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L’anatra zoppa. I comunisti e la questione di genere

di Il Pungolo Rosso

rtyheyL’atteggiamento di sufficienza con cui storicamente i compagni aderenti ai gruppi della sinistra rivoluzionaria del passato hanno guardato al movimento delle donne, giudicandolo in base ad una pretesa ortodossia marxista, la pretesa di autosufficienza di chi si impegna nel “movimento” o nelle lotte sindacali, il considerare le donne proletarie, in particolare quelle del sud del mondo, come sottomesse e arretrate, è un atteggiamento a dir poco incauto.

La questione di genere è, nella prospettiva rivoluzionaria cui si richiamano i comunisti, una questione assolutamente centrale.

Non si è mai data nella storia una rivoluzione senza la partecipazione attiva e autonoma delle donne.

Nei tempi recenti, e soprattutto nelle grandi rivoluzioni degli ultimi due secoli, le donne sono state in prima fila, hanno anzi dato il là mobilitandosi per prime e trascinando con la loro determinazione l’intero proletariato.

La doppia o tripla oppressione che subiscono le donne in tutto il pianeta è sicuramente un peso, ma al tempo stesso un vantaggio. Esse hanno molte più ragioni di ribellarsi dei loro compagni, e infatti lo hanno fatto e lo fanno continuamente, conquistando con dure battaglie anche i minimi miglioramenti della loro condizione, pagati spesso con l’isolamento e la riprovazione sociale, quando non anche con l’aggressione fisica.

La questione della liberazione delle masse femminili, della denuncia e della lotta contro la loro specifica oppressione, è una questione che non può essere evitata a nessun livello, né a quello collettivo, né a livello individuale

Ad ognuno di questi livelli, c’è un terreno di trasformazione ideologica e di azione pratica che va messa in atto.

Nessuno è esonerato da questo impegno. Chi pensa di esserlo per qualunque motivo, c’è da giurarci, non andrà lontano, ma si muoverà come un’anatra zoppa, lasciando mano libera al sistema capitalistico in un terreno fondamentale della sua sopravvivenza: quello della riproduzione complessiva della forza lavoro, quello della riproduzione in essa della sua ideologia, del suo sistema di valori, della divisione fra proletari, della subordinazione tra i sessi.

I compagni, i comunisti devono fare attenzione, che non capiti di nuovo quello che è successo agli operai di Mahalla al Kubra, nella grande stagione di lotte che ha aperto la strada all’insorgenza che ha percorso tutto il mondo arabo: nel 2006, i reparti femminili della grande fabbrica tessile Misr Spinning and Wawing company si sono mossi per primi, e hanno dato il via allo sciopero al grido “le donne sono qui, e gli uomini, dove sono?”. Erano fermi e indecisi, e si sono dovuti muovere al seguito.

Senza pensare di poter qui fare un’analisi dettagliata di quella che è la condizione delle donne oggi in Italia e nel mondo, possiamo dire sinteticamente che è di generale svantaggio e subordinazione ovunque e su tutti i fronti: economico, culturale, sanitario, lavorativo ecc. I dati ci sono: fidatevi (1).

Il riferimento di quanto segue può sembrare essere solo la condizione delle donne nei paesi occidentali più sviluppati, sia rispetto ai rapporti familiari e il lavoro domestico, sia riguardo alla loro presenza nella vita sociale e lavorativa.

Questo avviene per due motivi. Il primo, evidente, è che l’azione politica necessaria parte da qui, e quindi, delle attuali e presenti condizioni dobbiamo tenere conto per sviluppare una iniziativa politica. Il secondo motivo, ancora più essenziale, deriva dalla necessità di mettere in chiaro che la condizione della donna e le molteplici forme di oppressione che essa subisce non sono frutto di una arretratezza del sistema capitalistico in una determinata area del mondo, ma sono strutturali e fondanti del sistema stesso, e presenti anche nelle aree dove esso ha raggiunto il massimo delle sue potenzialità.

Quindi, questa scelta non è sintomo di un distacco o indifferenza verso la condizione delle donne del sud del mondo, al contrario, ci sentiamo totalmente solidali con esse in quanto parte di un unico sistema di oppressione, ma rifuggiamo dall’atteggiamento di potere o volere insegnare a loro “come liberarsi dalle loro catene”, riconoscendo che da esse sono venuti esempi molteplici di lotta e di ribellione contro la condizione specifica e complessiva che subiscono quotidianamente. Su questa base va costruita e rinsaldata la dimensione internazionale che il movimento delle donne ha avuto fin dal suo nascere, e che si è ripresentato anche in anni recenti, con la Marcia Mondiale delle donne dell’anno 2000, che ha visto partecipare centinaia di migliaia di donne di tutti i continenti in una lotta comune contro la povertà e la violenza.

Una dimensione internazionale che può diventare internazionalista nella misura in cui il movimento delle donne saprà raccogliere, riconoscere e denunciare i vari modi in cui si declinano nel mondo il patriarcato, il sistema capitalistico nella sua versione coloniale di cui tutt’ora vediamo gli effetti, fino alla aggressione armata imperialista che si ripropone continuamente, spesso vergognosamente “motivata” dall’irresistibile impulso di portare la civiltà nei paesi aggrediti e soprattutto “liberare” le donne. Una liberazione che è spesso coincisa con la distruzione delle loro risorse, l’aggressione fisica e lo stupro delle donne dei paesi occupati, e, nella migliore delle ipotesi, con l’imposizione di costumi e stili di vita occidentali, fatti propri dalle classi dominanti locali corrotte e colluse con le potenze imperialiste occupanti.

