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frontiere

Quelo, Greta e la dottrina neoliberale della verità multipla

di Pier Paolo Dal Monte

greta thunberg Jody Thomas Bristol«C’è grossa crisi», direbbe Quelo, quella sorta di parodistica crasi di santone e telepredicatore che fu interpretato da Corrado Guzzanti.

La crisi, è l’«ospite inquietante» dei nostri tempi, accompagna sempre qualunque presente, con un montante subentrare di tante crisi: Leconomia, Lecologia, Lademografia, Lemigrazioni, Lapovertà, Lepidemie, Linflazione, Ladeflazione... un incalzare di crisi che riduce i poveri esseri umani come tanti pugili suonati che, incapaci di reagire, ricevono tutti i colpi che i mezzi di informazione riversano sulle loro povere menti.

Ovviamente, ora non possiamo parlare di tutte le crisi portate alla ribalta dall'inesauribile cornucopia dei mezzi di comunicazione; ci concentreremo, pertanto, su una sola di esse che, periodicamente (e ora, anche, prepotentemente), viene portata all'attenzione dell’opinione pubblica, ovvero quella che viene definita «crisi climatica» o «riscaldamento globale» che dir si voglia.

Questa volta, per creare sgomento nelle vittime della mitologia mediatica su questo «fantasma che si aggira per il mondo», non è stato utilizzato uno scienziato dal linguaggio algido e un po’ astruso, non un politicante imbolsito alla Al Gore, o un attore Hollywoodiano al guinzaglio (che, non si sa mai, avrebbe potuto essere fotografato alla guida di una Lamborghini o a bordo di un jet privato). No, niente di tutto questo.

Questa volta gli sceneggiatori delle unità di creazione delle crisi si sono superati e hanno tirato fuori dal cilindro un personaggetto ideale per emozionare le infantilizzate masse postmoderne: una povera ragazzina iposviluppata e autistica (seppur di basso grado) che sostiene di percepire (non si sa con quale organo di senso) l’aumento di CO2 nell'atmosfera (che si calcola in parti per milione). Insomma, una testimonial che ha la presenza scenica di Topo Gigio e l’apoditticità predittiva del Mago Otelma la quale, però, parla ai «potenti della terra».

Tanto di cappello agli sceneggiatori: con ingredienti così scarsi, sono riusciti a creare un manicaretto mediatico di portata mondiale, che ha dato origine ad un «movimento» di pari portata, il cosiddetto Friday for Future (insomma, un week end lungo), spontaneo come può essere la disinvoltura mostrata da chi cerca di passare una frontiera con una valigia di cocaina nel bagagliaio. E così è stata creata una nuova forma di «Fate presto!» di portata globale, un cosmico «vincolo esterno», uno stato di eccezione planetario al quale subordinare le politiche di quello che un tempo si chiamava «occidente».

Per la verità, questa «emergenza» non è poi così emergente come vorrebbero far credere i registi dell’odierna intemperie, visto che il fenomeno è studiato fin dagli anni ’50, quando si iniziò a parlare dell’impatto dell’aumento della CO2 su base antropogenica [1]. Il fenomeno divenne noto all'opinione pubblica mondiale nel 1988, in occasione di un’audizione al Congresso degli Stati Uniti di James Hansen, climatologo della Columbia University, che lanciò un allarme circa il rischio di riscaldamento globale dovuto, appunto, all'aumento dei «gas serra». Nello stesso anno venne istituito dall’ONU l’IPCC. A tale allarme fece rapidamente seguito la risposta “negazionista” dei giganti dell’industria energetica (ai quali si unirono svariati settori merceologici), che diedero vita ad un centro studi, la Global Climate Coalition (1989-2001),[2] col compito di confutare e contrastare le conclusioni dell’IPCC, adottando quindi la tipica strategia neoliberale (anche questo verrà elucidato in seguito) di mettere “scienza contro scienza”. Dopo lo scioglimento della GCC, il testimone venne passato ad altre entità, tra le quali è bene ricordare lo Heartland Institute.

