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Article Index

 

10. La falsa opposizione tra mezzi e fini

Quando si sottolinea la centralità del canale politico istituzionale, si ha sempre il timore di suonare retrò, vetero-marxisti, di celebrare le virtù taumaturgiche del “Partito rivoluzionario”. E già si sente salire il coro di coloro che si lamentano di una prospettiva in cui si tratterebbe di “aspettare il giorno della rivoluzione” rimandando nel frattempo ogni tentativo di cambiare la vita qui e ora.

Anche in questo caso si è venuta creando una contrapposizione tra due posizioni altrettanto unilaterali. Quella secondo cui il fine della rivoluzione avrebbe una priorità assoluta sui mezzi per raggiungerla e dunque giustificherebbe a posteriori qualsiasi abuso, e quella secondo cui invece la rivoluzione dovrebbe essere già interamente contenuta nei mezzi con cui si cerca di attuarla o, in una versione più debole, non potrebbe esserci alcuna contraddizione tra i mezzi e i fini, dunque non sarebbe lecito raggiungere lo scopo finale della rivoluzione attraverso atti che moralmente le sono difformi (tipico il caso della non-violenza come mezzo e fine della lotta). Il primo caso è quello del marxismo sovietico e delle sue derivazioni ortodosse, con la sua necessità di istituire una gerarchia, il suo culto dei capi, il suo ottimismo ufficiale, la spregiudicatezza della sua tattica e della sua strategia, la sua visione meccanicistica e burocratica della trasformazione sociale in cui gli individui finiscono per essere pedine di un gioco controllato dall’alto. Nel secondo caso, caratteristico invece della sinistra movimentista e più prossima all’anarchismo, non ci sarebbe alcuna possibilità di articolare una differenza tra tattica e strategia, il cambiamento dovrebbe avvenire in piccolo, qui e ora, per poi allargarsi ad altre comunità secondo un concetto di rete orizzontale e policentrica.

Come abbiamo visto altrove, l’opposizione tra sinistra “stalinista” e sinistra “anarchica” elide completamente la presenza teorica e storica di una terza opzione, interna alla storia del movimento operaio e che, per quanto obiettivamente minoritaria, indica la possibilità di superare almeno teoreticamente tale contrasto: quello della rivoluzione permanente che raccoglie l’eredità di Rosa Luxemburg34 e Leon Trotsky. Questo modello unisce i pregi delle due posizioni alternative usandoli per correggerne reciprocamente i difetti, coglie cioè tanto il fattore oggettivo-strutturale, quanto quello soggettivo-individuale dei processi rivoluzionari. Esso vede (1) nel cambiamento posto a livello strutturale una necessità inderogabile di ogni progetto rivoluzionario: riconosce l’esistenza dei corpi intermedi, delle forme sociali, come modalità specifiche in cui si dà l’esperienza umana, dunque, al contrario della concezione anarchica, non assume l’oggettivazione sociale come il male, la “reificazione” dell’azione individuale come la causa stessa dell’oppressione. Riconoscere che le strutture complesse sono un fatto che attiene all’esperienza sociale dell’uomo e non una mera “degenerazione” aiuta a collocare a questo livello il potenziale di cambiamento della società e con ciò amplia le possibilità di azione al di là di ciò che i singoli o le singole comunità potrebbero fare rinunciando a tutto ciò che non è immediata espressione dei loro bisogni o delle loro capacità dirette. D’altro canto, la teoria della rivoluzione permanente vede (2) nella liberazione delle energie sociali il vero motore della rivoluzione e anche il garante della sua capacità di non irrigidirsi in strutture burocratiche e anti-democratiche. La rivoluzione è “rivoluzionamento” delle masse, delle loro aspettative, capacità, bisogni, non può vivere se questi non si ampliano e si approfondiscono, dissolvendo, con lo stesso atto con cui creano il nuovo, le forme stantie e oppressive del vecchio. Il fattore soggettivo diventa qui anche ciò che impedisce alle strutture di degenerare in meri apparati che si auto-perpetuano perdendo di vista il fine per cui erano state istituite (che è, appunto, l’allargamento della base sociale della rivoluzione, della partecipazione ai processi decisionali, della possibilità di inventare nuove forme di convivenza e di soddisfazione dei bisogni). Dunque è assolutamente vero che il problema della reificazione degli apparati esiste, ma non esiste tra gli individui e gli apparati come tali, poiché gli apparati, le strutture, le forme oggettive del vivere comune, fanno parte della costruzione di senso dell’esperienza sociale. Piuttosto quella reificazione esiste tra le strutture e il senso che tali strutture esprimono o dovrebbero esprimere nel processo di superamento del capitalismo, di modo che l’irrigidimento burocratico è l’espressione del fatto che la struttura inizia a perdere di vista la produzione di senso che l’aveva istituita, finendo per limitarsi a perpetuare se stessa bloccando così la transizione ad un diverso modo di produzione.

