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carmilla

La variante cinese

di Nico Maccentelli

MV5BMjY3Njk4MjYtYTBiMC00OWEyLWE1NDItNDM0Y2M1OTJkZjliXkEyXkFqcGdeQXVyNjI5NTk0MzE. V1 768x1024“Uno degli elementi più negativi nel pensiero comunista europeo degli ultimi 30 anni è sicuramente rappresentato da una concezione astratta del “socialismo”. Ridotto a una serie di princìpi totalmente indipendenti dalla realtà storica, validi in modo identico per qualsiasi formazione sociale (europea, asiatica, africana o americana), pressoché impossibili da rispettare concretamente. Una sorta di paradiso originario collocato nel lontano futuro anziché nel passato remoto.”

Inizia così un articolo di Contropiano a firma di Francesco Piccioni su un pezzo di Guido Salerno Aletta, dal titolo: Tra stato e mercato la Cina e l’Occidente neoliberista, attaccando praticamente chi riguardo la Cina di oggi non ripone fiducia nelle “magnifiche sorti” del suo inesistente socialismo.

In realtà l’articolo in questione inizia con un falso storico-temporale che occulta e separa dalla questione cinese odierna un tema fondamentale per tutto il movimento comunista novecentesco e odierno: la lotta contro il revisionismo e ciò che differenzia una sinistra rivoluzionaria da questo. Altrimenti la storiella della “concezione astratta del socialismo” non reggerebbe. E il falso è nella datazione dei 30 anni.

E in realtà non sono 30, bensì 60 anni che questo dibattito divide il movimento comunista, sin dai tempi in cui il maoismo ha rappresentato nello scontro politico con il togliattismo la linea di demarcazione tra una visione rivoluzionaria e una revisionista. E fu proprio la politica rivoluzionaria maoista a fare da incipit a gran parte delle lotte di liberazione antimperialista e alle sinistre rivoluzionarie dalle campagne alle metropoli.

Dunque è dai primi anni ’60 che inizia la polemica tra il Partito Comunista Cinese e quello italiano (1). Da questa polemica nacque un linea rivoluzionaria che ripudiava il gradualismo togliattiano, la coesistenza pacifica con il capitalismo, che criticava una visione politica che metteva al centro il riformismo, le riforme di struttura versus un riproposizione del leninismo nei suoi principi tutt’ora validi negli anni ’60 come oggi.

Detto per inciso, l’approccio revisionista è stato poi sviluppato attraverso il denghismo con la sconfitta della Rivoluzione Culturale di Mao e l’avvento della borghesia burocratica nel PCC. Per cui se una chiave di lettura marxista va data della Cina di oggi è da allora che occorre partire, non da 30 anni fa. E non certo da una visione pragmatica e tecnocratica che evidentemente ha affascinato i compagni di Contropiano.

In Italia, la critica al togliattismo proveniente dai compagni cinesi agli inizi degli anni ’60 fu il propellente di tutto il movimento comunista alla sinistra del PCI. E questa datazione postuma è solo un tentativo di mistificare la questione per non far vedere che ci si sta sbarazzando non dell’acqua sporca, ma del bambino. Questa impostazione filo cinese è in palese contraddizione con la provenienza politica di molti compagni della sinistra di classe. È una questione che pertiene la memoria storica della lotta di classe rivoluzionaria in Italia e non solo, su questa separazione tra rivoluzione e riformismo hanno combattuto generazioni di comunisti, scegliendo strade e strategie politiche di rottura con la compatibilità “tattica” col capitalismo.

Questa “concezione astratta del socialismo” non creò solo le organizzazioni di stretta osservanza maoista, ma influenzò tutta la sinistra extraparlamentare e lo stesso operaismo. Questa “concezione astratta del socialismo” in Cina diede vita alla più straordinaria mobilitazione dal basso per un intero decennio dalla metà degli anni ’60 fino al 1976: la Rivoluziona Culturale con le Guardie Rosse, che rimettevano in discussione la presenza nel PCC di un’ala borghese che stava andando esattamente dove la Cina è arrivata oggi.

Per cui si abbia il coraggio di dire che Mao aveva sbagliato e Deng Xiaping ragione invece di starci a girare attorno facendo giochetti sulle date. Almeno Giorgio Cremaschi nel suo intervento al convegno della Rete dei Comunisti dello scorso anno sulla Cina è stato coerente con la sua storia politica (la sua provenienza è il PCI) nel sostenere che Togliatti aveva ragione e Mao torto. È più apprezzabile perché pur se opinione che ritengo sbagliata, quanto meno è lineare col suo imprinting politico.

