni terribili della rivoluzione, seguiti da quelli drammatici dello stato d’assedio, e infine sfociati nelle guerre interminabili della dittatura militare del Bonaparte. La Francia non poteva più reggere economicamente, socialmente e quindi politicamente alla perpetua pressione della maggiore potenza di allora, la Gran Bretagna, sorretta dal suo immenso impero coloniale e aiutata militarmente da tutti gli eserciti europei organizzati in ben sette coalizioni continuate. Hugo lo fa intendere, il primo paese che voleva farla finita con il regime di Napoleone era proprio la Francia. La nazione aveva bisogno di rientrare nella normalità di allora, quella della Restaurazione, a fronte però del mantenimento della sua integrità territoriale, della sua capacità economica e militare. Chi furono gli strateghi della liquidazione del regime bonapartista? Quali furono le personalità che trattarono con Londra e i suoi alleati? Furono personalità di vertice dell’impero francese: il ministro degli esteri Charles-Maurice de Talleyrand, importanti Marescialli di Napoleone come Soult e Marmont. Quante rassomiglianze con la storia dell’Unione sovietica: gli anni terribili della rivoluzione; quelli tragici della guerra civile coi Bianchi e dello stato d’assedio organizzato dalle potenze occidentali, il famigerato cordone sanitario; quelli dell’incredibile vittoria contro il nazismo e la sua “perfetta” macchina militare, la Wehrmacht; e, infine, la pressione incessante della maggiore potenza del mondo, gli Stati Uniti, sotto forma di corsa agli armamenti del secondo dopoguerra. Gromyko ha letto i “Miserabili”? Probabilmente sì e non solo lui. È un fatto che, mentre Gorbaciov recitava la parte del democratico da operetta, l’URSS privava gli alleati del Comecon del fondamentale supporto, e il dramma della crisi economica progressiva, ad esempio, della DDR risiedeva proprio nella forte diminuzione dei suoi rapporti con la grande industria sovietica, non avendo sbocchi alternativi nemmeno nel mercato della vicina Germania Ovest. Il segretario del PCUS passava le sue giornate a farsi intervistare dalle TV occidentali, che non credevano ai propri occhi di trovarsi di fronte ad un idiota politico simile; ma Gromyko stava al vertice dello Stato, sorvegliando che gli accordi con gli americani fossero rispettati.

 

Accenni continuamente a questi accordi. Ma non ci sono stati incontri al vertice, documenti ufficiali. Cosa intendi allora per “accordi”?

Questa è certamente la parte più difficile da spiegare, ed è quella più importante da studiare. Dagli articoli non scritti di quest’accordo è scaturita la società nella quale viviamo oggi, che sarebbe stata certamente diversa se l’URSS non fosse stata liquidata.

Vediamo innanzitutto i contraenti. Da un lato gli Stati Uniti, che non solo hanno pagato caro quell’accordo, ma che lo stanno pagando tutt’ora sotto forma del loro assurdo debito pubblico: 28.778 miliardi di dollari mentre facciamo quest’intervista. Quindi se di “vittoria” americana bisogna parlare, va correttamente ascritta nella famiglia delle “vittorie di Pirro”, perché purtroppo per tutti noi la deflagrazione della madre di tutte le bolle speculative, il dollaro, prima o poi arriverà. Dall’altra parte vi era la Russia, cioè la classe dirigente sovietica russa. Lo abbiamo visto, la Russia degli anni Ottanta del XX secolo stava alla Francia degli anni Dieci del XIX secolo, i rispettivi “imperi” sono stati liquidati perché divenuti insostenibili per le nazioni che ne erano centro propulsivo; e detto per inciso, anche gli inglesi avevano liquidato il proprio immenso patrimonio coloniale per ragioni analoghe. Anche se i russi non erano più sovietici, mantenevano i sacri crismi della grande potenza vincitrice della seconda guerra mondiale, detentrice di un valido arsenale atomico e missilistico, tale per cui Washington riconosceva comunque Mosca come valido contraente l’accordo. I contenuti dell’intesa possono essere solo desunti da quanto accaduto dopo il “crollo del muro di Berlino”. Certamente gli Stati Uniti ottennero mano libera su tutto il mondo che, sostanzialmente, non fosse Russia e Cina. Sono innumerevoli le conseguenze di questa “mano libera”, possiamo solo elencarne alcune sommariamente e insufficientemente.

