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Un dibattito, dentro (e fuori) Liberazione

Domenico Losurdo Stalin, storia e critica di una leggenda nera

di Guido Liguori

 Il socialismo alla prova del gulag. Tanti drammi per un simile risultato? [Con interventi di Giuseppe Prestipino, Dino Greco, Domenico Losurdo e André Tosel]

stalin1"Stalin. Storia e critica di una leggenda nera" di Domenico Losurdo. La biografia del dittatore tra scelte violente e politiche realiste

Stalin mostro sanguinario o politico realista costretto dalla storia a scelte obbligate? Nel suo ultimo libro ( Stalin. Storia e critica di una leggenda nera , con un saggio di Luciano Canfora, Carocci, pp. 382, euro 29,50) Domenico Losurdo opta per la seconda risposta. E' una tesi controcorrente e già per questo il libro è da leggere: opponendosi al "senso comune" prevalente fa pensare e induce a problematizzare ipotesi storiografiche che si danno ormaiper acquisite.

Quale è l'idea di fondo di Losurdo? Le tesi interpretative del fenomeno staliniano che più hanno inciso - Trockij, Chruscev, Hannah Arendt - sono state determinate dalla lotta politica interna al campo comunista o dalla Guerra fredda. Da qui un «ritratto caricaturale» di Stalin che sottovaluta radicalmente il contesto concreto del suo operare. In questo contesto l'autore fa rientrare non solo la "lunga durata" della storia russa (i conflitti medioevali nelle campagne, l'odio per gli ebrei, il banditismo nato dalle carestie), non solo lo "stato d'eccezione" in cui si collocò l'esperienza sovietica, ma anche i lati deboli dell'ideologia marxista, un «universalismo incapace di sussumere e rispettare il particolare», le tendenze escatologiche che volevano abolire in tempo rapidi proprietà privata, nazione, famiglia, ecc.

Lo stesso Gulag si espande con la «collettivizzazione forzata dell'agricoltura».

Come si spiegherebbe la cruciale svolta del '28-'29? Dopo il trattato di Locarno, il riavvicinamento Francia-Germania, il colpo di Stato di Pilsudski in Polonia, la rottura delle relazioni commerciali e diplomatiche da parte del Regno Unito, i militari sovietici lanciarono l'allarme: il pericolo di guerra aumentava, bisognava industrializzare e garantire la fedeltà delle campagne. Dopo la «notte di san Bartolomeo» (Bucharin) contro i contadini, Stalin avrebbe cercato di tornare alla normalità, tanto che Trockij nel 1935 lo accusò di «liberalismo» e di «abbandono del "sistema consiliare"», di «ritorno alla "democrazia borghese"». In effetti Stalin - per far decollare la produzione - si batte contro il «livellamento "sinistroide" dei salari», contro l'egualitarismo, e propugna una nuova Costituzione, come si sa poi rimasta sulla carta. Di nuovo irrompe infatti l'emergenza, e il terrore: Losurdo - che parte dall'esame di una letteratura internazionale molto amplia, e "anti-stalinista" - accredita il fatto che l'opposizione trockista fosse un "pericolo" reale ancora nella prima metà anni '30.

Dopo la guerra, ancora, Stalin dichiara che la dittatura del proletariato non era l'unica via al socialismo, non era obbligatoria nei paesi dell'Est europeo. Ma poi irrompe la Guerra fredda e la sicurezza nazionale dell'Urss riprende il sopravvento.

Di contro alla "cattiva" eredità dell'"utopismo" marxista Stalin impara dunque - per l'autore - la «vacuità dell'attesa messianica del dileguare dello Stato, della nazione, della religione, del mercato, del denaro, e ha altresì direttamente sperimentato l'effetto paralizzante di una visione dell'universale incline a bollare come una contaminazione l'attenzione prestata ai bisogni e agli interessi particolari di uno Stato, di una nazione, di una famiglia, di un individuo determinato». Ma - questo il suo limite per Losurdo - la lotta contro «l'utopia astratta» si ferma più volte a metà strada, per non entrare in totale rotta di collisione con alcuni degli assunti di fondo della cultura marxista e comunista. Insomma, nei tre decenni di "stalinismo" i ripetuti tentativi fatti da Stalin di abbandonare lo stato d'eccezione per tornare a una relativa normalità sarebbero stati frustrati sia dalla situazione internazionale, sia dall'utopia astratta presente nel marxismo, alimentata dall'opposizione interna. Con questa lettura di fondo, Losurdo dedica molte pagine a demolire la "leggenda" chruscioviana legata ai successi militari dell'invasore nazista; a sottolineare l'attenzione prestata da Stalin alle diverse "nazionalità"; a lodare il "realismo" stalinista a fronte delle tendenze di sinistra che volevano il superamento dello Stato, della famiglia, del denaro.