Di fatto senza questa spaccatura nel movimento comunista internazionale, non ci sarebbe stata politica rivoluzionaria, autonomia di classe, ma neppure quella critica culturale che partiva dai Sartre, dai Sanguineti fino ad arrivare ai Godard, ai movimenti operai e studenteschi dalla Francia del maggio agli USA dei campus, all’Italia con le due ondate del ’68 e del ’77, alle culture dell’antagonismo e della rottura con le convenzioni borghesi degli anni ’70, nelle quali il PCI stesso si ritrovava ingessato, incapace di capire i mutamenti della società, dei cicli di produzione del capitale, della composizione di classe e via dicendo.

Dunque per Piccioni e soci un’analisi critica riguardo una Cina governata da un’oligarchia di mandarini di stato e di partito con forti interessi finanziari e azionari nelle multinazionali cinesi private e di stato è astratta. Per costoro il fatto che l’intreccio di interessi e potere tra i 600 miliardari cinesi e questi mandarini sarà un dettaglio: peccato che sia il risultato di un revisionismo che ha fatto leva sulle contraddizioni di una rivoluzione in un paese di centinaia di milioni di persone, bloccandola e facendo tornare indietro gli orologi della storia, creando una nuova borghesia in un’economia di fatto capitalista che di socialismo non ha più neppure l’odore.

Forse per costoro sono astrazioni anche le posizioni politiche delle forze comuniste che oggi come ieri combattono concretamente l’imperialismo, come il Partito Comunista delle Filippine: qui le sue annotazioni al fulgido e magnificamente progressivo discorso di Xi Jinping.

Saranno astrazioni, ma a queste domande che sorgono spontanee nel vedere la Cina di oggi che risposta diamo? Che risposta diamo a:

nel potere classista composto da un’oligarchia di burocrati insieme al manageriato di multinazionali, del capitale privato…

nell’integrazione tra capitali finanziari e multinazionali…

nella polarizzazione tra 626 miliardari che concentrano la ricchezza sociale e le classi popolari cinesi in un miliardo e 400 milioni di persone…

nel divario salariale abissale tra classi e settori sociali…

nel ammortizzare la caduta tendenziale del saggio di profitto occidentale consentendo proficue esternalizzazioni al capitale occidentale…

nell’uso della forza-lavoro dalle campagne come i nostri caporali usano quella esterna dei migranti…

… che socialismo c’è?

È sufficiente uno stato che pianifica per definire una società come socialista? Dalle mie parti era la socializzazione dei mezzi di produzione non lo sviluppo di un’economia privata (pur con tutte le sue diversità dai modelli neoliberale e ordoliberale occidentali) a definire la transizione al socialismo. Nemmeno Togliatti con le sue riforme di struttura dava come prospettiva l’uscita dalla povertà e basta… ma che il popolo non governi, non si socializzino i mezzi della riproduzione sociale, non si abbia come scopo l’uguaglianza sociale. L’armonia confuciana regni tra sottoposti e dignitari del sovrano. E tutto resti così com’è nelle differenze sociali, nei rapporti di classe. Ma la critica a tutto questo è evidentemente un’astrazione per i nostri amici di Contropiano. Astrazioni che hanno ricadute ben concrete in una lotta di classe che in Cina è proseguita anche nella repressione antioperaia da parte delle autorità dello stato e del PCC contro i gruppi maoisti e i lavoratori che protestano e vogliono sindacati indipendenti (2).

Un’economia capitalista, che si fonda sul globalismo e l’interconnessione di filiere, capitali e mercati, che non va verso la socializzazione dei mezzi di produzione, ma verso uno sviluppo di questo modello capitalistico, per gli amici di Contropiano è “socialismo dalle caratteristiche originali”. Sino alla bestialità di definire “lotta di classe” la contraddizione intercapitalistica tra Cina e potenze imperialiste atlantiste (3), come se da parte cinese vi sia un proletariato al potere con la sua strategia internazionalista al socialismo, che sia comunismo di guerra o NEP, o arrivo a dire persino revisionista e kruscioviana “coesistenza pacifica”. Persino quest’ultima, persino il revisionismo classico non arriva alle alte vette di spregiudicata tecnocrazia e integrazione intercapitalistica degli attuali gruppi dirigenti cinesi, così ben decantate dai suoi esegeti.