 

Perchè e su che basi trattare la questione di genere come una questione fondamentale nella lotta al sistema capitalistico

Perchè il sistema che vogliamo abbattere si fonda su due pilastri fondamentali:

  1. lo sfruttamento del lavoro salariato
  2. il sistema patriarcale.

Il sistema patriarcale è quell’insieme di norme, di tradizioni, di modi di vita, di ideologie, codificate o meno in leggi, con il quale la società borghese definisce e organizza il rapporto tra i sessi, un rapporto che è al tempo stesso interpersonale e sociale, un rapporto in cui si realizza la riproduzione della specie, non solo, ma anche la riproduzione di tutta la vita sociale degli individui.

Questo sistema è preesistente alla società capitalistica e si affaccia nella storia dell’umanità con la istituzione della famiglia monogamica e della proprietà privata individuale.

In essa si realizza per la prima volta, nella divisione sessuale del lavoro, la contraddizione di classe, che appare sotto la forma di contraddizione tra i sessi, tra l’uomo e la donna. Non a caso Engels usa il termine “classe”, specificando poi, per non lasciar adito a dubbi, che nel sistema capitalistico attuale, “nella famiglia, egli [l’uomo] è il borghese, la donna il proletario” (2).

Il patriarcato e la contraddizione che esso determina non è quindi un derivato, una conseguenza della contraddizione capitale /lavoro, e non è destinato spontaneamente a scomparire neanche con una ipotetica presa del potere da parte del proletariato rivoluzionario.

Nel capitalismo, il patriarcato è imposto e regolato con leggi e consuetudini altrettanto inflessibili di quelle che organizzano lo sfruttamento del lavoro salariato.

Il sistema patriarcale corrisponde a delle necessità ben precise del capitale, esse sono:

  1. il controllo sulla riproduzione della specie e della forza lavoro;
  2. la disciplina e il controllo sulla sessualità degli individui;
  3. la riproduzione in seno alla famiglia dei rapporti borghesi e la loro trasmissione alle nuove generazioni fin dall’infanzia;
  4. l’appropriazione del lavoro riproduttivo, domestico e di cura delle donne (e la negazione della loro essenza come lavoro);
  5. il conseguente sfruttamento differenziale delle donne nel lavoro extradomestico;
  6. l’asservimento delle donne nella società e in famiglia come oggetto sessuale.

Così come ogni classe dominante tende a giustificare i principi su cui basa il suo potere attribuendo loro un valore universale, anche il patriarcato, nelle modalità in cui si realizza nella società capitalistica, viene sostenuto da un sistema ideologico che fa risalire le sue norme e istituzioni ad una legge a-storica, eterna, garantita dalla volontà divina o da presunte leggi scientifiche o naturali.

Attraverso questa mistificazione ideologica il rapporto sociale di gerarchizzazione e oppressione di genere viene presentato come un rapporto che è determinato da leggi naturali, immodificabili e intangibili, che niente hanno a che vedere con le leggi economiche o con la realizzazione del profitto, o con un determinato sistema sociale.

Nel rapporto uomo-donna, al contrario, c’è ben poco di “naturale”.

Questa presunta “naturalità” di rapporti è negata da Marx fin dai Manoscritti del ’44, in cui è esplicitamente detto che i rapporti uomo/donna non possono essere ricondotti al semplice dato biologico, fisiologico, “naturale” (nel senso di maschio/femmina) in cui l’altra persona è ricondotta a puro mezzo di soddisfacimento dei propri bisogni.

Il rapporto non si realizza nell’uso reciproco, in esso è l’altro, nella sua interezza, in quanto essere umano, che deve diventare, nella natura umanizzata, un bisogno. Anche il più immediato dei rapporti umani è quindi un rapporto sociale, che cambia e si evolve secondo l’evoluzione della società.

Nel porre l’essere umano come essere fondamentalmente sociale, si vede come il dato naturale, biologico, sia inscindibile e indistinguibile dalla forma sociale in cui si realizza il rapporto stesso. La forma sociale, che corrisponde ad una necessità sociale, ri-determina la natura degli esseri umani, forgiando la loro percezione di se stessi e quella della società, definendo quali debbano essere i rispettivi ruoli e funzioni necessarie a riprodurre il sistema sociale in cui vivono e il potere, in esso, delle classi dominanti. E’ perciò la classe al potere che determina i rapporti uomo donna, la divisione sociale del lavoro e la gerarchizzazione dei sessi nella famiglia e nella società.

 

Perchè parliamo di oppressione di genere e non semplicemente di sesso?