Losurdo riconosce e condanna la svolta brutale nel sistema concentrazionario che si ha nel '37. Ma sottolinea come nel Gulag sovietico non vi fosse volontà omicida, e dunque non sia possibile l'accostamento ai lager nazista: quando muoiono a migliaia nel Gulag, durante la guerra, muoiono di stenti a migliaia anche nel resto dell'Urss.

E' difficile seguire Losurdo, con la necessaria competenza critica, in tutte le pieghe del suo discorso. Alcune delle sue tesi (la critica al concetto di «totalitarismo», il rifiuto di considerare le decisioni del vertice sovietico come irrazionali, il richiamo al contesto storico) appaiono convincenti. Ciò che non convince è un discorso troppo portato a vedere sempre nella soluzione adottata la migliore delle soluzioni possibili e a sottovalutarne l'effetto disastroso sulla politica dell'egemonia (vedi la rottura dell'alleanza leninista operai-contadini) e nella costruzione stessa di una idea espansiva di socialismo. Si prenda ad esempio il Gulag: può uno Stato che si vuole socialista creare un sistema concentrazionario così vasto, in cui (anche se non sempre e ovunque) vi furono condizioni di vita - secondo le parole dello stesso Vysinskij, che Losurdo riporta - che ridussero «gli uomini "a bestie selvatiche"»? Non è già questo fatto una macchia indelebile per uno Stato che si voglia socialista? Non consola sapere che peggio fece - per fare un esempio - il Regno Unito con gli irlandesi o con i deportati in Australia: ciò che ci si aspetta da un sistema che fa dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo la sua legge non è giustificabile per uno Stato che nasce per combattere tale sfruttamento e tutto ciò che di "bestiale" vi è nell'umanità. E ancora: la situazione oggettiva aveva indotto a irrigidire l'organizzazione del lavoro, a rinunciare a un nuovo modo di intendere i rapporti tra i sessi, al superamento graduale dei limiti nazionali. Ma a questo punto non viene da chiedersi: valeva la pena di fare una rivoluzione? A cosa è servita? Credo di conoscere la risposta di Losurdo: enorme è stato comunque il sussulto di liberazione, milioni di persone si sono così liberate dal Medio Evo e dal colonialismo, in tutto il mondo. E' vero, e dunque viva la Rivoluzione russa! Ma sembra giusto anche concordare con quanto ha scritto Giuseppe Prestipino sull'ultimo numero di Critica marxista (2009/1): seguendo Losurdo arriviamo alla conclusione che nel '900 il socialismo era impossibile.

Resta la domanda se le scelte fatte nel corso del primo e fallimentare tentativo di costruzione del socialismo abbiano costruito almeno le basi per ritentare l'esperimento nel nuovo secolo o siano oggi un ostacolo in più per chi ci voglia riprovare. Da questo punto di vista lo storicismo giustificatorio di Losurdo - pur avendo alcune ragioni - sottovaluta la possibilità stessa di una alternativa rispetto all'effettivo svolgimento storico: un politico realista può anche diventare un mostro sanguinario, uccidendo così di fatto, ugualmente, la creatura che "con realismo" si propone di proteggere. E se ogni volontà di cambiare anche la qualità della vita quotidiana, i rapporti tra i generi e tra gli esseri umani, le gerarchie e l'alienazione dentro e fuori la fabbrica viene bollata come «utopismo escatologico e anarcoide», non si troveranno facilmente le forze, le volontà, le soggettività per riprendere il cammino.


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Si vuole riabilitare Stalin? Non ci stiamo

di *

su Liberazione del 11/04/2009

La risposta alla recensione del libro di Losurdo "Stalin. Storia e critica di una leggenda nera".

Ci ha molto amareggiato leggere ieri sulle pagine di "Liberazione" la recensione a un volume che definisce fin dal titolo come "leggenda nera" gran parte della storiografia esistente sulla vicenda storica e politica di Stalin. Recensione che si apre con l'apprezzamento del carattere «controcorrente», di opposizione al «senso comune» che renderebbe il volume capace di far «pensare». Recensione, poi, che quando passa ad assumere vesti "critiche" nei confronti del testo trattato, lo fa nella forma di "dubbi" del tenore seguente: «Può uno Stato che si vuole socialista creare un sistema concentrazionario tanto vasto...?». Come a dire d'un problema quantitativo, piuttosto che di sistema.

Di fronte ai milioni di morti che il sistema dei campi staliniani, la staliniana direzione della "pianificazione socialista" e la pratica staliniana delle purghe omicide degli stessi quadri rivoluzionari hanno lasciato dietro di sé, nella memoria collettiva del mondo intero e della cultura di sinistra in particolare, riteniamo che non ci sia nulla da aggiungere: non c'è interpretazione storica che tenga, piccoli o grandi tentativi revisionisti o negazionisti non possono riguardare la figura di un dittatore feroce e brutale. Oppure, viene da chiedersi, a quando una pagina intera di pubblicità gratuita, sotto veste di recensione "equilibrata", a testi di "rilettura", magari, delle gesta di Ceausescu o di Pol Pot?