Cosa significa allora oggi riesumare il denghismo (perché di questo si tratta), il suo approdo non a un socialismo, ma neppure a una sua transizione, bensì a un sistema capitalistico che utilizza altre leve della politica economica, più stato nel mercato (un refrain dello “stato piano” degli anni del dopoguerra della seconda metà del Novecento)? Cosa significa tessere le lodi del confuciano PCC di Xi Jinping, che ha abbandonato la teoria e la prassi maoiste della contraddizione? Cosa significa collocare la Cina di oggi in una sorta di “socialismo originale”, termine usato non solo da Salerno Aletta e Contropiano, ma anche da Carlo Formenti, e dal gruppo di Marx21?

Significa porsi alla destra del riformismo togliattiano uscito dall’VIII congresso del PCI nel 1956 (4) e, se si analizza bene, probabilmente anche di quello di Amendola degli anni ’60: una posizione ancora più moderata delle “riforme di struttura”, ancora più gradualistica, ancora più compromissoria col mercato capitalistico.

Dobbiamo arrivare all’Eurocomunismo del periodo berlingueriano per trovare quelle logiche di commistione con i tempi e i modi della produzione capitalistica, della riproduzione sociale del rapporto capitale/lavoro che oggi caratterizzano le stesse logiche cinesi: quando il PCI nel laboratorio emiliano metteva in atto con il decentramento produttivo la scomposizione di classe funzionalizzando la “rossa” Emilia ai tempi e ai modi della produzione capitalistica e alle modalità in cui il capitale procedeva con la ristrutturazione dei cicli di produzione.

La politica economica dei “mandarini” cinesi di partito nel rapporto capitale/lavoro non ricorda forse queste alchimie produttiviste e di irrigimentazione della forza-lavoro in Emilia di un PCI che negli anni ’70 spacciava l’attacco alla rigidità operaia per modernità? E non sono forse queste le politiche sociali e di produzione tipiche della peggiore socialdemocrazia?

Concludo con un’ultima perla, sempre dall’articolo Tra stato e mercato, la Cina e l’Occidente neoliberista.

Sino ad ora abbiamo visto il nostro autore criticare la “concezione astratta del socialismo” rivolta a chi critica il “socialismo originale” cinese. Come se non fosse ovvio che il socialismo scientifico si basa sull’analisi concreta della situazione concreta. Come se non fosse evidente che dalla storia della lotta di classe e dalle esperienze di socialismo del Novecento si è compreso che ogni paese, ogni formazione economico-sociale deve trovare il suo percorso al socialismo nel processo rivoluzionario di abbattimento del capitalismo.

Sicuramente sono tanti i comunisti che hanno un approccio libresco e astratto della rivoluzione socialista. Vengono in mente le battaglie di cortile tra i vari “ismi”, rivangando diatribe superate ed episodi morti e sepolti della storia del movimento comunista mondiale: queste caricature del marxismo servono alla fine per creare un comodo alibi. La rampa di lancio dei salti della quaglia.

Ma venendo al sodo: cosa sta alla base dell’analisi concreta della situazione concreta dell’autore di questo articolo? Ossia, contro la visione “astratta” del socialismo cosa contrappone il nostro? Ce lo spiega così:

“Ricordiamo che la definizione di Marx era molto più laica: da ognuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo il suo lavoro. Che è certamente una formulazione astratta, ma che descrive un criterio invece che una serie di “istituti” teoricamente caratterizzanti una formazione sociale “socialista” (inevitabilmente varianti a seconda del livello di sviluppo di un certo paese, le tradizioni locali, le culture, ecc). L’“eguaglianza” – per esempio – in condizioni di povertà o di relativo benessere generale, in pace o in guerra, ecc, può significare cose molto diverse.”(5)

Va bene l’originalità di un dato socialismo in un dato contesto sociale, ma se il socialismo si distingue per la sola massima timbrata e controfirmata da Marx: da ognuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo il suo lavoro, c’è proprio da star freschi! Anche perché Marx ha detto tanto altro nella definizione di socialismo. E non è un caso che proprio un aspetto dirimente manchi dalla definizione data da Piccioni. Una questione su cui Marx, Engels, Lenin, praticamente tutti hanno posto al centro dell’ontologia del socialismo. La socializzazione dei mezzi di produzione, ecco cos’è l’aspetto qualificante il socialismo. Ed è qui che casca l’asino.

