Print Friendly, PDF & Email

cumpanis

“L’essenza, per le fondamenta”

Intervista a Rolando Giai-Levra

IMMAGINE TERZO EDITORIALE Giai LevraD. Non si può parlare di comunismo senza parlare di classe operaia: Vorresti dirci qualcosa sulla storia del movimento operaio in Italia, sulle sue lotte e sulle sue conquiste?

Lo sviluppo della lotta fra le classi ha generato una classe formidabile e generosa, quella operaia, che Marx-Engels-Lenin indicavano come la classe che, liberando se stessa dalla schiavitù del lavoro salariato, libererà tutta l’umanità dall’oppressione e dallo sfruttamento capitalistico. È la classe che Gramsci definiva classe dei produttori in grado di produrre una grande ricchezza sociale, più di quanto necessita alla sua riproduzione; quindi, caratterizzata da un alto carattere sociale, di dimensione internazionale e che nel sistema dei rapporti di produzione si trasforma in profitto di cui si appropriano i capitalisti, tramite il loro potere politico borghese. Questa è la condizione materiale in cui si genera e si sviluppa la contraddizione fondamentale di classe e il conflitto tra capitale e lavoro, tra salario e profitto.

In questo processo storico, la classe operaia italiana ha dimostrato di saper affrontare situazioni complesse e difficili, andando oltre i confini della lotta di resistenza (sindacale) contro lo sfruttamento della classe capitalista, ponendo una questione centrale relativa al controllo e alla gestione del lavoro e della produzione in fabbrica. La prima esperienza storica è stata quella del biennio rosso del 1919/1920 in cui gli operai con i propri Consigli di Fabbrica sostenuti dai comunisti dell’“Ordine Nuovo”, passarono all’occupazione delle fabbriche, anche con le armi, per sottrarle al controllo dei capitalisti. Questa esperienza fallì per il boicottaggio del riformismo italiano, in quel momento annidato nel P.S.I. che egemonizzava anche la direzione della CGIL. La seconda esperienza storica è stata quella del grande movimento dei Consigli di Fabbrica nato nei primi anni ‘60 con le lotte degli elettromeccanici e dei tessili, fino a raggiungere un elevato livello politico nel 1969 in grado di controllare l’organizzazione del lavoro e della produzione in fabbrica.

Non avendo avuto, in quella specifica fase, una coerente guida politica da parte del P.C.I., boicottato dalla sua ala riformista interna, anche questa seconda esperienza, poco alla volta, è finita per essere assorbita dai meccanismi burocratici dei vertici socialdemocratici e cattolici della CGIL-CISL-UIL.

Nonostante questi enormi ostacoli, la classe operaia e lavoratrice italiana ha dimostrato con le sue lotte di poter ottenere grandi conquiste non solo per se stessa; ma, per tutta la società: le pensioni, la sanità, i trasporti, il diritto allo studio, la lotta per i diritti della donna, la lotta per la pace contro le guerre imperialiste, ecc. Tutte conquiste che dopo lo scioglimento del P.C.I. e in assenza di organizzazioni economiche e politiche di classe in grado di difenderle coerentemente, poco alla volta, sono state riassorbite dalla classe dominante e dal potere politico che la rappresenta.

 

D. Sarebbe interessante esplorare la correlazione tra il progressivo scollamento tra il PCI e la classe operaia e la sua progressiva svolta di carattere socialdemocratico. Cosa ne pensi?

Fino agli anni ’60 la classe operaia era la componente fondamentale del P.C.I. Era presente con oltre il 50% in tutti i suoi organismi dirigenti, fino al Comitato Centrale e alla Direzione Nazionali. In un articolo che avevo scritto per la rivista “Cumpanis”, avevo riportato alcuni dati rilevati da documenti congressuali del P.C.I. pubblicati nel 1951. Allora i Congressi avevano delle platee di delegati formate da ben oltre il 40% di quadri operai a conferma della profondità del radicamento sociale e dell’alto livello organizzativo, che aveva il P.C.I. con milioni di iscritti e decine di migliaia di cellule di fabbrica in cui la presenza operaia era ben oltre il 50%.