A partire dalla costatazione alla nascita del sesso del nuovo nato (costatazione che è a volte frutto di forzature e interventi diretti a “risolvere” casi incerti, il che è meno raro di quanto si vorrebbe credere), vengono poste in atto nella famiglia e nel contesto sociale più ampio in cui cresce il bambino o la bambina, tutta una serie di decisioni, atteggiamenti, comportamenti atti a trasferire nel nuovo essere umano le caratteristiche psicologiche, attitudinarie, comportamentali, caratteriali, nonché le future preferenze sessuali che la società collega e impone al sesso biologico. Si determina così il genere della persona, che è il risultato complessivo di tutte queste azioni sociali, che si sovrappongono al sesso biologico, creando un sistema binario rigido e destinando l’istituzione familiare a perpetuarlo, mettendo al tempo stesso i generi in rapporto gerarchico tra di loro. Tale imposizione non è un retaggio del passato, destinata a scomparire con il procedere dell’emancipazione femminile, tutt’altro. Essa è più forte e articolata che mai, perchè deve tener conto della varietà dei ruoli sociali e delle situazioni in cui si troveranno gli individui, maschi e femmine, una volta cresciuti.

La determinazione del genere e dei ruoli ad esso attribuiti va di pari passo con la discriminazione, l’esclusione e la stigmatizzazione sociale di tutti quei soggetti che non si riconoscono nei modelli imposti (LGTBQ) e che chiedono il rispetto e la presa d’atto del loro non riconoscersi in questi modelli e delle loro conseguenti preferenze sessuali.

Dunque, anziché rispondere a criteri naturali e innati, il rapporto uomo donna è un rapporto doppiamente sociale, perchè è tra due esseri umani storicamente determinati nella formazione della loro individualità e perchè esso si realizza all’interno di un processo sociale. Questo fa del rapporto uomo/donna la quintessenza dei rapporti umani: dalle sue modalità e caratteristiche “si ricava, come ebbe a dire Marx, fino a che punto l’uomo come essere appartenente ad una specie si sia fatto uomo, e si sia compreso come uomo”, come la società si sia umanizzata e a quale livello di civiltà sia giunta l’umanità(3). Il comunismo è posto quindi come piena realizzazione dell’uomo sociale, come risoluzione dell’antagonismo uomo/natura.

 

Fino a che punto le caratteristiche di questo rapporto sono cambiate, come possiamo misurare, potremmo dire, il grado di civiltà della nostra società?

Due elementi hanno in parte cambiato le modalità in cui si realizza la tradizionale divisione del lavoro:

 

[1] Le lotte delle donne

Esse si sono sviluppate secondo varie direttrici.

  • La lotta per la parità di diritti, per il diritto di voto, per l’accesso alle professioni, per il diritto alla proprietà dopo il matrimonio ecc. Lotte che hanno visto per protagoniste le donne della classe media, per una maggior inclusione sociale, che non mettono consapevolmente in discussione il sistema sociale nel suo complesso, ma i cui obiettivi avrebbero comunque riguardato tutte le donne, e che sono stati ottenuti a tutt’oggi solo in parte.
  • Le lotte sindacali, che datano dalla metà dell’800, contro le condizioni infami di lavoro, la minaccia alla salute e alla vita delle donne e dei propri figli e l’impossibilità di far fronte ai propri compiti familiari. Anche queste lotte, pur importantissime, nella loro fase iniziale, non hanno contemplato un impegno politico generale;
  • le lotte per l’autodeterminazione della propria vita sessuale e riproduttiva e il diritto di aborto assistito.
  • Impossibile dare un quadro delle innumerevoli occasioni in cui queste lotte si sono realizzate, per questi obiettivi, per lo più intrecciati tra di loro, quasi sempre a livello internazionale.

Qualche cosa vale la pena di dire su quella che è stata la massima espressione storica di esse, e cioè la rivoluzione di ottobre, non a caso preparata da imponenti manifestazioni di donne, operaie e non, già nella sua fase preparatoria (il 1905), e inaugurata dalla grande manifestazione di donne dell’8 marzo 1917.

La rivoluzione di ottobre e degli anni seguenti ha rappresentato uno sforzo generale di rivoluzionamento della condizione femminile, in particolare delle donne proletarie, la cui vita sotto lo zarismo era del tutto miserevole. Essa ha previsto una totale equiparazione dei diritti nella famiglia e nel lavoro, nuovi tipi di rapporti interpersonali, il rifiuto dell’ipocrisia della morale borghese e la ricerca di una nuova morale sessuale.

Le campagne di alfabetizzazione delle donne nelle campagne e tra le proletarie, e d’altra parte l’inclusione delle donne in tutti i settori del mondo del lavoro hanno reso possibile una loro maggiore autonomia, e la possibilità di uscire con ciò dalla prostituzione, per alcune un destino quasi inevitabile. Una conseguenza di tutto ciò è stata la partecipazione delle donne lavoratrici alla vita politica, facilitata dalla socializzazione dei compiti legati al lavoro domestico e alla educazione dei figli: insomma, quel che si può dire una vera rivoluzione.

Uno sforzo titanico, che è bene ricordare sia ai compagni che alle compagne.

Ai compagni “tiepidi” o “poco interessati” sulla questione, perchè, riandando al massimo assalto al cielo del proletariato, si vedrà che i rivoluzionari avevano ben compreso la centralità della questione femminile e il carattere decisivo della partecipazione delle donne al processo rivoluzionario, anche se non sempre la loro condotta è stata coerente con questa comprensione. Alle compagne e alle donne in lotta, è bene ricordare che tale sforzo è stato possibile solo nel quadro di un progetto rivoluzionario complessivo, di critica radicale al sistema capitalista e imperialista e alla guerra e alla fame che da esso derivano.