Non interessa qui quanto le strutture organizzative che si richiamano all’esperienza della rivoluzione permanente (la IV Internazionale ecc.) di fatto poi l’abbiano espressa adeguatamente. La questione qui è anzitutto teorica, verte cioè sulla possibilità di un modello che faccia saltare quell’opposizione tra mezzi e fini che ci lascia in uno stallo da cui è poi impossibile una seria analisi del modo in cui i conflitti all’interno del capitalismo possano guadagnare una prospettiva di autentico trascendimento del suo orizzonte produttivo. Il termine “rivoluzione” qui allude ad un cambiamento di massa, radicale che giunga ad intaccare la struttura produttiva capitalistica. Non allude quindi ad una qualche specifica forma di conflitto (violenta o meno), quanto alla possibilità di lasciarsi alle spalle il modo di produzione capitalistico organizzando una convivenza pacifica e senza sfruttamento a livello globale. Abbiamo già visto, d’altronde, come ciò non sia possibile senza tenere conto dello specifico modo in cui tale conflitto deve organizzarsi anche attorno ai nodi del potere statale e della produzione. In tal senso, anche l’opposizione tra massimalismo e riformismo porta sulla cattiva strada. Assumere una posizione massimalista (tutto e subito), infatti, tende a considerare ogni riforma un arresto del processo rivoluzionario e un tradimento, senza considerare quanto invece la conquista di posizione sul campo della lotta contro lo sfruttamento del capitale permetta una maggiore possibilità di manovra, di spingere verso richieste più avanzate ecc. Assumere una posizione riformista e socialdemocratica classica, invece, significa al contrario limitarsi a concepire il cambiamento sociale come mera addizione di riforme slegate da un percorso coerente e unitario di superamento del capitalismo. È chiaro come qui riemerga il problema della totalità: non ci può essere percorso unitario, né può esserci un salto oltre l’orizzonte del capitale se la società non viene pensata come un tutto organizzato a partire dal processo di autovalorizzazione del capitale stesso perché solo un cambiamento a questo livello del conflitto garantisce la possibile uscita dal cerchio che esso disegna. È chiaro che ciò non cambierà necessariamente le relazioni di genere o di specie, non sconfiggerà il razzismo né l’inquinamento. Ma è altrettanto chiaro che se non si agisce a questo livello si lascerà il capitale agire indisturbato e dunque gli si permetterà di riorganizzare il sistema dei bisogni e la propria autoperpetuazione come sistema di sfruttamento di classe attorno a quelle issues: un capitalismo delle pari opportunità (di sfruttamento), gay-friendly, vegano e ambientalista non è affatto una contraddizione in termini.

Questo non significa che le forme organizzative tradizionali del lavoro salariato, il partito e il sindacato, siano l’afla e l’omega della trasformazione sociale. Ma abbandonare totalmente questo livello dell’azione politica, disinteressarsi di ciò che qui accade, significa lasciare campo libero alle forze che la lotta di classe sanno farla molto bene, cancellando diritti e rimuovendo consequenzialmente i limiti allo sfruttamento di tutte e tutti. Anche solo essere in grado di determinare quale tra i partiti più distanti dal tuo interesse di classe sia preferibile avere al governo magari per poter organizzare meglio l’opposizione sociale sembra diventato un pensiero irricevibile. Mentre si tratterebbe di mero buonsenso. Dall’epoca di Lenin, in cui si predicava “l’analisi concreta della situazione concreta” e non si escludeva nessun mezzo che potesse garantire una posizione di vantaggio nella lotta di classe, siamo giunti alla consacrazione della mera testimonianza e del purismo aprioristico dei mezzi come unica forma di lotta legittima. L’agire politico svapora nell’etica dell’intenzione.

 

11. Il socialismo è un asse, non una soggettività

Che rapporto dovrebbero avere dunque il femminismo, i gruppi queer, l’attivismo ecologista e antispecista con il socialismo, posto che questo significa tenere in debito conto gli strumenti rappresentativi della classe lavoratrice a livello politico e sindacale? Si tratta di tornare al primato del politico sul personale? Per rispondere a questa domanda facciamo un passo indietro. Proviamo a riconsiderare il problema della militanza tradizionale e la famigerata questione della “palingenesi” del socialismo, ovvero l’idea secondo cui il socialismo avrebbe creato “l’uomo nuovo”, ovvero cambiato l’umanità e risolto tutti i nostri problemi. La subordinazione di tutte le lotte alla lotta per il socialismo si fondava (anche) su questa concezione errata. Che tuttavia è errata non perché sia troppo socialista, ma perché non lo è abbastanza. Per riprendere una battuta di Marcuse: “non ogni problema che uno ha con la sua ragazza è necessariamente dovuto al modo di produzione capitalistico”. L’idea che il socialismo risolva i problemi dell’umanità deriva proprio da una cattiva generalizzazione della teoria marxiana, quella secondo cui Marx avrebbe preteso scrivere una sociologia generale, elaborare un’antropologia filosofica o, peggio, un sistema della storia.