Nella sola provincia di Milano le lavoratrici e i lavoratori del P.C.I. avevano dato vita a centinaia di giornali comunisti redatti da operaie/i, impiegate/i, tecniche/i delle fabbriche. Questa forte presenza organizzata e ramificata del P.C.I. nei luoghi di lavoro, di produzione, nelle scuole, nelle università e nei territori, fu l’elemento fondamentale che su questa base materiale, organicamente radicata nella classe lavoratrice, i comunisti italiani ottennero di conseguenza (e non prima), dei grandi risultati anche elettorali con circa 12 milioni di voti quando l’astensionismo era meno del 6/7%!

Nel 1966, dopo l’XI° Congresso del P.C.I. con la creazione del “Centro Studi sulle Politiche Economiche” (CESPE) di cui il primo presidente fu Giorgio Amendola fondatore dell’ala socialdemocratica nel P.C.I., degenerata ulteriormente con Giorgio Napolitano, tutte le scelte e le decisioni della politica interna ed estera del P.C.I. furono pesantemente influenzate in modo negativo. Non va sottovalutato che in quella fase, le forze socialdemocratiche interne al P.C.I., oltre ad essere sostenute esternamente dal P.S.I. e dal PSDI, traevano tanto vantaggio politico anche dai vari gruppi e gruppetti extraparlamentari del “rivoluzionarismo” piccolo borghese, oggettivamente, eterodiretti dagli interessi dominanti del capitale. Nella quasi totalità, questi gruppetti di formazione trotzkista, bordighista e radical-massimalista come “Potere Operaio”, “Lotta Continua”, “Avanguardia Operaia”, “la Voce Operaia”, “Sinistra Proletaria”, ecc., che poi in buona parte si raggrupparono nella formazione di “Democrazia Proletaria”, indicavano il P.C.I. e l’U.R.S.S. come i veri nemici da combattere. È bene ricordare che un’altra parte di questi gruppi sono degenerati fino al punto di fornire diversi militanti alle formazioni militari delle “Brigate Rosse”, di “Prima Linea” o dell’“Autonomia Operaia”, quest’ultima sostenuta sul piano teorico dal filosofo Toni Negri, tutte, oggettivamente, pilotate dai servizi segreti e dalla massoneria organizzata della P2 di Licio Gelli.

Sul piano interno, le rivendicazioni operaie cominciarono ad essere condizionate sempre più dalle scelte cosiddette compatibili con il sistema capitalistico portate avanti dall’area liberal-socialdemocratica del P.C.I. e dalla direzione riformista della CGIL; mentre, sul piano estero poco alla volta veniva abbandonato l’internazionalismo proletario leninista e gramsciano. I quadri comunisti operai, impiegati, tecnici, insegnanti, ecc., sempre più disorientati, venivano emarginati e isolati all’interno del P.C.I., a cominciare da quelli che rivestivano ruoli dirigenti. In questo modo, l’intera organizzazione del P.C.I. venne trascinata dalla socialdemocrazia a scollegarsi sempre di più dalla classe operaia e lavoratrice del paese per abbracciare gli interessi del grande capitale.

Tutto ciò non avveniva a caso; perché, verso la fine degli anni ’60 e inizio anni ’70, le forti e avanzate lotte della classe lavoratrice italiana stavano destabilizzando concretamente le basi del capitalismo, i gruppi dirigenti riformisti nel Sindacato, nel P.C.I., nel P.S.I., ecc., attivamente affiancati e assistiti dal CESPE, sostenuti dalla D.C., dai servizi segreti internazionali, mobilitarono molti intellettuali estranei alla tradizione comunista, per influenzare le masse in senso contrario agli interessi di classe delle lavoratrici e dei lavoratori. I vertici dell’organizzazione presero diverse decisioni per frenare l’avanzata di quelle lotte, soprattutto sul fronte delle rivendicazioni salariali e dell’organizzazione operaia in fabbrica, che vennero duramente colpite. Al contrario, le formazioni armate cosiddette “rivoluzionarie” come le “Brigate rosse”, “Prima Linea”. “Autonomia Operaia” ed altre minori dimostrarono di svolgere, oggettivamente, un’efficiente funzione stabilizzante del sistema capitalistico, che attraverso il parlamento legiferava norme che riducevano pesantemente le libertà democratiche dentro e fuori dalla fabbrica (legge Reale, ecc.).

 

D. Guardiamo un momento all’oggi: quali sono secondo te le sfide che attendono il comunismo italiano per ciò che concerne l’analisi e la comprensione della composizione di classe attuale, e quindi per la costruzione di un partito che sappia parlare ai lavoratori?