Insomma: possiamo serenamente considerare chiuso il confronto su queste tragedie o dobbiamo davvero subirne "revisioni" addirittura apologetiche?

Se questo è ancora considerato da qualcuno come "il campo" della sinistra, o "dei comunisti", ci spiace: non ci stiamo. Queste vicende terrificanti e chi se ne è fatto interprete e animatore nel corso della Storia non possono appartenere, neppure in modo critico e "ragionato" ad alcuna ipotesi di liberazione. Non solo, riteniamo che pubblicare interventi che hanno al proprio centro ipotesi del genere, esplicite o inconscie - su questo come su altri temi -, che considerino come parte del confronto di idee tesi negazioniste (l'esistenza del negazionismo sull'Olocausto non esime certo dal giudicare quello sui crimini staliniani, proprio i "dibattiti" di Losurdo dovrebbero suggerirlo...) rappresenti un salto all'indietro. Specie per un giornale che aveva cercato fin qui di aprire spazi e di liberare energie, preferendo interrogarsi di continuo piuttosto che cercare rifugio nell'eterna riconferma di un'identità interpellata da una storia fatta anche, come indica proprio il caso di Stalin, di mostri e orrori.

* Checchino Antonini, Angela Azzaro, Anubi D'Avossa Lussurgiu, Stefano Bocconetti, Guido Caldiron, Paolo Carotenuto, Simonetta Cossu, Carla Cotti, Sabrina Deligia, Laura Eduati, Roberto Farneti, Antonella Marrone, Martino Mazzonis, Andrea Milluzzi, Frida Nacinovich, Angela Nocioni, Paolo Persichetti, Paola Pittei, Sandro Podda, Stefania Podda

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Non sono mai stato stalinista, né uno "stalinista dell'antistalinismo"

di Guido Liguori

su Liberazione del 12/04/2009

Caro direttore, con vera sorpresa ho letto su Liberazione di ieri il documento di un gruppo di redattori che critica aspramente la mia recensione a un libro di Domenico Losurdo su Stalin pubblicata il giorno precedente. Vengo accusato, di fatto, di simpatie per lo stalinismo e per una sua presunta "riabilitazione". Penso che si tratti dell'ennesimo episodio di una storia che non mi appartiene, quella della guerra interna al Prc e più in particolare al suo giornale. L'evidente strumentalità del documento non ne rende però più accettabili i contenuti, che sono in gran parte una mera falsificazione di quanto ho scritto. Si arriva addirittura a fingere di non capire l'uso della "domanda retorica" nella lingua italiana! Non solo tutti i miei scritti e la mia storia personale testimoniano dell'assurdità di tale accusa. Anche nello scritto in questione niente può essere interpretato in tal senso: in esso - come si dovrebbe fare in ogni recensione - ho prima riassunto il libro, ho riconosciuto la serietà della ricerca (perché a mio giudizio così è: ma almeno anche uno solo degli scriventi lo avrà letto?), ne ho contestato infine, inequivocabilmente, l'impianto complessivo. Cosa avrei invece dovuto fare? Mettere insieme una sequela di insulti e pronunciare una scomunica? Mi dispiace, questo stile non mi appartiene, non sono né voglio essere uno "stalinista dell'antistalinismo". Sono uno "studioso appassionato" e come tale continuo a leggere, a riflettere, a dare un contributo - nell'ambito delle mie capacità - anche sulla "nostra" (di noi comunisti) storia più controversa. Non mi interessano le verità di partito proclamate una volta per tutte a chissà quale congresso. Preferisco la ricerca e le letture che mettono in dubbio certezze e danno luogo a un dibattito libero. Solo da questo confronto fra posizioni diverse una comunità scientifica o politica può avanzare verso un'opinione condivisa dai più. Invio a te e a tutti coloro che sono impegnati nel rilancio di Liberazione un sincero augurio di buon lavoro.

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Siete bravi giornalisti e dovreste sapere

che recensire libri lontani dal nostro pensiero

non solo è lecito, ma doveroso

Giuseppe Prestipino

Cari compagni firmatari della lettera antistalinista, i venti di scissione dal Prc si sono levati prima che si scatenasse la bufera della crisi globale. Non tutti, a sinistra, potevano prevedere la bufera, anche se alcuni l'abbiamo prevista. Diversa è oggi la situazione. Capitali e paesi capitalistici sono più uniti che mai per fronteggiare la crisi. Si abbracciano tutti: dagli Stati Uniti all'Iran. Progettano persino il disarmo generale, mettendo per ora a tacere la guerra infinita. La risposta che viene da una certa sinistra italiana è invece quella della scissione infinita. Cari compagni, lottate contro i vivi e non resuscitate politicamente i morti. Avete letto tutti voi il libro di Losurdo? Se lo leggerete vedrete che non è negazionista. Tendenzialmente giustificazionista forse, ma più ancora è il libro di uno storico comparativista nel paragonare un certo colonialismo liberale all'"universo concentrazionario" (così lo definisce) voluto da Stalin. Il comunismo non è oggi l'erede di Stalin, mentre i valori di libertà e di democrazia, nei quali noi crediamo, sono eredità venuta anche da Robespierre, i cui crimini sono, comparativamente, tanto in minor numero quanto la Francia è più piccola dell'impero sovietico.