Una conseguenza, per esempio, riguardò l’Italia: gli americani giunsero alla tanto agognata resa dei conti con “l’alleato poco alleato”; fu decretata la fine dell’economia mista e dei suoi partiti protettori, Democrazia Cristiana e Partito comunista, per il nostro paese il futuro sarebbe stato il liberismo più volgare e becero possibile, quello che stiamo vivendo oggi. Ecco la seconda ragione esterna che determinò in modo irresistibile il diverso destino del PCI rispetto a quelle del PCC.

In campo internazionale, gli USA pretesero la dissoluzione della Repubblica democratica tedesca e la sua annessione “violenta” alla Repubblica federale tedesca; la liquidazione di tutti i regimi comunisti dell’est europeo e spostamento progressivo della NATO ai confini simili a quelli definiti dalla pace di Brest-Litovsk del marzo 1918 (cosa accaduta tranne che per la Bielorussia). In cambio la Russia ottenne il rispetto dei suoi confini nazionali, comprensivi della Siberia fino a Vladivostok, e tempo per gestire la transizione dall’URSS alla Russia che conosciamo oggi, in una modalità simile a quella della Francia della Restaurazione: un particolare mix tra bandiera zarista e inno nazionale sovietico, come lo fu quello della bandiera gigliata borbonica e del codice civile napoleonico della Francia di Luigi XVIII. La modalità della trattativa appartiene poi al mondo della segretezza, dei canali riservati, dei rapporti tra classi dirigenti al massimo livello sia negli Stati Uniti che nella Russia, questa è la ragione dell’assenza di evidenze pubbliche. Gli anni Novanta furono tanto fondamentali quanto poco studiati: gli anni nei quali i due contraenti si guardavano vicendevolmente con sospetto per capire se i termini dell’accordo non scritto fossero realmente rispettati, oppure se uno dei contraenti, soprattutto gli Stati Uniti, fosse tentato di fare “il furbo”.

 

Secondo te gli Stati Uniti furono tentati di violare i patti?

Certamente che lo furono. Tradire la parola data è una delle principali cifre della cultura politica americana.

Il primo lustro degli anni ‘90 fu pervaso dall’idea del grande colpo ai danni della Russia ed è un altro capitolo da studiare; in generale gran parte degli anni della Presidenza di Boris Elstin offrirono agli americani un’opportunità strategica simile a quella che avevano avuto nel 1983. E non si può dire che gli USA non ci provarono: la dollarizzazione della Russia, la liquidazione di grandi industrie di stato, la possibilità di mettere le mani sulle immense ricchezze celate nel sottosuolo della Siberia diedero le vertigini ai centri di potere americani. Noi abbiamo potuto osservare solo alcuni movimenti esteriori del tentativo di mettere a sacco la Russia; ad esempio, la trasformazione di ex boiardi di stato in grandi capitalisti. Dovremmo occuparci delle biografie di uomini come Boris Berezovskij, del suo protetto Roman Abramovič ed altri personaggi di quella risma. Quante idee girarono in quegli anni ruggenti nella testa degli strateghi “democratici” occidentali circa il futuro della Russia, quanti scambi di opinioni tra l’allora Presidente Bill Clinton e i suoi sodali Tony Blair e Massimo d’Alema. Ma siccome, gira e rigira, questi personaggi sono generalmente privi di fantasia, le loro idee si potevano ricondurre ai contenuti del famigerato “piano Parvus”, che era girato nei mesi successivi alla rivoluzione russa di febbraio ‘17, cioè l’ulteriore smembramento della Russia nelle sue repubbliche costitutive.

A metà degli anni ’90 gli americani ci pensarono seriamente ad una nuova “operazione Barbarossa”. L’occasione fu la guerra civile Jugoslava che permise l’aggressione Nato nei confronti della Serbia, storica alleata della Russia, nella speranza di causare il medesimo meccanismo che aveva innescato la prima guerra mondiale: la Russia che “mobilitava” per proteggere la Serbia, e di conseguenza forniva alla NATO la scusa per far correre i suoi carri armati nelle steppe russe. Ma ancora, come nel 1983, qualcosa bloccò le intenzioni della Casa Bianca; altro passaggio delicato da studiare. Nel momento di sferrare il gran colpo, dopo l’attacco alla Serbia del 1995, è come se gli Stati Uniti fossero stati costretti a rientrare nei termini dell’accordo coi russi degli anni Ottanta.