Per sapere parlare alla classe operaia, è necessario essere organicamente presenti tra le lavoratrici e i lavoratori! Oggi, siamo nel pieno della cosiddetta “4a Rivoluzione Industriale” su cui continuano a speculare tanti (politici, intellettuali, sindacalisti, ecc.) per teorizzare la scomparsa della classe operaia come conseguenza del forte sviluppo tecnologico con l’introduzione di robot in molte aziende. Molto spesso, tutto ciò viene raccontato in gergo con un linguaggio “politichese”, “sindacalese”, ecc., per lasciar intendere che è necessario sostenere la scomparsa politica della classe operaia per poter dichiarare la fine della lotta di classe e di quelle teorie che ne sostengono l’esistenza. Quindi, l’intento è quello di diffondere una concezione interclassista per sottomettere più facilmente le lavoratrici e i lavoratori agli interessi di classe del grande capitale. Poiché, la realtà materiale è tutt’altra cosa delle fantasticherie intellettuali e politiche è ormai dimostrato, oggettivamente, in tutto il mondo che la crisi strutturale in corso del capitalismo, genera grandi processi di proletarizzazione di massa, che vanno ad alimentare ed incrementare numericamente le file della classe lavoratrice.

Di fronte a tale situazione oggettiva, i comunisti si trovano a dover fare i conti con la necessità impellente di riappropriarsi di tutti gli strumenti teorici del pensiero comunista. Da qui, la necessità di studiare, analizzare, indagare, ricercare tutti gli elementi necessari per interpretare correttamente la realtà e controllare questi processi attraverso l’analisi delle classi, dell’organizzazione del lavoro e della produzione, dei cicli di lavorazione e di produzione, dei livelli di informatizzazione, dei livelli di meccanizzazione delle aziende, dell’organizzazione necessaria ai lavoratori, ecc. Praticamente è necessario riprendere in mano lo studio collettivo che dagli ultimi 15 anni di vita del P.C.I. in poi sono stati completamente abbandonati, anche dal PRC, dal PdCI e dalle stesse organizzazioni della sinistra in generale compreso quelle che oggi dicono di fare riferimento al comunismo.

Per andare in questa direzione, non ci sono alternative se non quella di avviare un processo di unità organica dei comunisti nella costruzione del partito politico, come reparto d’avanguardia della classe operaia. L’obiettivo deve essere la costruzione di un unico Partito Comunista di quadri e di massa, su basi ideologiche omogenee, che deve investire la propria azione politica per radicarsi, innanzitutto, nei luoghi di lavoro e di produzione, nelle scuole e nelle università, nei quartieri e in tutti i territori con i propri organismi di base che sono le cellule comuniste. Soltanto attraverso tale processo si potrà costruire nuovamente la base politica di grandi scuole di formazione di quadri comunisti. Sottolineo il concetto di “basi ideologiche omogenee”; perché, l’unità ideologica, è un elemento strategico per la costruzione di un Partito Comunista che si basa sul marxismo-leninismo e sul pensiero gramsciano. La storia internazionale e nazionale ha dimostrato che qualsiasi altra ipotesi è stata fallimentare; perché, sul piano ideologico non può coesistere alcuna unità con il riformismo, il massimalismo e con tutte le loro varianti, tanto quanto non può esistere alcuna coesistenza con il pacifismo astratto e cattolico che non fa alcuna distinzione tra guerre di liberazione dei popoli e guerre imperialiste, oppure con quei settori dell’“ambientalismo”, del “giovanilismo” e del “femminismo” che mettono sullo stesso piano la contraddizione di classe tra capitale e lavoro con le problematiche uomo-natura, giovani-vecchi e uomini-donne, ecc., tutte deviazioni artificiosamente create dalla stessa e comune matrice ideologica borghese.

 

D. Concludendo, mi piacerebbe chiederti quali sono a tuo avviso gli altri punti chiave per la ricostruzione di una prospettiva Comunista in Italia.

Altri punti chiave, che secondo me, dovrebbero essere affrontati con molta chiarezza e determinazione per avviare un processo di unificazione dei comunisti e di costruzione di un unico Partito Comunista in Italia, sono quelli di definire i rapporti e le linee politiche di classe sul piano internazionale e su quello nazionale:

1- Definire e stabilire con la massima chiarezza i propri rapporti con tutti i Partiti Comunisti, ideologicamente omogenei, che sono al potere e con quelli che non lo sono nel mondo come fase di sviluppo dell’Internazionalismo Proletario. In questa direzione va riconosciuto e sostenuto con forza e coerenza la funzione politica, ideologica e strategica che svolge il Partito Comunista della Repubblica Popolare Cinese nel mondo.