Leggo sempre con piacere Frida Nacinovich, abile e sottile giocherellona anche sulle serie e tristi imprese della cronaca politica e del palazzo. Ma perché, al contrario, prende sul serio un gioco al massacro dentro il partito (e il suo giornale)? La pubblicità al libro di Losurdo c'è stata, non per la recensione di Guido Liguori, ma per la lettera dei malpensanti e le sue conseguenze. Siete bravi giornalisti e dovreste sapere che alcuni interrogativi, come vi ricorda anche Liguori, sono retorici e perciò pesano più della corrispondente forma affermativa. Tale voleva essere l'interrogativo: «Può uno Stato socialista creare un sistema concentrazionario tanto vasto?». E anche vasto non significa solo quantitativamente esteso o numericamente grande. The vaste land, in Eliot, significa la terra desolata. Ma anche in italiano de-vastato o de-vastante possono considerarsi sinonimi del "vasto" di Liguori. Sempre sulla res extensa: troppo spazio ai trent'anni della dittatura staliniana? Meno che un decimo dello spazio occupato, sul nostro giornale, da quell'unico giorno nel quale il muro di Berlino fu abbattuto. Allora si riempirà una pagina per Hitler e Mussolini? Perché no, se la (cattiva) storia del mondo è andata storta, tra i dieci (dal 1933) e i venti anni (dal 1922), anche per causa loro. E per Pol Pot e Ceausescu? Non direi, perché erano ai margini della storia mondiale, quasi come criminali comuni. La buona sinistra vede il male e vede le contraddizioni nello stesso male: Stalin che (a volte) predica bene e (molto più spesso) razzola male, mentre Hitler, Mussolini o anche Pol Pot e Ceausescu, più "coerenti", predicano e razzolano sempre male. Tra Hitler e Stalin, peraltro, è soltanto Hitler il personaggio storico che (per effetto della xenofobia e del razzismo generati dalla globalizzazione) tuttora ispira ovunque, dagli Stati uniti alla Russia e all'Italia, alcuni gruppi organizzati di nostalgici violenti. Non vedo stalinisti, invece, se non in singole persone, tra le quali ne conosco un paio di raffinata cultura e incapaci di ferire una mosca, che "riabilitano" quel dittatore perché disgustate (non solo da questa globalizzazione e da questo nuovo razzismo) anche dalle scomuniche perpetue contro Stalin soltanto. Se dunque il personaggio non ha fatto scuola nelle frange o leggende nere della politica odierna, continuare a maledirlo e a maledire i suoi storici è come maledire Caligola e Tacito, perché il corso veloce della storia dopo la metà del secolo scorso sospinge Stalin lontano da noi quasi quanto Caligola. Perciò abbiamo necessità di batterci ancora per i valori dell'antifascismo, non altrettanto di dedicare all'antistalinismo una bandiera o un partito o una setta. Ai morti della storia non si benedice né si maledice. Si fanno processi, ma per un'istruttoria storica rispettosa dei codici di procedura storiografica soltanto.

Nel merito: no alle risposte definitive (pare che solo il Papa e i firmatari della lettera le conoscano), no allo storicismo giustificatorio (solo uno storico illustre come Leopold von Ranke credeva che tutte le epoche fossero egualmente vicine a Dio), sì a uno storicismo che veda le condizioni oggettivamente necessarie (per esempio, i rapporti di forza nel ‘900, sfavorevoli alla costruzione del socialismo), ma operi anche con ipotesi controfattuali su altre risposte soggettivamente possibili: invece che il terrore staliniano, una più effimera perestroika come quella gorbacioviana o una più duratura via cinese ai due capitalismi: di Stato e di imprese sovranazionali, o altre ipotesi ancora. Non credo che la Nep di Lenin fosse di ostacolo, come giudica Losurdo, alla preparazione dell'Urss in vista dell'invasione hitleriana, e quindi che la collettivizzazione forzata fosse necessaria.. Altre decisioni erano possibili. In ogni caso, dice bene Liguori: Stalin voleva tutto e subito. E invece aveva ragione Lenin: si potevano fare due passi avanti e uno indietro. Meno socialismo? Un socialismo dimidiato e imperfetto? Si dica pure così, se perficere il socialismo era allora impossibile.
"Liberazione" giustamente intervista anche i fascisti e i seguaci di Evola, mentre i giornali di destra si guardano bene dal dare la parola ai loro avversari. Infine: recensire il libri lontani dal nostro punto di vista non solo è lecito, ma è doveroso se sono libri documentati e, per giunta, con continue citazioni di opere fortemente anti-staliniane. Il silenzio su chi non la pensa come noi non è nostro costume, è invece in uso nelle veline consegnate ai media o berlusconiani o pubblici o "indipendenti".
Giuseppe Prestipino