A mio avviso accaddero due cose: la prima, Mosca fece capire che la guerra alla Serbia era considerata una trasgressione dell’accordo ma che, invece di mobilitare l’esercito, si preferiva lanciare missili atomici in direzione dei membri europei della NATO, suscitando un certo disappunto nelle cancellerie del vecchio continente; la seconda ragione più intima al sistema americano e quindi decisiva, agli Stati Uniti venne meno la “forza” economica e politica per sferrare il gran colpo e di assorbirne il relativo contraccolpo, anche se ridimensionato dalle condizioni di relativa disorganizzazione dell’esercito russo di quegli anni. Questa mancanza di forza nel momento di cogliere una clamorosa occasione strategica ha dei precedenti nella storia recente: il 12 novembre 1917, come noto, le armate austro-ungariche e tedesche sfondarono le linee italiane a Caporetto, in quei giorni gran parte della Pianura padana era data per persa e si progettava una nuova linea difensiva lungo il fiume Po. Gli imperi centrali potevano ragionevolmente prendere il Veneto per poi invadere agevolmente la Lombardia. Invece gli austriaci si piantarono sulla linea del Piave e da lì non si spostarono più; in quelle settimane l’industria, l’economia e la situazione sociale nell’impero degli Asburgo cessarono di dare vigore e spinta all’avanzata militare.

A mio avviso, e in scala ancora maggiore, lo sforzo industriale, economico e soprattutto il costo sociale e militare che l’aggressione alla Russia avrebbe comportato non fu ritenuto sopportabile dalla parte maggioritaria della classe dirigente americana, mentre la consapevolezza che l’Europa occidentale sarebbe andata incontro ad un olocausto nucleare non rappresentò mai un fattore di preoccupazione. Dopo il 1995 gli Stati Uniti dovettero mutare nuovamente e radicalmente la loro strategia globale perché l’accordo con i russi sovietici degli anni Ottanta era una “polpetta avvelenata” che stava rilasciando i suoi miasmi proprio a partire dal secondo lustro degli anni Novanta. Intendo dire che gli Stati Uniti, non potendo sferrare il colpo decisivo alla Russia nel momento di sua massima debolezza dovettero passare forzatamente dalla fase offensiva che avevano tenuto dal 1983 a quella difensiva a partire dal 1995.

 

Sembrerebbe dal tuo ragionamento che l’accordo tra Stati Uniti e Russia sia stato trovato da potenze ambedue in profonda crisi.

Esattamente. Ed è questo il calcolo che ha fatto vincere il partito dei “liquidatori” dell’URSS: la certezza che gli americani non avrebbero comunque avuto la forza di assoggettare la Russia, anche se in difficoltà economica, sociale e politica al loro impero.

Sono stati due gli avvenimenti significativi che sono “sfuggiti” al ferreo controllo di Washington, a causa dell’esaurimento della sua “energia politica”: la nomina di Vladimir Putin a presidente della Russia il 31 dicembre 1999, determinando il tramonto definitivo, per gli americani, dell’opportunità di sferrare un colpo militare diretto a Mosca; la consapevolezza che Washington non avrebbe potuto impedire che, all’interno di un’Unione Europea che stava diventando cosa diversa rispetto al suo originale proposito, i suoi membri fondatori si stessero dotando di una moneta unica, quell’Euro entrato in vigore il 1 gennaio 2002. Se gli Stati Uniti avessero avuto la forza dei decenni precedenti entrambe le cose non sarebbero successe.

E veniamo al passaggio finale e che ci riguarda direttamente, nella nostra vita quotidiana, nell’economia, nella società e nella politica: l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. Agli inizi del nuovo millennio gli Stati Uniti dovettero fronteggiare due elementi di crisi: uno immediato e uno potenziale. Quello immediato è dovuto alla mancata dollarizzazione della Russia, al fallito saccheggio di quel paese e delle sue enormi ricchezze naturali che non sono state quindi rese disponibili alla “carta dollaro” per la sua “mistica trasformazione” in valore. Ora quella terribile massa di “non valore” sarebbe ritornata ad inondare il mercato finanziario domestico. Quello potenziale: era chiaro alla classe dirigente americana, poco ferrata di industria ma tanto di speculazioni finanziarie, che l’Euro sarebbe stato una temibile alternativa nel campo capitalista. La moneta unica europea, unione di monete forti come Marco tedesco e Franco francese, il cui valore è stato opportunamente calmierato da monete deboli come Lira italiana e Peseta spagnola, nasceva espressione di un’area sviluppata dal punto di vista industriale, capace di acquisire progressivamente valore dai surplus commerciali ottenuti sia nel suo mercato interno che dalle sue esportazioni nelle zone extra Euro.