Poiché la militanza nel partito finiva per assorbire gran parte del tempo degli individui e delle comunità locali, permeandole e attraversandole integralmente, il politico entrava già nel privato seppure spesso nella forma alienata che le organizzazioni staliniste davano alla partecipazione. D’altro canto, nei partiti di massa occidentali accadeva che la struttura politica tradizionale accogliesse nella militanza anche situazioni esterne al mondo del lavoro, cercando di “assorbirne” nel programma, se non le istanze, almeno la possibile soluzione: ciò che apriva al problema del “dopo la rivoluzione” ma sicuramente permetteva una maggiore dialettica tra pubblico e privato, tra istanze particolari e lotta al capitale. Il divergere odierno di pubblico e privato (la militanza che si ritira interamente nel privato) è solo una ulteriore alienazione reciproca delle due sfere, in base alla quale entrambe rischiano di atrofizzare ancora di più che prima. Il problema, certo, è la modalità storicamente specifica che ha condotto le organizzazioni della sinistra tradizionale ad assumere i tratti rigidi e dirigistici dello stalinismo e la accuse di “deviazionismo” che spesso colpivano istanze di liberazione che provenivano da altri strati sociali o da elaborazioni teoriche diverse dal marxismo ufficiale. Ciò ha avuto un ruolo, come abbiamo visto, nel processo di alienazione di tali istanze nella sfera del privato, il che, a sua volta, ha ulteriormente allargato la distanza tra la militanza tradizionale e l’idea di re-invenzione della vita che proveniva dalle punte più avanzate della cultura “borghese”. E ha senz’altro contribuito all’irrigidimento della militanza, alla sua disumanizzazione reale, alla sua austera burocratizzazione. Ma condannando le forme, i metodi e gli obiettivi della militanza tradizionale per questo significa, nuovamente, confondere una questione storica con una posizione teorica. In realtà le strutture oggettivano le dinamiche interne della lotta nel tentativo di universalizzare l’azione (a tutti i livelli, dal locale all’internazionale) proprio per affrontare il capitale sul suo stesso terreno. Dire che la lotta al capitale condotta su questo piano conduce necessariamente al dirigismo burocratico significa confondere stalinismo e oggettivazione dei processi sociali. E questa confusione, per altro, opera in termini perfettamente stalinisti, perché lo stalinismo intendeva la burocratizzazione come un fenomeno inevitabile mentre la sinistra movimentista, al converso, criminalizza la mediazione istituzionale come di per sé, cioè di nuovo inevitabilmente, dirigistica e burocratica. Stalinismo e sinistra anarchizzante condividono cioè la medesima errata teoria sociale, solo invertita di segno: ciò che per l’uno è positivo per l’altra è negativo e viceversa.

Tra la pretesa al cambiamento qui e ora e la dimensione storicamente trascendente dell’socialismo c’è un salto incolmabile. Inevitabile. Nessuna prassi singolare, nessuna immaginazione può colmarla. Ciò non accade perché l’al di là del capitalismo sarebbe un concetto utopico, inesauribile (secondo il linguaggio messianico di Bloch) ma perché lo stato dei rapporti reali determina le possibilità stesse del socialmente immaginabile. Basti pensare a come la condizione che si pone auspicabilmente oltre l’orizzonte del capitalismo sarà non solo comunitaria ma lo sarà per di più in senso nazionale e internazionale. E questo è assolutamente non anticipabile dalla prassi e dall’immaginazione dei singoli o delle singole comunità. Dunque ogni prassi e ogni immaginazione tentata nel presente sarà inevitabilmente condannata al particolare. Il qui e ora mostra così tutti i suoi limiti, la sua parzialità escludente, anche con possibili derive conservatrici, corporative, campanilistiche. Alla falsa universalità delle single issues (il genere, la razza, l’orientamento sessuale, la specie) corrisponde la falsa singolarità delle situazioni “locali”, delle singole “vertenze”. Occorrerebbe piuttosto tracciare la linea che definisce l’opposizione di classe a tutti i livelli e tornare a pensare la lotta a quell’opposizione come necessariamente strutturata su più piani. Ma, anzitutto, come essenzialmente strutturata. Poiché il capitale organizza la sua lotta ad un livello che necessita di una risposta altrettanto organizzata. La rinuncia alla lotta organizzata al capitale anche su uno solo dei livelli in cui esso struttura il comando sul lavoro è rinuncia alla lotta al capitale tout court.