Che una classe dirigente borghese utilizzi lo Stato e la pianificazione per un’economia di mercato sarebbe già socialismo, è così? Lo abbiamo già visto prima che non basta.

Ma proprio per non scadere in una visione astratta, occorre considerare tutto il processo economico-sociale, non solo lo sviluppo delle forze produttive (chi le sviluppa? Anche nel capitalismo c’è una borghesia che le sviluppa…), non tanto quindi un approccio tecnocratico, ma una progressione a forte partecipazione popolare, un processo economico-sociale che nella transizione procede alla socializzazione dei mezzi della riproduzione sociale. In Cina dal 1976 avviene il contrario. E parlare delle centinaia di milioni che stanno uscendo dalla fame, di progresso tecnologico, non caratterizza questo paese come socialista, quando insieme alla crescita di una forte economia privata si forma una vasta classe media, quando le differenze sociali si acuiscono e, soprattutto, quando non c’è una reale democrazia socialista di popolo.

Da ognuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo il suo lavoro… grazie, anche nel capitalismo può essere applicato questo criterio. Allora questo cosa vuol dire: che se io sono disabile e le mie capacità danno una certa performance nel lavoro, ottengo in base al mio lavoro? Ma questo è liberalismo! Esattamente come la concezione cinese. Semmai il criterio è quello di dare a tutti in base ai propri bisogni, dare a tutti l’opportunità e il diritto a un’esistenza soddisfacente. Questa è l’uguaglianza, non il pastrocchio darwiniano che emerge da queste poche righe maldestre! E il liberalismo si pone per l’appunto alla destra del togliattismo, ossia di una visione gradualistica del cambiamento al socialismo.

Solo se affianchi questo tipo di uguaglianza sociale alla socializzazione dei mezzi di produzione (questo voleva dire Marx), ossia alla democrazia economica e sociale, alla gestione di un’economia sempre più pubblica e sempre meno privata da parte degli organismi democratici popolari, si può parlare di transizione al socialismo. Ciò che non sta avvenendo in Cina. La Cina è un paese liberale la cui progressione non è la socializzazione.

In definitiva la “variante cinese” è un virus ideologico che colpisce i comunisti, non è “uno spettro che si aggira per l’Europa”. È parte di un revisionismo ricorrente che si ripresenta nei contesti più impensabili e in forme sempre nuove.

Ma allora, l’ultima domanda che sorge al di là di tutte le belle chiacchiere sulle “magnifiche sorti del socialismo” cinese, è: quale politica per il proletariato italiano? Un movimento comunista affetto da questa variante cinese quale strategia politica svilupperà in coerenza con questa nuova visione così “concreta” che ha assunto?

Chiedo per un amico.


Per approfondimenti, rimando a un mio articolo apparso sempre su Carmilla:
https://www.carmillaonline.com/2021/01/16/mi-e-semblato-di-vedele-un-gatto/
e a un intervento sul mio blog:
https://maccentelli.org/piano-contro-mercato/
Note:
1. Le divergenze tra il compagno Togliatti e noi e Ancora sulle divergenze tra il compagno Togliatti e noi, Reprint a cura della Cooperativa Editrice Nuova Cultura, Casa Editrice in lingue estere Pechino, 1963
2. Ho analizzato qui, sempre su Carmilla, un articolo della sociologa cinese Pun Ngai sulla lotta operaia nel 2018 alla Jasic Technology di Shenzhen
3. https://contropiano.org/news/news-economia/2021/12/30/loccidente-sta-perdendo-la-lotta-di-classe-0145289
4. Si veda: https://fondazionefeltrinelli.it/app/uploads/2019/03/Socialismo-e-riforme-di-struttura_Togliatti-1956_download.pdf
5. Tra stato e mercato, la Cina e l’Occidente neoliberista: https://contropiano.org/news/politica-news/2022/01/01/tra-stato-e-mercato-la-cina-e-loccidente-neoliberista-0145335?fbclid=IwAR3CMeiHCYYD-KfsXdMIJ25-WuJl8Y61ZQ3OFxljZpy8BOUwyAIN1y82i1w