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È autoritaria la pretesa che vi siano argomenti da mettere al bando

di Dino Greco

su Liberazione del 12/04/2009

Un gruppo di redattori di Liberazione ha sentito il bisogno di prendere carta e penna per contestare la recensione di Guido Liguori (vicepresidente dell'International Gramsci Society e caporedattore di Critica Marxista ) del libro di Domenico Losurdo, "Stalin. Storia e critica di una leggenda nera", apparsa su Liberazione venerdì scorso. I bersagli della lettera sono, palesemente, due: l'autore della recensione, imputato, nientemeno, di avere offerto eco ad una "revisione apologetica" della figura di Stalin; e il direttore del giornale che, corrivamente, ne ha autorizzato la pubblicazione. Risponderò, brevemente, tanto alla questione di merito, relativa cioè al contenuto della recensione, quanto alle ragioni, del tutto conseguenti, che mi hanno fatto considerare utile proporla ai lettori.

La contestualizzazione di un evento o, addirittura, di una lunga catena di eventi, prodotta con rigore filologico e attraverso una seria ed approfondita ricognizione delle fonti, dovrebbe essere un imperativo categorico per chiunque voglia criticamente e non ideologicamente (o propagandisticamente) ragionare sul passato e, in definitiva, sul presente. I guai cominciano quando la contestualizzazione si trasforma in uno storicismo assoluto, in un fatale (e letale) giustificazionismo, per cui quel che è accaduto, nel modo come è accaduto, non poteva che verificarsi così. Come se gli esseri umani portassero sulle loro spalle la Storia. La quale procederebbe per la propria strada, secondo una deterministica concatenazione di cause ed effetti. Per cui, se al posto di Stalin vi fosse stato qualcun altro, questi non avrebbe potuto fare alcunché di diverso, ecc.

Un simile modo di procedere produce un'apparente scientificità, che ha il vizio di essere sempre dedotta a posteriori, deresponsabilizzando gli attori, i protagonisti della storia umana. Così, ogni valutazione di ordine storico, politico e morale diventa impossibile. Credo che nessuno sia tanto sciocco da pensare che gli esseri umani si muovano, in ogni epoca e condizione, come "libertà assoluta". Ognuno opera "in situazione" ed è nel suo agire codeterminato da una quantità di fattori. Codeterminato, ma non coartato. C'è sempre - o quasi sempre - sartrianamente, una possibilità di scelta. Ed è questa scelta che permette il giudizio di valore.

Davvero singolare, dunque, che chi - come Losurdo - esalta il significato anche euristico della soggettività, della rottura antideterministica, "rivoluzionaria", delle condizioni storicamente date, cada poi nell'errore di dimenticarsene del tutto quando ci fa intendere che ben poco dei tragici avvenimenti capitati nella Russia staliniana avrebbe potuto avere un corso diverso. Come invece è provato dalla durissima, sanguinosa lotta interna attraverso la quale si affermò la dittatura. E, una simile contraddizione, alimenta il sospetto che, malgrado la grande messe di dati, circostanze, documenti citati, il lavoro di Losurdo sia, in fondo, un progetto a tesi.
Paradossalmente (ma poi non troppo), questo esasperato oggettivismo finisce per combaciare con la posizione opposta, ma simmetrica, secondo cui il difetto sta nel manico: l'uovo del serpente sarebbe cioè solidamente insediato nell'idea comunista, sin dall'origine, sin dal suo archetipo teorico, fin nel marxismo, passando poi attraverso tutta la vulgata delle esperienze storiche che in ogni punto del globo, da oriente ad occidente, da nord a sud, si sono incarnate nei decenni, fondandosi su quell'ispirazione. Insomma, il giustificazionismo non fa che offrire alibi a tutte le rimozioni (che non hanno mai favorito alcun progresso, in nessun campo) e a tutti i processi di sommaria liquidazione. Perché quando rimuovi, non capisci. E se non capisci non ti confronti davvero. Ti contrapponi. Con tutta la cieca determinazione che si mette nel non riconoscere - nell'altrui punto di vista - la porzione di verità che esso può contenere.

E' il vizio di tutti i fondamentalismi, di tutti i settarismi, di cui si nutre chi crede di custodire nel proprio scrigno tutto ciò che occorre sapere. Attenti dunque all'autoritarismo, alla pianta che rigogliosamente cresce quando si pretende che vi siano argomenti da mettere al bando, parole da inibire, colonne d'Ercole da non varcare...