Ora, è chiaro che la teorizzazione di contesti di oppressione la cui portata, struttura e significato esulano dal rapporto di sfruttamento capitalistico in senso stretto (dal femminismo alla queer theory, dall’ecologismo all’antispecismo ecc.) ha significato l’esigenza di praticare una “nuova sensibilità”, ovvero di far emergere già qui gli atteggiamenti e le pratiche non-discriminatorie e alternative rispetto allo status quo senza dover “aspettare il giorno della rivoluzione”. Tutto questo ha una sua plausibilità, come vedremo, che va ben al di là dell’accusa banale secondo cui i lavoratori non sono “buoni” sic et simpliciter ma possono esercitare anche loro rapporti di dominio e praticare la discriminazione verso altri soggetti oppressi. In realtà, non solo al lavoratore salariato non si chiede di essere “moralmente” superiore agli altri (qualsiasi cosa questo voglia dire), ma anche il suo essere in una posizione di “potere” nei confronti di altri (qualsiasi cosa questo voglia dire) non ci dice ancora nulla sul potenziale eversivo della specifica lotta al capitale che il salariato può svolgere, perfino in relazione a quelle vere o presunte relazioni di “potere” in cui il lavoratore potrebbe trovarsi invischiato. Qualsiasi giudizio su questo punto necessita di un’operazione teorica preliminare che l’intersezionalismo, per i motivi già visti, rifiuta di fare: occorrerebbe cioè prima separare le diverse forme di oppressione e sfruttamento, dare alla relazione di comando sul lavoro da parte del capitale la sua specifica collocazione e chiarire il modo in cui essa interagisce con le altre forme di “potere” o con le pratiche di discriminazione. Gli interesezionalisti, invece, in genere saltano a pie’ pari l’analisi del modo di produzione capitalistico e mescolano assieme alle altre forme di “discriminazione” il rapporto di subordinazione salariale. Dal che poi è facile far scattare il meccanismo secondo cui la lotta al capitale pretende che “si aspetti il giorno della rivoluzione” prima di “cambiare la vita”. Certo, non si vuole qui tacere quanto le organizzazioni storiche della sinistra abbiano sottovalutato, e spesso ancora continuino a ignorare l’esistenza di forme ancestrali, premoderne di oppressione che ricevono una nuova veste e una nuova funzione nel modo di produzione capitalistico. È senz’altro un dato acquisito che la lotta anticapitalistica debba assumere anche a livello personale in forma quanto più possibile ampia e condivisa delle pratiche non discriminatorie e che, per dirne una, l’epoca in cui le donne erano “gli angeli del ciclostile” sia definitivamente tramontata o si debba fare il possibile per farla tramontare definitivamente. Ma occorre allo stesso modo tornare a fare chiarezza su un punto decisivo: ciò deve avvenire non perché quelle pratiche siano momenti ineludibili della lotta contro il capitale, perché non lo sono (molte di quelle istanze sono invece politicamente “trasversali” e nulla assicura che esse non potrebbero trovare un’adeguata collocazione all’interno del regime di produzione capitalistico); né tantomeno perché sarebbero momento della lotta ad una misteriosa entità che sarebbe la sintesi di tutte le forme di oppressione: tale entità è un mero ens rationis, una costruzione teorica cui non corrisponde alcuna realtà unitaria, con una logica coerente che si potrebbe combattere a partire dalla mera somma di pratiche anti-discriminatorie.

L’approccio dovrebbe essere diverso. Posto che la lotta contro la discriminazione di genere, le pratiche di resistenza antirazzista, il consumo consapevole fino al veganismo rappresentino momenti di una “nuova sensibilità”, esprimano un’esigenza di testimoniare l’impegno al cambiamento, un “mi preme” urlato in faccia all’indifferenza della maggioranza silenziosa, essa può svolgere un ruolo importante in un processo di trasformazione radicale del presente ma a due condizioni. Un’avvertenza di buon senso che può farsi valere è che tutto ciò non deve ovviamente cedere al moralismo che frantuma, piuttosto che compattare il fronte della resistenza all’oppressione, esprimendosi nella pretesa per cui il modo in cui gli altri agiscono sia frutto di una cattiva volontà, piuttosto che di una specifica forma sociale di esistenza. In secondo luogo, occorre che le diverse lotte trovino o meglio riscoprano il terreno in cui possono far valere obiettivi condivisi, articolare una tattica e una strategia di lotta. Nel fare questo devono ovviamente sottrarsi ai meccanismi ideologici di cattura della cultura liberal (smettere di pensare in termini di egemonia del “discorso” e ripensare la centralità delle relazioni produttive nell’attuale sistema sociale). Ciò non significa affatto subordinarsi alle organizzazioni tradizionali di lotta dei lavoratori. Devono però riscoprire che solo il terreno dell’analisi di classe permette di formulare i problemi della prassi ad un livello universale in cui le diverse forme di oppressione possono trovare una via d’accesso ai meccanismi sociali istitutivi del mondo in cui vivono. Devono cioè far entrare l’anticapitalismo realmente nelle proprie teorizzazioni e nella propria prassi, piuttosto che ridurlo a slogan. Spesso oggi le organizzazioni di ispirazione marxista fanno a gara per aggiungere “etichette” o “suffissi” alla propria militanza (gruppi marxisti-femministi-ecologisti ecc.). Sarebbe meglio avvenisse il contrario: che i gruppi femministi, ecologisti, queer ecc. iniziassero non tanto ad etichettarsi come marxisti (si etichettano fin troppo...), bensì a ripensare il capitale e il suo specifico modo di funzionamento. La prospettiva qui presentata, dunque, non pretende affatto che i movimenti di lotta si facciano dettare l’agenda dai partiti tradizionali della sinistra o dai sindacati. Nella misura in cui nessuno ha garantita la ricetta per pensare e contrastare adeguatamente il capitale è ovvio che rispetto al problema della centralità di questa lotta tutti i gruppi e i partiti, inclusi quelli della sinistra, si trovano sullo stesso piano e nessuno può rivendicare un ruolo di “avanguardia”. Ma è certo che tale ruolo spetta oggettivamente a chi tale contraddizione riuscirà a pensare in modo adeguato, pensandola nella sua specificità, senza disinnescarne la radicalità, annacquandola in senso moralistico. E dunque a chi di fatto contribuirà ad articolare e organizzare la lotta a livello posto dal capitale. Ed è altrettanto chiaro che tutte le posizioni pseudo-radicali che chiedono di abbandonare uno dei piani di organizzazione della lotta al capitale rinunciando a qualsiasi posizionamento tattico e strategico condannandolo astrattamente come “tradimento” di una non meglio identificata causa di “liberazione” contribuiscono in realtà al successo del capitale stesso e il loro “anticapitalismo” andrebbe considerato alla stregua di ciò che è: una mera formula verbale.