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romke
Friday, 21 January 2022 01:46
ll succo della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria in Cina è stato, in ordine cronologico, l'ultimo tentativo del proletariato di prendere il potere nella società per esercitare la propria dittatura e iniziare la transizione al socialismo.
La Comune di Parigi e lo Stato dei Soviet in Russia avevano dimostrato, proprio con la loro sconfitta, che il proletariato deve procedere alla decostruzione e distruzione dell'apparato statale ereditato dal passato affinché nuove sovrastrutture politiche fossero sperimentate per favorire, e non ostacolare, il processo di socializzazione dei mezzi di produzione, l'incremento della produzione del pari dello sviluppo di pratiche sociali democratiche per la maggioranza della popolazione e dittatura sui resti delle vecchie classi sfruttatrici e sui dirigenti politici attivi nel voler riportare il paese verso il capitalismo.
Il periodo che va dal 1965 al 1976, anno della morte del Presidente Mao Tse-tung, è stato denso di movimenti rivoluzionari. Milioni di persone in tutto il paese hanno partecipato alla critica degli elementi borghesi nel partito e nelle amministrazioni pubbliche; da quella vasta pratica di massa sono emerse forme di democrazia diretta non solo in campo politico ma anche economico e intellettuale. Un'esperienza che deve essere conosciuta dal proletariato internazionale. Purtroppo non è bastata, gli elementi borghesi che avevano ingaggiato una lotta mortale contro il potere proletario alla fine hanno vinto quella battaglia.
Hanno fatto di tutto per cancellare il ricordo di quel periodo.
Dal colpo di stato di Hua Guo-feng, l'ottobre 1976 appena un mese dopo la morte del Presidente Mao Tse-tung, la repressione poliziesca ha preso il posto della lotta politica, gli elementi borghesi che erano stati allontanati sono riapparsi e hanno diretto le vendette, spesso cruente, contro i rivoluzionari. I risultati ottenuti dal proletariato nell'industria e in agricoltura hanno costituito la base materiale della privatizzazione dell'economia espropriando le fabbriche agli operai e espellendo milioni di contadini dalle campagne, a farne salariati dell'industria.
Il partito comunista ha favorito la formazione di immense ricchezze e di una classe media funzionale alla catena di comando nella società finalizzata ad estorcere plusvalore al proletariato.
In cambio la casta del partito mira alla perpetuazione della propria condizione privilegiata, permette la ricchezza e lo sfruttamento ma impone la rinuncia all'iniziativa politica, che in Cina significherebbe creare partiti borghesi sicuramente finalizzati a minare il potere del partito.
Non è un caso che Confucio, scacciato a pedate dalla Rivoluzione Culturale, “abbasso Confucio-abbasso Liu Shiao-chi”, sia ritornato in gran forma richiamato dal PCC che ne apprezza la dottrina reazionaria riassumibile con “nella società ciascuno rimanga al posto cui è stato destinato”.
La Cina odierna un incubo per i proletari: costretti alla schiavitù del salario, senza nemmeno diritto di sciopero (che era garantito dalla Costituzione del 1975) e oppressi da un partito che si dice la loro guida verso....l'armonia!! Questo è il comunismo alla cinese.
Naturalmente i corifei italiani di quel socialismo si guardano bene, anche per ignoranza, di raccontare i fatti e le condizioni che hanno preceduto lo stato attuale delle cose; probabilmente imbeccati da uffici stampa e consolati attivi nel cucire contatti lungo la via della seta, ricevono gli argomenti per svolgere il loro compito di fiancheggiatori della Cina che oggi, nel procedere dello scontro interimperialista, ricerca simpatia da alcuni settori all'interno di altri paesi imperialisti.
Questi scrittori si sono presi una bella responsabilità nel negare la storia dei proletari cinesi, nel sostenere politiche criminali come quella del governo Kazako in perfetta sintonia con l'approvazione di Pechino. D'altra parte alcuni di questi elementi piccolo borghesi avranno anche fatto a tempo a dare dei facinorosi e voltare le spalle agli operai di piazza Statuto a Torino.
Lo schierarsi con il governo cinese nello scontro interimperialista è innanzi tutto contro la classe operaia cinese ed un brutto segno per i proletari italiani. Ma non possono fare altro perchè per la loro impostazione imperialisti sono solo gli USA, tutte le lotte di liberazione contro gli USA sono socialiste e la borghesia italiana per loro non è imperialista. Far riconoscere il ruolo della Cina come progressista è il mezzo ideologico e politico, qualora questo punto di vista fosse adottato dalla borghesia italiana, per rendersi disponibili a compromessi in campo internazionale e poi nazionale con la borghesia stessa, in nome di uno schieramento antimperialista.
Se ci dovesse essere bisogno di un'altra conferenza a Zimmerwald non vorrei trovarmeli al fianco.
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Paolo Selmi
Sunday, 09 January 2022 14:05
Cari compagni,

non so se questo commento vi arriverà mai, nel senso che non so se leggerete anche questo sito che vi riprende.