2- Definire e stabilire sul piano tattico e strategico, come venne fatto da Gramsci con le tesi di Lione, la necessità di definire l’azione dei comunisti per il proprio radicamento di classe e sociale attraverso le organizzazioni di massa del paese, prime fra tutte nella CGIL e nella FIOM-CGIL che rappresentano le più grandi organizzazioni sindacali di massa del paese. Naturalmente, coinvolgendo sulla stessa linea sindacale di classe, anche gli altri sindacati tra cui quelli extraconfederali. Il secondo intervento da fare è nelle altre organizzazioni di massa come l’ANPI che rappresenta, di fatto, la più grande organizzazione Antifascista italiana. Su questi obiettivi, i comunisti non devono avere alcuna esitazione di portare avanti la battaglia politica e ideologica contro l’egemonia riformista del PD della direzione delle organizzazioni citate. I comunisti devono saper distinguere la tattica dalla strategia; perché, sappiamo che tutte le forze politiche presenti in parlamento e molte altre che sono al di fuori rappresentano gli interessi della borghesia e delle classi dominanti; ma, nello stesso tempo i comunisti sanno che tra le stesse forze politiche esistono, oggettivamente, grandi contraddizioni d’interesse da fare esplodere con pazienza e intelligenza; perché, piaccia o no, il riformismo del PD e della CGIL ha ancora una forte influenza su milioni di lavoratrici e lavoratori, per cui, che fare?

3- Definire e stabilire senza alcuna ambiguità l’analisi di classe delle formazioni partitiche esistenti su cui sviluppare quando è utile farlo, una politica di possibili alleanze tattiche. Come sopra detto, i comunisti devono intervenire nelle contraddizioni interne alla borghesia per dividerla e indebolirla, di conseguenza credo che chi considera e mette sullo stesso piano formazioni politiche borghesi che svolgono, oggettivamente, ruoli e funzioni differenti nel sistema capitalistico, commette un errore grossolano! Non si può mettere sullo stesso piano la forza politica di Forza Nuova che ha compiuto l’assalto squadrista-fascista della Camera del Lavoro a Roma il 09.10.2021 e il PD che ha proposto una mozione in parlamento, seppur all’acqua di rosa, per lo scioglimento di Forza Nuova; o il Segretario Generale Nazionale della CGIL che ha richiesto lo scioglimento delle organizzazioni di tutte le forze fasciste e parafasciste del nostro paese. Lo stesso vale per le manifestazioni del 25 Aprile, giorno della liberazione dal nazi-fascismo contro cui venne creato un fronte unitario antifascista armato (C.N.L.I.) costituito da comunisti, socialisti e cattolici. I comunisti non possono esimersi dal partecipare alle manifestazioni unitarie antifasciste indette dall’ANPI, dalla Rete Antifascista, ecc. Non partecipare per il fatto che tali organizzazioni di massa sono egemonizzate dal PD o perché nella manifestazione è presente il PD, è una “giustificazione” politica massimalista di grave infantilismo e settarismo politico e ideologico, che rappresentano deviazioni ampiamente smascherate con molta chiarezza ideologica e politica da Lenin e da Gramsci.

4- Ultimo punto, secondo me, importante da analizzare è il rapporto tra il “radicamento sociale” dei comunisti e la loro “partecipazione alle campagne elettorali”. Sulla base dei risultati di quest’ultimo ventennio, soprattutto delle ultime elezioni politiche e amministrative c’è stato un astensionismo pari 40%-50% degli elettori. Quali effetti politici possono mai avere i risultati dello 0,… ottenuti dalla sinistra generale, compreso i comunisti senza alcun radicamento sociale? Quello di dimostrare che la borghesia ha ragione quando dice che la sinistra e i comunisti non contano più niente e sono in via di estinzione. Se un’organizzazione di sinistra, soprattutto comunista, non è radicata nella classe lavoratrice da cui poter trarre il consenso anche elettorale come faceva il P.C.I., quale contributo politico potrà mai dare al processo della lotta della classe operaia per liberarsi dallo sfruttamento del grande captale? Nessuno!

Add comment

Submit