Come va pensata a livello teorico dunque l’opposizione tra personale e politico? La soluzione sta nel riattivare la dialettica tra quei poli che è stata manomessa dalla critica alla forma organizzativa tradizionale della militanza e dei suoi terreni istituzionali di lotta. Questo implica ripensare le categorie del personale e del politico dentro quella dinamica positiva di universalizzazione e astrazione innescata dalla modernità, di cui il capitalismo è una fase ma che non si esaurisce nell’orizzonte stesso del modo di produzione capitalistico. Ciò può a prima vista sembrare un tentativo di sottrarre all’individuo il suo raggio d’azione in favore dei processi oggettivi e tornare a concezioni vetuste della militanza impersonale e burocratica: ma questo accade solo perché, come abbiamo visto, la concezione del politico e del personale cui ci si appoggia è astratta, astorica e mistificata.

Dire che si è caricata la sfera dell’individuo e delle relazioni personali di un peso trasformativo eccessivo non significa negare totalmente che qualcosa di fondamentale qui accada. Ma dare il giusto peso a questo livello significa anche riconoscere la dialettica che il capitale vi introduce. È lo sviluppo capitalistico che produce infatti la ricchezza materiale, tecnologica e simbolica (culturale) di cui oggi l’individuo dispone,seppure sempre in forma ineguale e contraddittoria. È infatti ancora il processo di accumulazione che relega questo stesso individuo nell’impotenza e nell’atomizzazione. In un caso come nell’altro, senza una focalizzazione sul modo di funzionamento specifico del capitale, ci sfuggirà anche la potenzialità reale, nonché il limite e la parzialità che la sfera dell’individuo può giocare nei processi di trasformazione sociale.

Al contempo si tratta di restituire alla militanza il carico di ciò che è “politico” in senso non-personale come forma di mediazione oggettiva delle relazioni sociali. L’incapacità di discutere nel merito, di affrontare questioni teoriche e pratiche al di fuori dell’emotività momentanea, di gestire la dialettica delle idee senza lasciarla degenerare in psicodramma è un tratto caratteristico della militanza di movimento che difficilmente potrà essere contestata. Ma questa incapacità di spostare il baricentro del pensiero e dell’azione su un piano oggettivo, non è una forma di compensazione delle storture della militanza burocratica, bensì un ulteriore esempio di quella mistica del soggetto vitalistico che ha in sospetto ogni forma di “irrigidimento” del pensiero e dell’azione. Il soggetto, piuttosto, trova se stesso nell’aprirsi verso l’Altro, laddove questo termine non indica solo e tanto l’altra soggettività, quanto proprio la dimensione del non-soggettivo, ciò che il vitalismo anarchizzante immagina essere la sfera della reificazione, della morta oggettività. Quando il personale è posto come sfera dell’autenticità, magari anche della relazione intersoggettiva come correttivo degli egoismi e degli egocentrismi, ciò che viene posto in relazione è ancora e sempre una soggettività idealistica, chiusa nel culto di un umanismo fatto di “io” e “tu”, di “prossimità”, di “sincerità”. Ciò che viene comunque escluso è che il senso del pensiero e dell’azione individuale possa compiersi in qualcosa che trascenda il soggetto e la relazione tra soggetti, possa essere non l’espressione di un vissuto, bensì la costruzione di un comune che sussista anche al di fuori di quel vissuto. Ed è a questo livello che la comunità, laddove viene evocata, può lavorare nel senso dell’universalità e non del particolarismo. Perché proprio la comunità è il luogo per antonomasia dell’incontro accogliente di un’alterità che mi precede e mi fonda e rispetto alla quale non avrebbe senso porre la questione dell’alienazione del “puro” essere se stessi, così come della reificazione di un rapporto tra non-identici che si vorrebbe però pregiudizialmente “fluido”.

Il blocco alla trasformazione socialista è il comando del capitale sul lavoro. È rispetto a questo blocco che devono collocarsi le soggettività oppresse (di genere, razza, orientamento sessuale, specie ecc.), non per occluderne la percezione in un nebuolsa di identità dominanti/dominate, ma per farlo risaltare nella sua diversità. La gerarchia che regola i rapporti di produzione capitalistici, infatti, è specifica perché strutturale, cioè aliena da ogni elemento soggettivo. Il capitale funziona a partire dalla logica automatica della propria autovalorizzazione. Esso “assorbe” le soggettività per sublimarle nel suo meccanico dispiegamento, agendo come un processo acefalo, “senza soggetto” avrebbe detto Althusser. Ecco perché qui, a livello delle relazioni produttive capitalistiche, l’elemento culturale “discriminatorio” è derivato (anche laddove contribuisce a sostenerlo: ad es. nella sintesi tra oppressione salariale e discriminazione in base all’etnia o al genere) e non è essenziale alla sua costituzione in quanto rapporto di subordinazione capitalistico, dunque neanche alla sua dissoluzione. Il capitale può sempre riorganizzarsi quando il riconoscimento di un diritto gli sottrae la possibilità di sfruttare ulteriormente o più intensamente la forza lavoro. In questo ambito la prassi sociale volta alla lotta contro le “discriminazioni” deve riconoscere la propria impotenza o, meglio, la propria non pertinenza. Non solo l’imprenditore non ha nessun bisogno di “disprezzare” i propri operai per sfruttarli, ma perfino l’imprenditore “buono” che desidera il loro bene non può fare nulla, rimanendo imprenditore, per sottrarli allo sfruttamento35.