Uno sforzo gigantesco, tanto più perché compiuto in un paese con una popolazione in grande maggioranza contadina, che è rimasto largamente incompiuto e che ha rivelato, nel suo svolgersi, delle profonde contraddizioni, che possono utilmente essere tenute presenti anche oggi, dopo cent’anni.

La prima contraddizione si è realizzata all’interno del partito che era alla guida della rivoluzione. Lenin stesso denunciava la resistenza interna al partito a dare il giusto peso alla questione, una resistenza che le donne impegnate nella lotta dovevano in prima persona spezzare, dando battaglia “nel partito e tra le masse”, senza troppe timidezze o timori reverenziali (4). Questa resistenza a prendere sul serio non tanto le rivendicazioni ma la presenza attiva e autonoma delle donne nella battaglia politica si è tradotta spesso in un atteggiamento ricattatorio nei confronti delle compagne rivoluzionarie, accusate di “deviazionismo borghese” e richiamate alla “contraddizione principale” ogni qualvolta pretendevano di essere ascoltate. E’ questa una chiara manifestazione della realtà sociale generale che pesa addosso ai militanti rivoluzionari DOC così come all’uomo della strada: la scarsa volontà di mettere in discussione i propri privilegi di fatto nella vita quotidiana, nella gestione del proprio tempo, nella propria capacità decisionale. Realtà sociale che pesa anche oggi, al di là dei diritti conquistati formalmente, e che si manifesta nel maggiore potere economico dell’uomo, nell’affermazione dell’uso del corpo della donna e del controllo della sua mente, delle sue idee, nei ricatti affettivi, nel controllo dei comportamenti, nell’affermazione della centralità del progetto di vita dell’uomo rispetto a quello della sua compagna. Al ruolo, in pratica, che la borghesia affida ai singoli uomini, per realizzare i propri fini.

La seconda contraddizione emersa durante la rivoluzione bolscevica è derivata dalla fiducia messianica, condivisa anche dalle compagne, nelle “anonime e possenti forze della produzione”, capaci di trasformare, senza che vi sia in campo una lotta specifica, la condizione delle donne, e di dar vita ad una nuova struttura familiare e a nuovi rapporti. Essa si è dimostrata drammaticamente insufficiente a costruire una nuova realtà sociale. L’enfasi posta sul collettivo come sostituto dell’auspicata dissoluzione della famiglia, il depauperamento del significato dei rapporti di coppia limitato all’attrazione e ai rapporti sessuali, l’elusione del problema della condivisione del lavoro domestico, di fronte alla estrema difficoltà anche economica dello stato di provvedere ai servizi sociali sostitutivi, l’idea di una realizzazione del sé sempre più accentrata sul lavoro hanno lasciato libero spazio alla ideologia statalista, alla riduzione della dimensione riproduttiva alle sue problematiche salutistiche, addirittura di rafforzamento della “razza”, al ripristino della vecchia morale operata poi dallo stalinismo. Le donne si sono trovate sempre più caricate del doppio compito di contribuire alla produzione e alla riproduzione della vita. L’assalto al cielo ha dato vita ad uno straordinario caos creativo che non ha potuto svilupparsi ed è stato stroncato dalla vittoria della controrivoluzione staliniana.

 

[2]

Il secondo elemento di cambiamento delle modalità in cui si realizza le tradizionale divisione del lavoro sulla base del sesso è data dalla necessità del capitale di avere a disposizione la forza lavoro femminile a basso costo, ricattabile e flessibile, in posizione quanto più lontana possibile dalle leve di comando e dai cordoni della borsa. Questa è la vera emancipazione proposta dal capitale, come dimostra il movimento americano (là dove il capitalismo ha raggiunto i suoi massimi risultati), movimento che si è nominato del 99%, poiché è solo l’1% delle donne che arriva a effettive posizioni di “parità”, ai massimi livelli di carriera e in casi isolatissimi anche a posizioni di potere, e in tanto ciò avviene, in quanto aderisce in toto alle necessità e all’ideologia della società capitalista.

Il modo in cui la donna è “emancipata” nel lavoro extra-domestico non mette affatto in discussione i suoi obblighi relativi al lavoro domestico e di cura, anzi va di pari passo con la loro privatizzazione, nel mentre la maggiore visibilità sociale delle donne ha esteso la fruizione del corpo femminile alla loro vita sociale e lavorativa.

Ciò ha aperto nuove acute contraddizioni. Da un lato la necessità di garantire la riproduzione e sostenere la famiglia, denunciando la crisi di natalità, cui si contrappone la continua erosione dei servizi sociali e di sostegno alla famiglia stessa; la necessità della presenza femminile nel mondo del lavoro, cui corrisponde un trattamento differenziale e la necessaria sottomissione; una maggiore libertà di movimento nello spazio sociale, con il risvolto di una appropriazione sociale della donna come oggetto sessuale.