Quanto alla recensione di Guido Liguori, il cui profilo culturale è notoriamente estraneo a qualsiasi contaminazione o suggestione stalinista, trovo del tutto incomprensibile come si possa ricavare dal suo testo una qualsiasi propensione "negazionista". Ne fa fede lo stralcio del suo commento al libro di Losurdo che ripubblichiamo qui accanto. Ai firmatari delle lettera, invece, che tanto in là hanno voluto spingersi nella loro requisitoria, vorrei ricordare che è difficile che si possa - cito dalla loro lettera - «interrogarsi di continuo» e, contemporaneamente, «considerare chiuso il confronto». «Consciamente o inconsciamente», mi pare si propenda per la seconda ipotesi. C'è tuttavia un punto, questo sì davvero indigeribile, eppur rivelatore, della lettera. Laddove si dice «a quando una pagina intera di pubblicità gratuita (...) delle gesta di Ceaucescu e di Pol Pot». Mi spiace: non ci sto. Non è consentito.


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La lettera di Losurdo rifiutata da "Liberazione"

giovedì 16 aprile 2009

Ma almeno lo hanno letto?

Un gruppo di redattori di «Liberazione» inserisce un mio libro nell’Indice dei libri proibiti, senza neppure averlo letto! Senza apportare alcuna prova, ma sulla base solo di una sua (avventurosa) supposizione, Bonanni mi accusa di aver giustificato «molti anni fa» – ma non ha un suono sinistro questa formulazione? – la distruzione dei «monasteri tibetani» a opera delle «Guardie Rosse». In realtà, come risulta dai miei scritti, considero tale distruzione (alla quale hanno partecipato anche Guardie Rosse tibetane) come una delle pagine più nere della Rivoluzione Culturale, una pagina fortunatamente superata dalla successiva evoluzione della Cina, che ha restituito al loro antico splendore i monasteri devastati. Della mostra rievocata da Bonanni ho criticato piuttosto la trasfigurazione del Tibet lamaista, di una società che condannava la stragrande maggioranza della popolazione alla schiavitù, al servaggio e a una morte assai precoce: «l’età media dei tibetani è di trent’anni» - riferisce Harrer, istruttore e amico del Dalai Lama. Abbellire questa società e tacere sulle sue infamie: in questo caso chi sono i «negazionisti»?

Dino Greco e Guido Liguori mi rimproverano invece uno «storicismo giustificatorio». E’ una critica ovviamente legittima, ma è fondata? A proposito di Katyn, il mio libro parla di «crimine» e precisa che questo crimine è «ingiustificabile» (p. 259). Si aggiunge soltanto che gli Usa non possono ergersi a maestri di moralità per il fatto che, nel corso della guerra di Corea, si sono resi responsabili di una Katyn su scala più larga. E’ lecito smascherare l’ipocrisia dei vincitori?

Più in generale, dopo aver sottolineato l’influenza dello stato d’eccezione nella tragedia della Russia sovietica, il mio libro osserva che «indubbio è anche il ruolo svolto dall’ideologia» e dai «ceti intellettuali e politici» espressi dal bolscevismo (pp. 104-5). Solo che l’ideologia da me presa di mira è l’«utopia astratta», e cioè l’attesa messianica del dileguare dello Stato, della religione, della nazione, del mercato, della moneta (si pensi al peso funesto che la pretesa di cancellare ogni forma di mercato e di circolazione della moneta ha avuto nella Cambogia di Pol Pot). Liguori difende invece l’utopia da me criticata in quanto «astratta» e prende di mira altri bersagli, ma non spiega perché il mio approccio critico dovrebbe essere più «giustificatorio» del suo.

In realtà, viene agitata contro di me una categoria di cui non è mai chiarito il senso. Gramsci «giustifica» il giacobinismo; su «il manifesto» e su «Liberazione» spesso è stata «giustificata» la Rivoluzione culturale: darebbe prova di dogmatismo chi, senza entrare nel merito dei capitoli di storia di volta in volta discussi, attribuisse a se stesso lo storicismo autentico e lo «storicismo giustificatorio» a coloro che non sono d’accordo con lui!

Certo, il mio libro respinge l’immagine di Stalin oggi propagandata sui grandi mezzi di informazione, ma questa immagine è ben diversa a sua volta da quella che emerge dalle grandi opere della cultura occidentale. Per fare solo un esempio, secondo il grande storico inglese A. Toynbee, a rendere possibile Stalingrado e la disfatta inflitta alla barbarie nazista fu il percorso compiuto dall’Urss «dal 1928 al 1941».

Restano fermi gli angosciosi dilemmi morali che caratterizzano le grandi crisi storiche. Ma essi non si pongono solo per l’Urss di Stalin. Vediamo in che modo un eminente filosofo statunitense, M. Walzer, giustifica i bombardamenti terroristici degli angloamericani nel corso della seconda guerra mondiale, pur riconoscendone il carattere criminale: il pericolo di trionfo del Terzo Reich determina un’«emergenza suprema», uno «stato di necessità»; ebbene, occorre prendere atto che «la necessità non conosce regole». Certo, bombardamenti che mirano a uccidere e terrorizzare la popolazione civile del paese nemico sono un crimine, e tuttavia: «Oso dire che la nostra storia verrebbe cancellata, e il nostro futuro compromesso, se non accettassi di assumermi il peso della criminalità qui e ora»; i dirigenti di un paese «possono sacrificare se stessi al fine di difendere la legge morale, ma non possono sacrificare i propri connazionali». Walzer è citato con favore e spesso intervistato su «il manifesto»: perché, nella loro campagna contro lo «storicismo giustificatorio», i miei critici non se la prendono in primo luogo con il filosofo statunitense?