Nella seconda metà degli anni ’90 il tema del riscaldamento globale fu oggetto di un’attenzione crescente da parte dei mezzi di comunicazione, che andò vieppiù intensificandosi nei primi anni del nuovo secolo, subendo un brusco arresto in occasione della crisi finanziaria del 2007/2008 e della recessione economica conseguente. Ubi major, minor cessat e, nel sistema capitalistico, il major è sempre e comunque legato a questioni economiche; naturalmente questo non significa che gli altri problemi non siano considerati tout court - in fondo, nonostante ciò che asserì quel sempliciotto di Fukuyama, la storia non è finita - ma ciò dovrebbe far sorgere qualche domanda circa il motivo per il quale un tema così cruciale, quale dovrebbe essere il riscaldamento globale, salti fuori solo periodicamente. E, si badi bene, non ne facciamo una questione di merito, ovvero se vi sia o meno un’emergenza climatica, ma, sempre e soltanto, una questione di metodo: un’emergenza dovrebbe essere sempre tale, ossia impellente ed improcrastinabile, qualsivogliano siano le condizioni economiche o politiche concomitanti. Se invece tale emergenza assume un carattere «intermittente», sorge il sospetto che, coeteris paribus (ovvero non mettendone in dubbio la veridicità), lo scopo principale di questa periodica comparsa sia, ancora una volta, quello di indirizzare l’attenzione delle masse verso la direzione desiderata da chi controlla il sistema (i famosi «potenti della terra» intimoriti dalla ragazzina che percepisce l’aumento di CO2).

È dagli anni ‘60 che si denuncia l’esistenza di gravi problemi ambientali[3] (non solo climatici), ed è dal decennio successivo che si è iniziato a colorare l’attività economica con una sfumatura «ecologica», a tingerla di verde (colore che stava bene con tutto, prima che se ne appropriassero i famigerati populisti padani), il cosiddetto «green washing», che è anche definito, con locuzione più elegante, «sviluppo sostenibile», ineffabile ossimoro che ha il pregio di suonare assai bene e non significare alcunché, visto che i due termini del sintagma non sono connotati da definizioni precise. «Sviluppo» presuppone un tèlos, un fine cui volgere, mentre «sostenibile» necessita un termine di confronto: sostenibile per chi? Per cosa? Rispetto a cosa? Come? E via dicendo.

In mancanza di queste precisazioni, rimane solo un motto epitomico del politicamente corretto che testimonia la meravigliosa abilità del capitalismo di trasformare tutto, anche i fattori apparentemente negativi, come l’inquinamento e la crisi della biosfera, in nuove nicchie di mercato: in questa incessante opera mimetica e reificante è riuscito a creare finanche una disciplina di studio dal nome di «Ecological Economics» (con tanto di rivista dedicata) ispirata dagli studi di Nicholas Georgescu-Roegen[4] (e, successivamente di Hermann Daly) che cercarono di evidenziare l’incompatibilità dei parametri termodinamici con quelli economici. Come tutte le buone intenzioni, questi studi non hanno fatto altro che lastricare le vie dell’inferno sfociando, da un lato, nella ricerca di un valore monetario dei «servizi degli ecosistemi» (Robert Costanza) e, dall'altro, come si diceva, nella creazione di nuove nicchie di mercato surrettiziamente denominate «bio», «green», «eco», o che dir si voglia.

Tutte queste operazioni di «lavaggio» hanno lo scopo, non solo di creare nuove nicchie commerciali e di trasformare le residue parti di mondo in merce e mercato; ma anche quello di distogliere l’attenzione dal vero tema, quello che conduce inevitabilmente a tutti i problemi particolari dai quali è affetto il capitalismo, ovvero l’incommensurabilità concettuale e ineludibilmente fattuale tra parametri economici e mondo fisico che, come ben comprese Marx, risiede nella primazia del valore di scambio sul valore d’uso (o, prima di lui, Aristotele quando distinse tra oikonomia e crematistica). Siccome il fondamento del capitalismo poggia sull'accumulazione esponenziale di mezzi monetari (il capitale), che è virtualmente infinita, ma che si deve manifestare, giocoforza, in un ambiente che dispone di una quantità di materia che è data, è facile comprendere come questo fatto possa giungere a provocare qualche problema.