Si creano contraddizioni esplosive anche all’interno delle famiglie e dei rapporti uomo/donna, siano essi o no sanciti dal matrimonio, quando la possibile emancipazione vuole tradursi in autodeterminazione. L’uomo, l’individuo, di ogni ceto sociale, perde il potere di controllo, la proprietà della donna e i vantaggi che ne derivano. Vediamo così lo scatenarsi della violenza, del femminicidio, che è la punta dell’iceberg delle molte e varie violenze fisiche e psicologiche che colpiscono le donne in famiglia e nella vita sociale, violenza che si affianca a quella del mercato, dello stato e dei rapporti sociali vigenti.

L’espressione di queste contraddizioni, la violenza cioè sulle donne e sui soggetti LGTBQ corrisponde alla necessità sociale di disciplinamento, di intimidazione, di gerarchizzazione di chi, in un modo o nell’altro, non si comporta secondo le norme vigenti, non è “a norma”, e si collega con la necessità di definire il genere donna come determinato dal sesso: “in ogni circostanza, non dimenticare che sei innanzitutto donna”. Ciò serve a sancire la differenza, la diseguaglianza e la gerarchizzazione che sono fondanti del sistema capitalistico.

La continua violenza esercitata sulle donne getta una luce di verità sulla natura e la stabilità delle conquiste delle donne, e mette in evidenza la necessità di combattere ogni aspetto della condizione femminile e ogni discriminazione e ghettizzazione delle persone LGTBQ.

La crescente privatizzazione del lavoro di riproduzione, del lavoro di cura e del lavoro domestico, ora più che mai indispensabile al mantenimento del sistema, la diseguaglianza salariale, la crescente disoccupazione, le peggiori condizioni nel lavoro extradomestico, la condizione di oggetto sessuale, individuale e sociale, costantemente amplificata dal sistema mediatico e contrabbandata come raggiunta parità sessuale per le donne, sono i terreni in cui si articola la lotta delle donne.

L’evidenza storica sta a dimostrare che nessuno di questi terreni di lotta è in grado di per sé di modificare gli altri: una maggiore autonomia economica non garantisce di per sé il cambiamento della natura dei rapporti tra i sessi, come non lo garantisce l’allentamento della presa dell’istituto matrimoniale, un contratto oggi essenzialmente di natura economica, garanzia per l’uomo di acquisizione gratuita dei servizi forniti dalla donna e da quest’ultima di mantenimento in un tenore di vita superiore a quello che potrebbe permettersi autonomamente. La necessità dell’istituto matrimoniale risiede tutt’ora nella sua portata ideologica, di ribadire la divisione binaria dei sessi, con tutte le sue conseguenze. Nonostante la maggiore indipendenza economica delle donne, e il parziale superamento dei tabù morali del passato, sussistono la convenienza economica, i vincoli affettivi, compiti e responsabilità condivise, bisogni umani da soddisfare che portano a ricreare la modalità del rapporto di coppia e della famiglia.

Neanche la partecipazione delle donne alle lotte politiche e sindacali, sempre frenate dai condizionamenti pratici e sociali che sappiamo, possono garantire di per sé la liberazione delle donne dalle loro molteplici forme di oppressione; in questo caso, è sempre in agguato il richiamo ad una funzione di servizio in nome della “contraddizione principale”.

A questo proposito, per i comunisti, per i rivoluzionari, è bene ricordare che la contraddizione principale è quella che oppone il capitalismo al socialismo e non semplicemente il capitale al lavoro, e la lotta a cui siamo tutti chiamati o saprà dare battaglia a tutte le sfaccettature del dominio del capitale, o non sarà.

 

Le otto buone ragioni del movimento delle donne oggi

“Finchè il proletariato giacerà inerte e politicamente indistinguibile dalla classe sfruttatrice, è positivo che gli oppressi delle periferie “sventolino sotto il naso, con fierezza, le proprie bandiere, comprese quelle di “donne”, che sono nella stragrande maggioranza, donne proletarie e lavoratrici. Dobbiamo appoggiare in modo incondizionato queste lotte….”

Così ci siamo espressi in occasione della Marcia Mondiale delle donne del 2000. Una situazione che in qualche modo si sta riproponendo nell’ultimo anno, con la formazione, a livello internazionale, del movimento “Nudm”. Esso presenta, nel suo insieme, una serie di caratteristiche di grande importanza:

Il primo: E’ un movimento che ha visto la partecipazione, e il protagonismo, nelle manifestazioni e nelle assemblee, di migliaia di donne, essenzialmente giovani, il che testimonia di un movimento reale, che si è formato a partire dalla questione della violenza sulle donne ed è l’unico movimento sociale e di lotta non sindacale attualmente vivo in Italia sul piano nazionale.

Il secondo: è un movimento che è partito dalla denuncia del femminicidio, della violenza maschile sulle donne, quindi da un elemento di lotta al patriarcalismo, per noi essenziale, e dal rifiuto del piano antiviolenza messo in atto dal governo Letta, con la trasformazione dei centri antiviolenza in strutture assistenziali che tendono a vittimizzare le donne e affrontano il problema sul piano giuridico, con l’inasprimento delle pene, e non con l’auto-organizzazione delle donne e la trasformazione radicale della società.