Come ricorda il mio libro, nel 1929 Goebbels individua in Trotskij colui che «forse sulla sua coscienza ha il numero di crimini più alto che mai abbia pesato su un uomo» (p. 231); più tardi, nell’ideologia dominante Stalin diventa il mostro gemello di Hitler, mentre oggi riscuote un enorme successo il libro (di Chang e Halliday) che bolla Mao Zedong come il più grande criminale di tutti i tempi! E basta leggere la stampa statunitense per rendersi conto che analoghi capi d’accusa vengono costruiti nei confronti di Tito, Ho Chi Minh, Castro ecc. Per essere al riparo dall’accusa di «negazionismo» ovvero di «storicismo giustificatorio» dovremmo sottoscrivere questi «bilanci»? E’ contestando la criminalizzazione della storia del movimento comunista nel suo complesso, ma sviluppando al tempo stesso una doverosa riflessione autocritica a proposito sia dell’Urss che della Cina e dell’Indocina, che io ho scritto Stalin. Storia e critica di una leggenda nera.

Domenico Losurdo


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La lettera di André Tosel rifiutata da Liberazione

giovedì 16 aprile 2009

Stalinismo e utopia astratta

Cari amici di Liberazione,

mi permetto di inviarvi questa lettera per il fatto che sono stato particolarmente colpito dal dibattito provocato dall’ultimo libro di Domenico Losurdo, Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, con un saggio di Luciano Canfora, Carocci, 2008. Ho letto con grande interesse la recensione critica di Guido Ligori e la lettera dal titolo «Stalin, non ci stiamo», firmata da membri del Comitato di redazione di Liberazione. Questo testo esprime non solo il rifiuto etico e politico dello stalinismo, ma anche una grande amarezza, se non un’indignazione per la ricerca di Losurdo.

In breve, la storia della leggenda nera alla quale hanno dato luogo le vicissitudini della politica staliniana è denunciata come una sorta di revisionismo cripto-staliniano, mirante a rovesciare la critica liberale del totalitarismo mediante una giustificazione del realismo staliniano, come un’apologia indiretta della politica staliniana, presentata quale l’unica politica realista del suo tempo, superiore per lucidità a quella delle opposizioni interne degli anni trenta. Questa impresa sarebbe non solo inutile, dato il carattere scontato dell’argomento – non ci sarebbe nulla da aggiungere alle critiche esistenti di Kruscev, Arendt e tanti altri – ma anche politicamente equivoca e negativa, dato che lo sforzo di comprensione si rovescerebbe in giustificazione dell’ingiustificabile e costituirebbe un salto all’indietro, che impedirebbe il rilancio di una politica di autentica liberazione,

A questo punto vorrei presentare alcune considerazioni da introdurre in un dibattito cruciale per le prospettive di emancipazione.

1. In nessun momento Losurdo nega la massa enorme di orrore implicita nelle violenze della politica staliniana. Egli cerca di comprendere quello che appare incomprensibile. Egli ha il coraggio intellettuale e etico-politico di affrontare la vulgata liberale divenuta senso comune, e divenuta altresì in modo acritico il presupposto di un sinistra incapace di costruire un giudizio storico autonomo, perché essa continua a essere dominata dall’immaginazione secondo la quale al posto della teoria subentra il pentimento.

2. Losurdo presenta i documenti e una bibliografia altrettanto ampia che variegata, sulla quale egli lavora utilizzando gli autori ideologicamente più lontani. Occorrerebbe per lo meno presentare una diversa ricostruzione, se si accetta l’idea che non tutto è stato detto facendo ricorso alla categoria di totalitarismo: su di essaArendt ha proceduto a una serie di variazioni, finendo persino con l’evocare un neototalitarismo liberale, iscritto nella possibile produzione di un’altra umanità superflua. Occorrerebbe per lo meno rimettere in discussione le tappe di questa storia: collettivizzazione forzata delle campagne e rottura della difficile alleanza con il mondo contadino, peso enorme della guerra condotta dalle grandi potenze capitaliste, radicalizzazione estrema e da ogni lato della lotta delle opposizioni interne.