 

La gabbia epistemica del neoliberalismo

Partendo da queste premesse, possiamo ora parlare di come le questioni di cui sopra siano inserite nel quadro epistemico che caratterizza il capitalismo odierno, la cui forma è stata plasmata da ciò che è stato definito «neoliberalismo». Come ha documentato Philip Mirowski[5] (e in parte anche Michel Foucault, sebbene non in modo così esplicito[6]), il nucleo del pensiero neoliberale non è tanto economico quanto epistemologico e si è andato storicamente a connotare come un vero e proprio «collettivo di pensiero», come asserì Dietrich Plehwe[7] (prendendo spunto dagli scritti di Ludwik Fleck che descrisse l’impresa scientifica come formata da «una comunità di persone che scambiano mutualmente idee o mantengono un’interazione intellettuale»).[8] Non ha quindi molto senso il considerare (come, peraltro, fanno molti), questo fenomeno come un orientamento economico o, tanto meno, di spiegarlo con le obsolete categorie del pensiero politico del secolo scorso ( destra politica, conservatorismo, liberalismo, ecc.).

Questo equivoco spiega, in larga parte, l’insuccesso dei movimenti che criticano e cercano di contrastare la fisionomia attuale del capitalismo (che viene definita «liberismo» o «neoliberismo»),[9] nel quale non sono state mantenute le promesse che sembravano implicite nei «trent’anni gloriosi» del dopoguerra, quando appariva ineluttabile un futuro progressivo di benessere ed uguaglianza per tutti (almeno nei paesi del cosiddetto capitalismo avanzato). Non solo nulla di tutto questo si è avverato, ma non si è neanche mantenuta una sorta di stato stazionario nel quale si fossero consolidate le conquiste precedenti. Viceversa, in tutto il mondo occidentale, si è assistito a una progressiva diminuzione del benessere che sta portando alla scomparsa della classe media, a una riduzione dei servizi e a una polarizzazione sempre maggiore della ricchezza.

La più parte delle critiche si è limitata a considerare lo stato attuale della nostra forma-mondo come una sorta di malattia benigna in un organismo, altrimenti, sano, la cui terapia consisterebbe in una sorta di ripristino dello status quo ante (confondendo il mezzo con il fine), una sorta di irenico riequilibrio da ottenersi grazie a un ripristino di efficaci regolazioni del mercato, a un’economia che torni sotto il controllo degli Stati, nella quale si riaffermi il primato della manifattura sulla finanza (il mito dell’«economia reale»: un’altra chimera fatta da domini incommensurabili ma, soprattutto, che «rimetta i debiti ai debitori» (la Grecia, i Paesi poveri, ecc.). Questa carenza di analisi ha fatto sì che, i movimenti di cui sopra, si siano cullati nell'illusione che fosse sufficiente mettere in scena azioni di protesta che «sorgono dal basso» contro il «crudele e distorto stato del mondo»,[10] per sperare di contrastare efficacemente lo status quo. Viceversa, ciò che è avvenuto nel regno della realtà è che quasi tutti questi movimenti di protesta (dal movimento no global alle varie rivoluzioni colorate) si sono rivelati, nel corso del tempo, abili maskirovka che hanno mantenuto sotto controllo il malcontento e ostacolato vieppiù la possibilità di contrastare il sistema.