Il terzo: è un movimento di portata internazionale, collegato e ispirato dal movimento Usa, da quello delle donne argentine, dalle grandi manifestazioni per il diritto all’aborto in Polonia, che si mette quindi in comunicazione con la condizione e le lotte delle donne a livello globale, riprendendo l’esperienza dei primi anni duemila della marcia mondiale delle donne contro la povertà e la violenza, e quindi ipotizza una soluzione globale dei problemi.

Il quarto: è un movimento che mette in discussione e ha le potenzialità di superare alcune caratteristiche dell’esperienza femminista del passato, con la sua critica alla logica delle donne “arrivate”, emancipate (l’1%), e si pone come movimento del 99%, con una composizione di classe livellata verso il basso. Esso prende atto dell’impossibilità del capitale di rinunciare al patriarcalismo e alla gerarchia tra i sessi e consentire ad una piena parità (le cosiddette pari opportunità) anche all’interno della società capitalistica.

Il quinto: è un movimento che non si limita a denunciare il patriarcalismo, ma si affaccia alla critica del capitalismo “neoliberale”, qui in Italia, mentre in altri paesi, negli Stati Uniti e in Argentina, da dove è partito, la critica è più direttamente al sistema capitalista, all’intreccio tra oppressione di classe, di sesso e di razza, con la denuncia della funzione dello stato, del mercato, toccando questioni più generali come il collegamento con la questione del debito di stato ecc. (vedi manifesto delle donne Argentine) e ponendo la necessità del collegamento con i movimenti anti-razzisti e di classe.

Il sesto: è un movimento che ha riproposto una modalità di lotta che per molti lavoratori è diventato un lontano ricordo: la parola sciopero, realizzato l’otto marzo, una giornata che era diventata una giornata di celebrazione rituale e istituzionale, ciò riporta in evidenza la necessità di ottenere gli obiettivi con la lotta.

Il settimo: è un movimento che abbraccia più aspetti della condizione e dell’oppressione femminile, oltre che la violenza in tutte le sue forme, la questione del lavoro, la lotta alla propaganda mediatica sessista, la questione della salute riproduttiva, della socializzazione del lavoro di cura, del contrasto ai contenuti sessisti della formazione scolastica ecc., quindi presuppone una lotta ad ampio raggio che tende ad incontrarsi con le battaglie da fare da parte di tutti i lavoratori e gli oppressi.

L’ottavo: è un movimento che per la prima volta pone il problema delle donne immigrate, notoriamente l’ultimo anello della catena dell’oppressione, dello sfruttamento e dell’emarginazione: è una tematica per noi vitale.

L’efficacia della lotta delle donne che parteciperanno alla mobilitazione del prossimo 25 novembre, che ci auguriamo più ampia possibile, è legata alla capacità di allargare lo sguardo all’insieme della società e alle sue contraddizioni e in particolare, alla capacità di ricondurre le analisi dei fenomeni (femminicidio, discriminazione sul lavoro, doppio sfruttamento, violenza diffusa, discriminazione in base alle tendenze sessuali ecc.) alle loro cause strutturali, insite nella organizzazione capitalistica della società, e quindi alla necessità di un cambiamento radicale della stessa, che può avvenire solo al di fuori e contro le istituzioni dello stato.

Nonostante le caratteristiche discriminatorie, la flessibilità, la precarizzazione che accompagnano la maggiore inclusione delle donne nel mondo del lavoro, e che negli ultimi anni tendono ad essere estese a tutti i lavoratori, è necessario rivendicare l’accesso al lavoro come elemento che favorisce l’autonomia, la socializzazione e l’emancipazione, anche se non di per sé, ovviamente, la liberazione delle donne; rifiutando come soluzione quella del reddito universale, del reddito di base e quant’altro, in quanto strumento interclassista di atomizzazione, di isolamento e di esclusione della presenza femminile dal lavoro produttivo e dalla vita sociale. Il reddito di base, in quanto erogato su base individuale, universale e incondizionato, oltre che obiettivo irrealizzabile e irrealizzato nel mondo (fatta eccezione, pare, per lo stato dell’Alaska, e i motivi sono abbastanza comprensibili..), se inteso come possibile sostituto del lavoro, potrebbe essere (in astratto) realizzato solo scaricando ancor di più il lavoro produttivo, da cui estrarre questo reddito, nei paesi del sud del mondo. Se inteso invece come reddito aggiuntivo, sussidio condizionato, esso deriverebbe comunque dal reddito prodotto dai lavoratori e delle lavoratrici, tramite la tassazione generale, e avrebbe come miglior risultato una semplice redistribuzione del reddito e un incremento dei consumi individuali, non intaccando minimamente il sistema nel suo insieme. La garanzia di un reddito minimo erogato dallo stato sarebbe inoltre un aiuto fondamentale alle imprese, che potrebbero comprimere i salari verso il basso , verso quel “salario minimo europeo o nazionale”, che diventerebbe immediatamente salario massimo. La richiesta fondamentale deve essere quella del lavoro, relegando in via subordinata l’erogazione di un reddito, che non lo sostituisce – strettamente coniugata con la prospettiva di lotta per lavorare tutti lavorare meno, lavorare meno lavorare tutti, per il lavoro socialmente necessario.

A maggior ragione, nella questione di genere, anche nei percorsi di fuoriuscita dalla violenza, esso è un sussidio che deve essere visto come necessario ma temporaneo e che non esaurisce la necessità di reinserimento autonomo e sociale delle donne maltrattate.