3. Se lo stalinismo ha fallito e ha compromesso l’idea di socialismo o piuttosto di comunismo, questo scacco si è verificato dopo il 1945, soprattutto a causa dell’incapacità di una riforma democratica dell’apparato di Stato e delle pratiche di segretezza e di coercizione. Resta il fatto che l’Urss è stata un punto di appoggio per le lotte anticoloniali del XX secolo, che essa con Stalin ha saputo condurre una guerra vittoriosa contro il nazismo, la cui vittoria sarebbe stata una catastrofe senza nome, che essa a tratti e frammentariamente ha saputo creare gli elementi di Stato sociale di cui hanno beneficiato le masse popolari e che sono sati distrutti dall’attuale capitalismo russo mafioso. Ciò non giustifica nulla, ma così sono andate le cose. Losurdo ha il diritto e il dovere di confermarlo, senza nascondere il prezzo dell’impresa e senza ignorare lo scacco finale. Si tratta di verità sgradevoli per lo pseudo-senso comune liberale, così come sono verità atroci per il senso comune socialista e comunista le violenze di massa perpetuanti lo stato d’eccezione al di là di ogni misura. Gramsci tuttavia non ci ha invitati a guardare in faccia anche le verità più sgradevoli?

4. Il metodo di Losurdo combina due approcci la cui legittimità teorica mi pare provata. Da una parte egli constestualizza permanentemente le scelte di politica interna e estera che si presentano nel corso della storia. Dall’altra parte egli fa costante ricorso a una comparatistica tra le pratiche dell’Urss e quelle delle democrazie occdentali, non già per relativizzare e minimizzare la violenza staliniana ma per comprenderla in relazione a ciò che era la violenza in quel determinato momento. Così facendo, Losurdo si iscrive nel meglio della tradizione del realismo critico italiano, che passa attraverso Machiavelli, Cuoco, Leopardi, Croce, Gramsci. Egli si distingue sempre dal realismo controrivoluzionario di Mosca, Roberto Michels e Pareto.

5. Il vero problema critico è di sapere se questo metodo è applicato senza falle. A questo proposito penso che Losurdo tende a storcere troppo nel senso opposto il bastone della vulgata liberale divenuta storia sacra. Egli ritiene che, tutto sommato, Stalin ha avuto la meglio grazie al suo realismo che gli ha consentito di sviluppare un processo di modernizzazione e di affrontare il nemico mortale che era il nazismo. Ci si potrebbe chiedere se nel corso della storia in atto, dello svolgimento storico, non erano possibili altre scelte, per quel che riguarda la collettivizzazione delle campagne, il mantenimento delle alleanze sociali, la repressione contro gli oppositori, il culto della segretezza, l’ossessione del tradimento e la cultura del sospetto, la negazione di ogni democrazia di massa. Una volta che la storia si è svolta, c’è la tentazione di dire: tutto sommato, le cose sono andate così e non diversamente, schiacciando così sul risultato che si è verificato le possbilità rimosse. A mio avviso, questo è il vero dibattito. Losurdo non merita il rimprovero di cripto-stalinismo; la sua ricerca imponente merita una diversa accoglienza per chi vuol conservare la ragione. Guido Liguori vede giusto allorché evoca uno «storicismo giustificatorio» che rischia di assolvere tutto in nome del realismo del fatto compiuto. Losurdo non giustifca tutto ma egli enuncia troppo presto la chiusura del possibile. Egli resta qui troppo hegeliano.

6. In ogni modo, questo lavoro di rilettura critica di questo passato è indispensabile. Losurdo ne tira una lezione negativa finale che concerne punti importanti della teoria marxista. Nel suo modo astuto e brutale lo stalinsimo ha tenuto conto dei rapporti di forza, pur mantenendo l’utopia di un’estinzione in corso dello Stato, del diritto, della religione, della morale familiare, nel momento in cui queste realtà si imponevano sotto forme diverse. Richiamandosi a Gramsci, Losurdo critica un certo utopismo marxiano, condiviso al tempo stesso da Rosa Luxemburg e da Karl Kautsky. Tuttavia, una cosa è la critica di un’utopia astratta, negatrice delle forme storiche generali, altra cosa è il senso di una speranza concreta, scaturita dalle ispirazioni delle masse subalterne e mirante alla negazione determinata di forme storiche oppressive. E’ questa speranza che la dittatura staliniana, malgrado i suoi meriti e il suo stringente realismo, ha soffocato. Così è stata accreditata la tesi secondo cui la storia aveva sciolto i nodi e dimostrato che era impossibile ogni emancipazione comunista o socialista. E’ questa speranza che rinasce debolmente dalle lotte del presente. E’ ad essa che deve servire l’indispensabile storia critica sommamente sgradevole, alla cui ricostruzione Domenico Losurdo contribuisce in maniera possente, a suo modo e nei limiti che egli non rifiuterà di discutere.

Cari amici,

vi ringrazio per la vostra attenzione. Ho voluto partecipare a un dibattito che è esplosivo, sapendo che il regime del pensiero non è quello del motore a scoppio. Spero di non aver offeso nessuno. Non era questo il mio intento.
Col mio saluto fraterno

André Tosel

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