Condivido appieno i vostri argomenti anche se, perdonatemi il gioco di parole, li argomenterei diversamente. Polemizzare contro il capitalismo con caratteristiche cinesi è un esercizio che serve più, come ben fate del resto, se diretto ai corifei nostrani. Loro ci guardano neanche come una mucca vede passare il treno, ma come noi vediamo una formica incazzata perché con lo scarpone siamo andati troppo vicini al suo formicaio. Al massimo qualche funzionario solerte ci potrebbe togliere il visto d'ingresso se l'eco delle nostre grida arrivasse a qualche loro orecchia, o aggiungere il nostro nome alla lista delle persone non grate in mano agli Istituti Confucio, per cassare eventuali ingressi o avanzamenti in ambito di ricerca. Chiuso e morta lì. Questa è colonia CIA, il Guoanbu ci può bazzicare come l'FSB, a nicchia ecologica.

La polemica presuppone un dialogo, e il dialogo non c'è. Non c'è neppure con i compagni che menzionate, del resto. Vanno dritti, alcuni ormai da più di un decennio, per la loro strada. Del resto, nemmeno tra loro e i cinesi c'è un vero e proprio dialogo, se vi può consolare, ma un'amplificazione e ripetizione a senso unico di argomenti a favore. Operazione di per sé sterile, visto non solo lo scarso consenso che produce fra noi quattro gatti rimasti, ma anche l'interesse sempre più limitato all'argomento da parte di quella parte di società civile che magari, venti o trent'anni fa, sarebbe stata anche più coinvolta in un dibattito sulla costruzione (o "rifondazione") di un modo socialistico di produzione.

Non mi preoccuperei, pertanto, di "quale strategia politica svilupperà" un "movimento comunista affetto da questa variante cinese ". Le percentuali di consenso che rasentano gli esperimenti del CERN su materia e antimateria sono lì a dimostrarlo. Se un'organizzazione vuole organizzare un convegno finanziato da Pechino dove si ripetono slogan nati già stanchi prima ancora di essere tradotti in italiano, e a cui peraltro gli stessi relatori fan fatica sempre più a credere, il riscontro di tali eventi autoreferenziali è praticamente nullo. Il problema, quindi, non si pone. Non siamo negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso.

Mi pongo, tuttavia, un altro problema, molto più a monte. Parto, per esempio, dall'intervento di Maccentelli citato:
https://maccentelli.org/piano-contro-mercato/
E' tutto molto chiaro, "ad sensum", come mi rimproveravano i miei prof spesso di tradurre. Ma a noi quattro gatti rimasti lavorare "a senso" non può più bastare.

Badate, non lo dico a voi perché lo fate voi, ma perché lo fate ANCHE voi (e mi ci metto di mezzo io per primo, quindi dico "noi"). Agli altri giocare con le parole, chiamare transizione al socialismo la restaurazione del modo capitalistico di produzione, è GIOCOFORZA per continuare a dire qualcosa (per quanto riguarda i corifei nostrani) e per legittimare la presenza di un partito al potere a prescindere dal modo di produzione che dirige, direttamente o in golden share (per quanto riguarda il CASS e gli altri centri ideologici da cui partono analisi e slogan ripetuti dai primi).

Noi, che dei quattro gatti rimasti rappresentiamo pure una parte decisamente esigua, possiamo decidere di fare due cose:
1. rincorrere giganti e topolini e incalzarli su menzogne, ipocrisie, falsità, contraddizioni.
2. cercare di sviluppare un lavoro autonomo, dove EVERGRANDE c'entri ma dove EVERGRANDE non sia l'oggetto principale di questo lavoro.