Riandando anche al dibattito degli anni ’70, è necessario battersi contro qualunque richiesta che richiami, in un modo o nell’altro, al salario al lavoro domestico, che istituzionalizza ancora di più la divisione dei ruoli, l’atomizzazione e il culto della differenza di attitudini e propensioni “naturali” delle donne. Il nostro obiettivo è la socializzazione del lavoro domestico, impedita dalla continua erosione del welfare, che comporta la privatizzazione del lavoro di cura e riproduttivo, e il suo trasferimento alle donne immigrate. Sulla questione del lavoro domestico va fatta una doppia battaglia: per la sua assunzione a carico della collettività e in ogni caso per la sua condivisione all’interno della coppia.

La sempre più massiccia presenza delle donne sul mercato del lavoro e nella vita sociale si accompagna a tutta una serie di discriminazioni e subordinazioni oggettive e soggettive che garantiscono il mantenimento della sua posizione precaria, flessibile e marginale. Questa presenza porta con sè la trasformazione del ruolo sessuale della donna, non più determinato dallo schema binario dato dal matrimonio o dalla prostituzione. La donna che esce dall’ambito familiare e casalingo viene considerata come oggetto sessuale nella sua vita sociale, nello svolgimento del suo lavoro (ne sono testimonianza gli innumerevoli casi di molestie e ricatti sessuali sul lavoro) come merce fruibile dall’universo maschile. Qualunque lavoro faccia, dal più umile al più prestigioso, qualunque ruolo svolga, la donna non si può mai dimenticare di essere donna, il cui corpo e il cui aspetto esteriore deve corrispondere all’immagine che l’uomo (la “comunità dei maschi”) ha di lei. Un formidabile apparato industriale, ideologico, culturale si è formato a tal fine: dall’abbigliamento alla cosmesi, dalla propaganda mediatica alle riviste specializzate, dall’industria pseudo-farmaceutica delle diete alla chirurgia plastica. Non solo il corpo, naturalmente, ma anche il cervello e le capacità, devono essere improntate ad un ruolo servile, con le caratteristiche del “genere” donna. Il corpo della donna è lo strumento base dell’industria della pubblicità, esso diventa così una merce da utilizzare per vendere altre merci. Tutto il sistema educativo è improntato alla definizione del genere, tutto l’apparato mediatico è proteso a piegare le donne a questa necessità, da cui deriva per noi la necessità della denuncia della mercificazione del corpo femminile e la lotta ai modelli femminili propagandati dai media a questo fine fin dalla più tenera età.

L’ideologia dominante ha contrastato violentemente le lotte per l’autodeterminazione e per il diritto all’interruzione di gravidanza. Una volta ottenuto questo diritto, sancito dalla legge 194, lo stato ha tenacemente lavorato per vanificarlo, consentendo il dilagare dell’obiezione di coscienza, che la rende per lo più impraticabile. I necessari cambiamenti di costume e di sensibilità e una maggior autonomia nella gestione della propria vita sessuale, che, nel movimento delle donne, si è sempre accompagnata alla rivendicazione del diritto ad una maternità consapevole, si scontrano oggi con una duplice contraddizione. Da un lato anche la maternità è sospinta sempre di più in una dimensione individuale, il cui peso è caricato sulle spalle della madre, ed è reso sempre più incompatibile con la vita lavorativa, nella progressiva assenza di servizi, nella dissoluzione della famiglia allargata come possibilità di supporto, e nella atomizzazione dilagante degli individui. Dall’altro vi è una pressione ideologica e sociale a fare figli, un continuo allarmismo sul crollo delle nascite (e un incentivo a consentire l’immigrazione a questo scopo), un martellare pubblicitario sulle gioie della famigliola del tutto lontane dalla realtà quotidiana e buona a vendere biscotti e merendine. Lo svuotamento delle possibilità di vera realizzazione nella vita delle donne porta spesso all’accanimento nel perseguire la maternità biologica, come mezzo di realizzazione di se stesse, con gran beneficio dell’industria della procreazione assistita o con l’adozione di pratiche (utero in affitto), che al di là delle intenzioni di chi le persegue sono destinate a sfruttare ulteriormente le donne del sud del mondo.

La presenza sempre più massiccia nella nostra economia e nelle nostre case delle donne immigrate impone non solo di essere solidali con le loro lotte, di riconoscere le specifiche differenze con un ottica intersezionale, che tiene conto cioè delle varie forme di oppressione che si sommano e si intersecano nelle singole donne, di riflettere sul multiculturalismo e sull’islamofobia; di combattere contro la divisione tra migranti economiche e richiedenti asilo. Nel movimento è emersa come maggioritaria la posizione che si sintetizza nello slogan ”libere di muoversi, libere di restare”, che ha messo l’accento sulla questione della libera circolazione, dell’abolizione dei confini, della lotta alla repressione cui le donne immigrate sono soggette all’ingresso nel nostro paese, rivendicando, si potrebbe dire, il “diritto di fuga”, e denunciando gli ostacoli opposti dai governi alla “libera migrazione” delle donne.