E tuttavia, ecco il punto decisivo, perché la trasformazione socialista dei rapporti di produzione possa essere autenticamente democratica è necessario tenere in conto la partecipazione effettiva di tutte le soggettività oppresse dal capitale anche al di fuori di quelle relazioni produttive. Proprio perché qui è la società nel suo complesso che si auto-organizza per la prima volta nella storia e trova solo nella razionalità socialmente condivisa il proprio metro di giudizio, è essenziale a tale progetto emancipativo anche l’emancipazione definitiva di tutti i soggetti che possono aspirare ad avere un ruolo nella costruzione della volontà comune che deve sorregge l’autorganizzazione della produzione e la soddisfazione generale dei bisogni. Nessuna liberazione del desiderio può instaurarsi senza abolire il comando sul lavoro che essa, per conto suo, non può abolire. Dal canto suo, se la lotta socialista vuole realmente puntare ad una riorganizzazione della produzione su base paritaria, partecipata e democratica, deve fare propria la lotta contro le forme di discriminazione che precedono o eccedono i rapporti di produzione capitalistici. Non solo un generico “rispetto” per l’altro, ma la partecipazione attiva e reale di “minoranze” e soggettività oppresse è perciò consustanziale al progetto socialista (certo senza che nessuna possa far valere una volontà di egemonizzare le altre). La lotta socialista, da questo punto di vista, assume la forma di un asse attorno a cui ruota il problema del soggetto e dei suoi rapporti con l’alterità, non è una super-soggettività che “ingloba” le altre.

 

12. La classe va abolita, non decostruita

Tutto ciò non cambia laddove il soggetto viene messo in questione nella sua identità rigida magari per aprirlo alla fluidità di genere, all’alterità non-umana o all’utopia post-human. Se la identity politics viene contestata muovendosi sullo stesso terreno accademico e iper-teoreticista (che in realtà, come abbiamo visto, è ipo-teoretico), se cioè all’identità si contrappone un rifiuto dell’identità, l’orizzonte della politica identitaria non viene realmente trasceso. Quando ad es. alcune teorizzazioni queer lottano per un’abolizione del dualismo di genere polemizzando contro il femminismo di seconda generazione si tocca con mano come quel meccanismo identitario e moralistico finisca per affettare perfino le lotte che fanno della critica all’identità il proprio fulcro: si fa della non-identità un feticcio e si condanna moralisticamente chi non “sente” la necessità di farsi attraversare dalla differenza36. La sacrosanta lotta contro la violenza e l’esclusione delle trans, infatti, non implica affatto l’accettazione in toto della prospettiva queer da parte delle femministe, meno che mai quando si pretende cancellare in nome della lotta alla discriminazione la soggettività femminile, le sue forme organizzative e i suoi obiettivi storici di lotta. Certi passaggi di Preciado sono un perfetto esempio di moralismo rivoluzionario, cripto-identitario e astratto: “io credo che la politica sia uno spazio di invenzione collettiva e che se vogliamo trasformare le relazioni di potere basate su etnia, genere e sesso, dobbiamo immaginare un altro insieme di relazioni e dobbiamo desiderare il cambiamento. Non possiamo realizzare un cambiamento sociale che non desideriamo, ma la maggior parte delle persone non lo desidera veramente perché vuole mantenere i propri privilegi sociali e politici”37. Termini come “potere” e “privilegio” vengono sganciati da qualsiasi contestualizzazione materiale, storica e ridotti a etichette vuote. Un’afro-americana, non importa se sfruttata fino allo sfinimento, sarà comunque considerata “privilegiata” nel suo ruolo “cis” rispetto alla repubblicana trans Caitlyn Jenner. Altrettanto sconvolgente è la tendenza delle comunità queer a sottovalutare l’impatto devastante del capitalismo sulla riproduzione femminile quando si parla di GPA, ulteriore segno di come l’iper-teoreticismo nella definizione dei rapporti di potere possa finire per occultare completamente le dinamiche del potere reale. Il “cambiamento sociale” auspicato, non meno vuoto del “privilegio” che denuncia, viene invocato a partire da un supposto desiderio di “cambiare tutto”, con la inevitabile colpevolizzazione di chi non desidera abbastanza o desidera, povero lui, in modo (s)corretto. E non importa se l’ingiunzione a desiderare altrimenti proviene da chi, alla fin fine, non si interessa granché della tua condizione economica: “ma noi non piangeremo per la fine dello Stato-sociale – perché lo Stato-sociale era anche l’ospedale psichiatrico, il centro d’inserimento per handicappati, il carcere, la scuola patriarcale-coloniale-eterocentrata. La nostra insurrezione è la pace, l’affetto totale”38. Lo “stato sociale” è, ovviamente, anche altro: ma per la rivoluzione dell’affetto questo altro passa sempre troppo frettolosamente in secondo piano.