Elezione di Putin e varo dell’Euro furono quindi frutto di debolezza della metropoli imperiale, e che andava immediatamente scongiurato. Occorreva una stretta violenta all’interno degli Stati Uniti prima e nelle province dell’impero subito dopo, occorreva una “Controriforma liberista” che fu plasticamente varata con l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. Questo a mio avviso è il profondo significato politico di quell’attentato. A meno che non vogliamo credere che dei pastori montanari afgani possano tranquillamente far schiantare areoplani sui grattaceli di New York all’insaputa di satelliti, sistemi d’intelligence, CIA, FBI, innumerevoli altre agenzie, eccetera. Quest’anno cade il ventennale di quei terribili attentati, ma il loro obiettivo è stato finalmente raggiunto.

 

Di quale obiettivo parli?

L’eliminazione di ogni vera opposizione. Adesso possiamo tornare al tema dei differenti destini di PCC e PCI. Abbiamo visto quali sono stati gli elementi decisivi esterni che hanno determinato la fine del Partito comunista italiano: la scelta degli Stati Uniti di andare alla sfida finale con l’URSS, chiudendo il fronte cinese, e coinvolgendo in questa tremenda lotta inevitabilmente anche il PCI; la mano libera che Washington ha avuto sull’Italia nel liquidare brutalmente la sua economia mista e i suoi numi tutelari DC e PCI; l’equiparazione dell’Italia ai paesi dell’ex blocco sovietico, nazioni nelle quali è stato applicato il liberismo più brutale, alla sudamericana per intenderci. Ma in generale la “Controriforma liberista” è la realizzazione della società orwelliana non in fantomatiche dittature staliniane, ma nelle tanto decantate democrazie occidentali.

È stata una costruzione costante di questi ultimi vent’anni, ed oggi possiamo “ammirarla” nel governo Draghi. Un capo del governo non eletto da nessuno, privo di un partito ma padrone di tutti perché nominato dal “Grande fratello” della Casa Bianca; un partito unico che copre tutto l’arco costituzionale, diviso in correnti che si definiscono fraudolentemente partiti; una falsa opposizione; un sistema d’informazione fatto ad immagine e somiglianza del Ministero dell’Amore descritto nel romanzo 1984, dove ogni notizia viene “lavorata” per essere ricondotta alla storia voluta dal grande capitale, un canto unico a lode incessante del governo. Sotto questa terribile sovrastruttura langue una società sempre più diseguale dove, molto semplicemente, si stanno ricacciando le giovani generazioni alle condizioni di vita, alle prospettive, alle speranze che potevano avere i proletari di Parigi o di Londra nell’Ottocento, oppure ai contadini delle sterminate steppe della Russia zarista. Ma per potere far tutto questo occorre un ferreo controllo sull’opinione pubblica, e una guerra senza quartiere contro chiunque possa allestire una vera opposizione seria, un’opposizione capace di critica scientifica, un’opposizione marxiana. Oggi gli oppositori che i mass media ci mostrano sono degli esagitati No Vax, ridicoli propugnatori di tesi complottiste, avversari senza dialettica del Green Pass. Occorre comprendere che tra la realtà e la sua rappresentazione, nell’era della Controriforma liberista, vi è il filtro del Ministero dell’Amore di Orwell: Tg, radio e giornali che sostituiscono parole, correggono fatti, banalizzano il passato, cancellano la storia.

 

Costruire una nuova opposizione, quindi?

Esattamente. I comunisti dovrebbero fare questo, costruire una nuova e credibile opposizione, essendo consci, sempre a mio avviso, di quanto ci siamo detti fino ad ora. Se non saremo in grado di farlo, perché vittime dei personalismi, delle divisioni, e dei dottrinarismi, lo farà inevitabilmente qualcun altro, condannandoci all’oblio. In Italia vi sono altre due tradizioni potenzialmente oppositrici del Grande Fratello alla Mario Draghi: la chiesa cattolica da un lato e la terza via del programma di San Sepolcro dall’altro. In ogni caso, se non sorgerà una vera opposizione, i signori del Capitale fittizio, nel giubilo di televisioni, radio e giornali, ci riporteranno tutti nelle caverne della preistoria, mentre loro voleranno nello spazio a bordo delle astronavi turistiche di Elon Musk.


* Ricercatore politico; Responsabile Esteri PCI Lombardia

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