Pro del punto 1: siamo sempre sul pezzo. Anzi, arriviamo prima dei corifei che spesso, lasciati a secco di argomenti dai non molto solerti ideologi cinesi, ricorrono a invettiva o difese d'ufficio che li mettono da soli alle corde.

Contro del punto 1: perdonatemi la franchezza... "chissenefrega". Si, magari il mio/nostro egocentrismo magari anche amplificato dalla rete è anche premiato, "visto che avevo/avevamo ragione, porca miseria!". Ma poi? Dopo che glie abbiam cantate e suonate? Come si evolve, come incide questa polemica sulla nostra politica nei confronti degli altri 59 milioni di italiani, dei problemi immediati del nostro proletariato e sottoproletariato? Fossimo in sedici gatti, anziché meno di quattro, potremmo anche dividerci i compiti... ma questi sempre siamo, e se facciamo una cosa non possiamo farne un'altra.

Contro del punto 2: è un lavoro sotto traccia, richiede molto più tempo e fatica, perché impone una riflessione e un'analisi rigorosa su cosa non ha funzionato, perché non basta smascherare un gioco di parole, o un tradimento, o un complotto di funzionari in odor di oligarchia o monocrazia. Passa ancor meno sotto i riflettori, perché nessuno lo finanzia, nessuno ci caccia un euro. E chi potrebbe farlo perché magari lo potrebbe far passare come "ricerca", ha altro a cui pensare oggi. E', pertanto, un lavoro al di fuori delle otto ore di lavoro necessario per produrre e riprodurre la propria forza lavoro. Un lavoro straordinario, in ogni senso, e silenzioso. Inutile, verrebbe da dire.

Pro del punto 2: e invece no. Perché cosa fatta, capo ha. E con la rete, oggi, cosa fatta, e CONDIVISA, e DIFFUSA su canali di lunga, lunghissima permanenza e fruizione immediata, non è detto che produca un frutto oggi, ma può essere d'aiuto a qualche compagno che sta lavorando sullo stesso argomento, o su un argomento analogo, e aiutare un movimento di ricerca politica, ideologica, economica, sociale a crescere. In un'altra direzione.

E vengo finalmente al lavoro di Maccentelli citato. Proviamo a partire da questo assunto, invece di rincorrere gli altri sui loro giochi di parole: per esempio, come Barca (Luciano) bene evidenziava più di mezzo secolo fa, PIANO lo applichiamo solo a un'economia a proprietà INTERAMENTE SOCIALE dei mezzi di produzione. Per tutto il resto, usiamo il termine PROGRAMMAZIONE. Quella di una multinazionale? Programmazione. Quella della Conferenza del Parlamento cinese? Programmazione. Ciò detto, "programmazione" e "mercato" diventa molto più comprensibile che siano due termini falsamente antitetici, anche perché oggi al mondo non esiste un solo Paese a proprietà interamente sociale dei mezzi di produzione. Neppure la Corea del Nord.

Ecco allora rialzare la testa i soliti polemisti, quelli che peraltro voi ben riprendete sulla "concezione astratta di socialismo". "Bravi, andate avanti così... duri e puri a crearvi pippe mentali sul nulla!" (l'ultima non la dicono, ma la pensano). Mi spiace per loro, ma nel bene e nel male la storia di mezzo mondo non si è mossa sul "nulla". Paradossalmente, son più loro ormai a voler mettere un bel pietrone sopra all'esperienza storica del socialismo realizzato, rispetto ai capitalisti, che non si sprecano neppure a nominare ciò che non è e per cui le "guerre puniche", se proprio proprio van studiate, ma proprio proprio en passant, lo si deve fare una volta sola (Cingolani docet).

E allora guardiamo al nostro passato, alla nostra storia. Cerchiamo di capire e di apprezzare quanto di immenso è stato fatto, per la prima e unica volta nella storia di questo essere antropomorfo chiamato uomo: un modo di produzione a proprietà interamente sociale degli stessi e a loro conduzione interamente pianificata, come base materale per regolare gli altri settori dell'economia (infrastrutture, servizi alla persona, finanza, difesa, eccetera) in modo da dare a ciascuno secondo il suo lavoro e i suoi bisogni e ricevere da ciascuno secondo le sue capacità. Senza un padrone da dover magari anche ringraziare per essere sfruttato con uno stipendio da fame al posto di altri che fanno la fila e che non aspettano altro che essere sfruttati a loro volta. Anzi, senza più sfruttati né sfruttatori.