Da parte nostra, riteniamo fondamentale:

  1. riconoscere le cause della emigrazione, che non è la risposta ad un generico impulso a “migrare”, di un desiderio di “costruire altrove il proprio futuro”, quasi si trattasse di andare all’estero a fare l’Erasmus, ma una scelta obbligata dalla miseria o dalla guerra. Le donne “migranti” sono in realtà donne e-migranti, che provengono da paesi, da realtà, da tradizioni ed esperienze che tendiamo ad ignorare, e che nessuna avrebbe lasciato se non costretta.
  2. rivendicare quindi in prima istanza il diritto a non emigrare, che non ha ovviamente nulla a che vedere con lo slogan leghista, e non solo, dell'”aiutiamoli a casa loro”; al contrario, è un diritto che porta con sé la denuncia delle cause e delle responsabilità del disastro economico e delle distruzioni belliche che storicamente la presenza occidentale e del governo italiano ha causato nei paesi di origine. La tematica della lotta alla guerra, al militarismo e al neo colonialismo, occidentale e italiano, che sono alla base delle “migrazioni”, la denuncia del vecchio e nuovo colonialismo come affossatore storico delle istanze di liberazione delle donne, aggredendole nei loro paesi e obbligandole alla lotta per la sopravvivenza, sono parte integrante della solidarietà e della lotta delle donne.
  3. in terzo luogo, è necessario demistificare il fatto che le frontiere, la repressione, la criminalizzazione delle emigranti e delle immigrate (e degli immigrati) sia fine a se stessa (sia la negazione di un “diritto civile”) e non sia invece uno strumento di sottomissione che mira a far accettare le condizioni di vita e di lavoro peggiori possibili, che per le donne spesso significa anche l’obbligo a prostituirsi;
  4. in quarto luogo, denunciare le violenze che esse subiscono, a partire dalla violenza domestica di chi svolge il lavoro di cura, e che riguarda la maggioranza delle donne immigrate in Italia. E’ necessario denunciare la violenza anche psicologica insita in questo particolare tipo di lavoro, che le obbliga a trascurare il rapporto diretto e le cure da prestare alla propria famiglia di origine e dedicare queste loro capacità a degli estranei, per sopravvivere e aiutare a sopravvivere figli, mariti ecc. Sarebbe necessario dar vita a momenti e possibilità di aggregazione per queste donne il cui lavoro si svolge nel chiuso delle case, senza possibilità di socializzazione, e che spesso si ritrovano nelle chiese ortodosse, dove viene loro confermata la necessità della sottomissione e della sopportazione.

Nell’attuale clima di razzismo istituzionale e diffuso, anche all’interno della massa dei lavoratori, vanno denunciate le discriminazioni riservate direttamente alle donne immigrate, che riguardano le loro abitudini culturali e le loro credenze religiose, specialmente se manifestate esteriormente. Questo fenomeno è internazionale, viene qui mutuato dagli USA, dove colpisce in particolare le donne di origine araba e di fede mussulmana. Esso si è presentato dapprima come una forma di “protezione” e volontà di liberazione delle donne dall’oppressione dei loro mariti e delle loro comunità, (previa l’accettazione totale di stili di vita e valori dell’occidente, ovviamente) poi, dopo l’11 settembre, come criminalizzazione e accusa di collusione con le tendenze jihadiste e di complicità con la pratica del terrorismo.

La capacità dei governi occidentali di liberare le donne del sud del mondo dalla loro duplice e triplice oppressione non ha bisogno di essere commentata; essa avviene quotidianamente attraverso le bombe, le rapine delle risorse, il dominio militare ed economico, il caloroso appoggio agli ultra-reazionari e repressivi governi locali….

E’ stata presente nel movimento femminista occidentale una corrente sempre più minoritaria e istituzionale che si ispira alla ideologia colonialista secondo la quale solo noi in occidente siamo depositarie della lotta per la liberazione femminile, che dovrebbe avvenire estendendo il modello di vita occidentale ai quattro angoli del pianeta. Questa impostazione, criticata dal movimento del 99%, è sempre più smentita dall’enorme estendersi delle lotte delle donne in tutti i continenti (“non una di meno” è lo slogan della lotta contro i femminicidi in Messico, delle maquilladoras, poi raccolto dalle donne argentine, e da lì esteso in tutto il mondo), non solo, ma dalla partecipazione delle donne all’intifada araba, alle lotte contadine in sudamerica, alle lotte delle donne nel continente indiano, rivendicando e praticando la loro mobilitazione autonoma e la resistenza di fronte alle minacce e agli attacchi subiti, di carattere spesso esplicitamente sessuale.

Quando si affronta la questione di genere i comunisti tradizionalmente fanno sì con la testa, poi passano ad altro. Il capitale procede e si rigenera, mentre le anatre zoppe, si sa, non vanno lontano.

Saranno le prime a finire arrosto….


Note
1) Atlas mondial des femmes: les paradoxes de l’émancipation, a cura di Isabelle Attané, Carole Brugeilles, Wilfried Rault, Autrement, 2015.
2) Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato, Newton Compton, 1975, pp. 90, 98.
3) Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, 1968, p. 110.
4) Lenin, intervista a Clara Zetkin, in L’emancipazione della donna, Editori Riuniti, 1970, pp. 102-106.

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