Qui emerge il problema filosofico di cui abbiamo accennato e che pur essendo eredità della stagione post-moderna, sopravvive purtroppo all’esaurimento di quella moda accademica nel pensiero diffuso di molta sinistra di movimento e non: l’idea che l’anti-essenzialismo e l’anti-universalismo siano delle conquiste filosofiche che vadano senz’altro in direzione di una liberazione ulteriore rispetto alla modernità illuministica. In questa esaltazione della singolarità atomistica e della soggettività fluida, si registra quella fobia dell’alienazione e della reificazione che abbiamo visto essere tutt’altro che neutra e ingenua39.

Ora, è del tutto ovvio che l’anti-essenzialismo in natura sia pienamente giustificato e rappresenti una conquista progressiva della scienza moderna da Galileo a Darwin. Che la filosofia debba fare i conti con questo, con l’assenza di un’ontologia che possa giustificarne aprioristicamente gli asserti, è un dato di fatto. Non è ovviamente questa la sede per discutere di quale tipo di ontologia possa, ammesso che possa, corrispondere a questo stato di fatto e dunque entrare nei dibattiti sul neorealismo filosofico, il materialismo speculativo ecc. Qui basterà sottolineare come l’insuffiencenza dell’essenzialismo “naturale”, non dica nulla su come si debbano trattare i problemi di essenza nel mondo sociale. È ovvio che laddove l’essenzialismo naturale veniva a sovrapporsi all’essenzialismo “culturale” (dal pensiero di Aristotele giù giù fino a Kant e oltre) l’opera di attacco a questo tipo di essenzialismo culturale è meritorio. Tuttavia, predicare un anti-essenzialismo di principio nella cultura è assurdo. Applicato con rigore da Marx alla “naturalizzazione” dei fenomeni sociali esso viene oggi esteso a qualsiasi pretesa di leggere la rigidezza essenzialista delle forme sociali. Ma questo significa impedirsi di comprendere fenomeni come il modo di produzione capitalistico che hanno invece un’essenza che non deriva dal nostro modo di “tassonomizzarli” bensì dalla loro logica interna di sviluppo. La confusione tra ciò che è stabile perché prodotto di una precisa legge sociale che si vuole abolire e ciò che è stabile perché prodotto di una “fissazione” della mente è oggi molto diffusa. Ed è conseguenza, da un lato, dell’ideologia liberal che ha preso piede all’epoca del trionfo del post-moderno in ambito accademico40, dall’altro, dello spontaneo idealismo di chi rimane fissato a quella che non a caso Marx chiamava la superficie “fenomenica” dei processi sociali. Il problema fondamentale qui è che negarsi il pensiero dell’essenza di tali processi, dunque considerare una certa forma sociale la semplice conseguenza di un pensiero essenzialistico, significa che non si cercherà nella modificazione di quell’essenza un cambiamento dell’apparenza fenomenica, bensì si vedrà quest’ultima come qualcosa che può essere modificata a piacimento dalla volontà o dal desiderio degli attori sociali. Ora, il rapporto tra lavoro e capitale ha la forma stabile e la logica necessaria di una relazione d’essenza rispetto alla quale i rapporti sociali che dipendono da questa sfera rappresentano altrettante modificazioni fenomeniche. Ed è chiaro, come abbiamo più volte detto, che non tutti i rapporti sociali cambiano integralmente quando si cambia quell’essenza (dunque la fine del capitalismo non garantisce nessuna liberazione rispetto ad altri rapporti di oppressione), ma è chiaro che tutti si relazionano al modo specifico di essere del capitale e che questa relazione (il modo cioè in cui il capitale modifica i rapporti di genere o di specie, le relazioni comunitarie, i processi decisionali, la cultura, ecc.) per la parte che riguarda il capitale, ammesso che sia possibile scorporarla dal resto, rimane legata alla sua essenza specifica la cui rigidezza non può essere ricondotta ad una volontà di “tassonomizzare” il molteplice.

È per questo che non si può pensare di “decostruire” la classe, come si pretende o si è preteso di decostruire il genere, la razza e la specie. Le distinzioni di classe vanno abolite realmente, non “ripensate”. In questo contesto va quindi posta anche una ricalibrazione del problema dell’essenza rispetto alle questioni di genere e di specie. La lotta contro l’oppressione di genere e lo sfruttamento della natura non-umana trova infatti nelle teorizzazioni anti-identitarie queer e antispeciste una punta avanzata. Si tratta però spesso di concezioni che vedono proprio nella “tassonomizzazione” un problema di oppressione. Dunque la violenza di sistema sarebbe rivolta anzitutto alla costruzione di “polarità”, di “schemi binari” (maschio/femmina, umano/non-umano) attorno a cui sarebbero costrette ad organizzarsi le differenze potenzialmente infinite, le singolarità irriducibili di cui sarebbe “in realtà” fatta l’esistenza. È altamente dubbio che questa ontologia sia coerente ed efficace come pretende. Ma abbiamo già detto che non ci interessa porre la questione in questi termini. Il problema per noi è ancora e sempre teorico e politico perché attiene al modo in cui quei rapporti sociali interagiscono con rapporti produttivi di tipo capitalistico. L’operazione politica decisiva potrebbe essere la “decostruzione” del genere e della specie, forse, se quelle categorie non fossero a loro volta iscritte in quella dinamica produttiva. Nel momento in cui invece lo sono, diventa illusorio pensare di poter cambiare aspetti che attengono alla parvenza fenomenica del processo sociale lasciando inalterata l’essenza. Ciò potrebbe essere vero solo se si pensasse che tale essenza coincida con l’eteropartiarcato o con lo specismo. Ma in tal modo occorrerebbe che l’eteropatriarcato e lo specismo fossero a loro volta in grado di spiegare i rapporti capitalistici, visto che, in questa prospettiva, li produrrebbero. E ciò, semplicemente, non è vero. I rapporti specificatamente capitalistici scompaiono così dall’orizzonte o vengono ridotti a tassonomizzazioni “binarie”, generici rapporti di “discriminazione” fondati su un’altrettanto generica “gerarchia”. È molto probabile invece che quella derivazione del capitale dai rapporti di genere e di specie non riesca proprio perché il capitale è piuttosto la potenza asessuata e anumana che investe col suo potere disponente i rapporti sociali e li riorganizza in base alle proprie necessità. Ciò avviene perché esso realizza il collante, di per sé non soggettivo, attorno a cui le soggettività si incontrano. Ripensare quel collante come qualcosa che investe le soggettività e ne libera il potenziale è, come abbiamo visto, il compito politico dell’anticapitalismo, rispetto al quale ogni pretesa di partire dal desiderio atomistico o da un astratto universalismo rappresenta un passo indietro reale e/o un’immaginaria fuga in avanti.