Vogliamo fare la lista delle cose che non hanno funzionato?
Partiamo ora e arriviamo al 31 dicembre.
O la lista delle cazzate in corso d'opera?
Idem con patate.
E quella dei disastri?
Andiamo avanti a uccidere uomini morti... se questo è lo sport in voga presso alcuni, peraltro per sbatterci davanti il piatto e dirci: "signori, questa è la minestra!". Io preferisco guardare al bicchiere mezzo pieno e, attraverso quello, capire anche quanto fosse mezzo vuoto, analizzarne cause e conseguenze, evitabili, prevedibili, inevitabili, meccanismi, azioni correttive che non ci sono state e/o che neppure furono nemmeno concepibili per l'epoca. Perché, guarda caso... la lista delle cose che non hanno funzionato (ridotte peraltro a luoghi comuni anche nelle sedi cosiddette "accademiche") è sempre lì pronta a essere tirata fuori. Lo stesso non si può dire di quella delle cose che HANNO funzionato.

E qui posso tirar fuori anche EVERGRANDE, parlando per esempio della NEP (l'unica, quella sovietica durata sei anni). Ma come accenno, come cartina al tornasole per evidenziare come NON SIA LA STESSA COSA, quei sei anni e questi quaranta e passa.

Passo successivo: DALL'IERI A OGGI. Funzionerebbero oggi? Se si, come? con la partecipazione di quali soggetti? A conclusione di quale fase di transizione? Progettata come? Lotta di classe ed emulazione socialista, partito e sindacato, "tecnici" e "politici" che ruolo avrebbero in tutto questo? E' un lavoro immenso e abnorme. Perché tutte le fonti secondarie (quelle tradotte e/o commentate) son vecchie di mezzo secolo, quando son "fresche", e vanno verificate alla luce di quelle primarie, ovvero quelle non tradotte e ora disponibili a tonnellate e tonnellate di dati e pagine. Ma che a nessuno interessa una cippa andare a riprendere, tradurre, apprendere, analizzare, collegare fra loro, unire per creare analisi complessive su alcuni temi e il loro andamento storico, così come per creare ipotesi di lavoro per l'oggi. Questo, più che il fatto che siam meno di quattro gatti, è il problema maggiore.

Ciò nonostante, la tecnologia (che non è stata fatta per noi, ma per rincoglionire ulteriormente e pompare la domanda in un mercato sempre più asfittico di clienti-sudditi con torte, cuccioli, tramonti, giocattoli per piccoli e meno piccoli) è ANCHE dalla nostra. Non abbiam bisogno di implorare qualcuno che ci pubblichi, come mezzo secolo fa. I nostri ciclinprop, o blog, o interventi che siano, chi vuole li recupera inserendo una sequenza di tre parole tra virgolette su un motore di ricerca. E magari uno ci può capitare per caso, e passare dalla lettura di una pagina alla lettura di cento, o mille pagine, se ben fatte e ricche di contenuti stimolanti e in grado di parlargli, non solo dell'ieri, ma anche dell'oggi.

Manca il soggetto politico. O c'è ma, su questo punto, risulta "non pervenuto". Verissimo. Ma per fare una ricerca, per lavorare su un argomento, non serve la benedizione, o l'ascella protettiva, di un partito che non c'è. Apro il mio lavoro sui sindacati sovietici con questo accenno: i russi hanno due termini per definire la parola "verità": una è "pravda" (правда), l'altra è "istina" (истина). la seconda ha la stessa radice del latino "est, esse", è di fatto una tautologia: è ciò che è, quindi è vero. come la parola cinese shi 是 (essere, vero), un ideogramma con sopra il "sole" (ri 日) e sotto un "diritto" (zheng 正) modificato. Vero, esistente, quanto è vero il sole di mezzogiorno, che ti cade a piombo sulla capoccia! La pravda è un'altra cosa. Contiene la radice prav-, che ha a che vedere col lato destro del corpo e con ciò che è "giusto" (right). La ricerca della VERITA' è inscindibile dalla ricerca della GIUSTIZIA. E la voce della prima, negli oppressi e negli sfruttati, si mescola alla seconda. Grida e continua a gridare, ieri come oggi. Anche se "manca il soggetto politico".

Scusate l'intervento. I migliori auguri di un buon 2022!

Paolo Selmi
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