La decostruzione di genere e specie è sì necessaria perché un progetto socialista possa mettere in discussione l’organizzazione gerarchica della società. Ma il fine dell’azione di liberazione da tale rigidità delle essenze naturali non coincide affatto con l’abolizione di ogni essenza o forma sociale, bensì con la realizzazione di un comune che permetta l’invenzione e la moltiplicazione delle differenze stesse. Si tratta di rendere possibile un ordine sociale in cui queste differenze si liberino e si organizzino al di fuori dalle relazioni di sfruttamento. Questa trasformazione è certo qualcosa che si può tentare di anticipare fin da ora nei rapporti personali ma, per quanto siamo venuti dicendo, non potrà esserlo in modo completo poiché sarà sempre costretto ad essere vissuto a livello di stili di vita privati o di relazioni intersoggettive e di gruppo particolari. Non a caso l’aspetto autenticamente societario di tali relazioni, in cui è cruciale pensare una specifica modalità di organizzazione del lavoro e dunque il superamento oggettivo delle relazioni capitalistiche, non compare mai: le teorie decostruttive passano tragicamente sotto silenzio questo problema. Le potenzialità di questa trasformazione e invenzione delle differenze è invece a sua volta racchiusa nella costruzione di una socializzazione cooperativa che non è possibile anticipare neanche nel più futuristico delirio cyber, per tacere dei rassicuranti sogni primitivisti e anti-tecnologici. La “durezza” del fatto sociale, per dirla con Durkheim, obbliga anche l’immaginazione a tenere il passo della trasformazione reale delle relazioni di potere. E finché la relazione di potere del capitale non verrà affrontata e battuta sul suo terreno, anche il più sfrenato sogno di reinvenzione della vita è destinato al brusco risveglio che gli riserva la spietata realtà.

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Maurizio Enzo lazzer
Monday, 08 May 2017 13:17
Io credo di essere d'accordo con le sue tesi dopo aver a fatica analizzato il testo; le difficoltà dipendono dai miei limiti di formazione.
In più mi sento di di aggiungere che sia coerente col marxismo considerare che attualmente il capitale (che appunto deriva da caput capo come vertice del comando, ma anche capo come mente), ha spostato la matrice del plusvalore dalla produzione al consumo di massa; voglio dire chela uniformazione della vita entro i ritmi produttivi-che coinvolge l'uomo ed suo contesto di natura e cultura-ha condizionato la matrice del plusvalore, ha condizionato in maniera irreversibile la mente nella maggioranza delle persone-esclusi i monaci e gli eremiti-a dipendere dal plusvalore prodotto con tutte le conseguenze dirette che fanno capo alla follia ed alla infelicità ed indirette che danno luogo alle guerre, alla distruzione dell'ambiente e della stessa coscienza sia individuale che sociale, .L'individuo è diventato alienato da quello che egli stesso produce;la conseguenza è la svalutazione accelerata del lavoro in sè, della sostanza fisica ed intellettuale del lavoro, della conoscenza e creatività teorico-pratica spostata dall'uomo alla macchina produttiva; produce quindi la sua stessa alienazione ; l'atto del conoscere finisce anche esso per essere un elemento del consumo alienato che alimenta l'atto produttivo chiudendo il circuito della formazione del plusvalore.
I sintomi sono evidenti:per esempio le varie forme patologiche di dipendenza,la perdita di soledarietà entro ed oltre il gruppo di appartenenza,la perdita della conoscenza della natura, lo svuotamentodel senso concreto del discorso filosofico,lo smarrimento della disciplina e dei codici interpretativi del testo scritto,l'ignoranza e la aggressività che connotano rapporti interpersonali,il teatro dell'assurdo a cui è ridotta la nostra vita quotidiana, l'invadenza dei media ecc. ecc.
Ma come lei mi insegna dal contesto nascono gli elementi che si sono mimetizzati che sovvertono la realtà, anzi che rivelano la realtà.........
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