È difficile per coloro che sono spinti dall'afflato di «cambiare il mondo» credere che la «spontaneità» di tali proteste sia, in realtà la messa in scena di un copione scritto da altri, un prodotto pronto per essere messo sul mercato delle idee. Ma il mondo creato dal collettivo di pensiero neoliberale funziona proprio così: esso è stato in grado di creare un’epistemologia omnicomprensiva che permea la cultura contemporanea con un coacervo di verità multiple, tutte ugualmente «vere», che sono in grado di coprire tutte le alternative possibili: dal conformismo all'anticonformismo, dalla reazione alla rivoluzione, dal sistema all'antisistema. Un regime caleidoscopico e proteiforme nel quale una critica reale e sensata allo status quo non ha alcuna base sulla quale poggiare (difficile combattere contro qualcosa che non ha una forma definita, essendo in grado di assumere tutte le forme). Quando il mondo è rappresentato, in ogni suo aspetto, con un’immagine distorta, è quasi impossibile percepire questo ribaltamento: come nella caverna platonica, gli spettatori sono portati a credere che le immagini proiettate sulle pareti corrispondano al mondo reale.

Non affronteremo questo argomento nella sua totalità, ma ci soffermeremo soltanto sul problema del riscaldamento globale, in modo che possa costituire un paradigma esemplificativo della manipolazione suddetta.

 

L’utopia neoliberale e il riscaldamento globale

Come abbiamo detto, il collettivo di pensiero neoliberale è stato capace di costruire un intero armamentario di proposte epistemiche e politiche che, di fatto, hanno occupato tutto lo spazio delle alternative possibili. Naturalmente non stiamo parlando della banale e falsa dialettica centro-destra/centro-sinistra, democratici/repubblicani, conservatori/laburisti che, tuttavia, invade tutto lo spazio parlamentare delle democrazie liberali. No, stiamo parlando di un’operazione molto più capillare e pervasiva di occupazione (obliterazione, quando questo non sia possibile) di tutte le forme di pensiero e di azione, anche al di fuori della «politica politicata», che è riuscita a confezionare, con la complicità delle anime belle del progressismo di ogni forma e di ogni età, non solo, una panoplia di vacue utopie volte a sterilizzare le velleità politiche delle masse come, ad esempio, la fratellanza tra i popoli, la società senza frontiere, il governo globale (o, con una maggiore vena distopica, le corbellerie del post-umano e la moltiplicazione dei generi), inibendo, grazie alla vacuità del fine, ogni possibilità di azione reale, ma - e qui sta la genialità - a creare un catalogo omnicomprensivo di proposte «politiche», in grado di coprire l’intera gamma della domanda da parte del pubblico, con obiettivi a breve, medio e lungo termine.

Per comprendere appieno questa operazione è bene fare un piccolo passo indietro e spiegare brevemente un punto cruciale dell’epistemologia neoliberale. Essa ha sempre respinto la falsa dicotomia dei liberali classici laissez faire di Stato versus mercato come dispositivi antitetici. Al contrario di questi ultimi, i neoliberali non considerano il mercato un luogo di allocazione delle merci (materiali o immateriali), ma un elaboratore di informazioni, il più efficace ed efficiente elaboratore che si conosca, assai migliore di qualsivoglia entità umana (individuale o collettiva).[11]

In secondo luogo - anche qui diversamente dal pensiero liberale classico e alle sue moderne propaggini - l’ideologia neoliberale propugna uno Stato forte che, tuttavia, non abbia come compito principale (e neanche secondario, per la verità) quello di controllare gli animal spirit del mercato, ma quello di controllare se stesso, ovvero, come direbbe Marx, agire da «comitato d’affari della borghesia» il cui scopo sia quello di promuovere, salvaguardare ed estendere gli ambiti del mercato. Per svolgere questo supremo compito, lo stato deve operare con tutte le proprie prerogative (compresa quella del monopolio della forza) per costruire una sorta di totalitarismo del mercato (un telos potenzialmente infinito) mediante una mercificazione sempre più estesa e capillare dell’esistente.

Anche per ciò che riguarda il riscaldamento globale (che è di natura ecologico/termodinamica), possiamo notare la differenza di approccio tra neoliberali e liberali classici. Per questi ultimi, i problemi della biosfera sono sintomi di malfunzionamento del mercato (market failure), la cui soluzione dovrebbe risiedere nell'attribuire un giusto prezzo alle esternalità (inquinamento, ecc.), alle risorse e ai cosiddetti servizi degli ecosistemi (approccio della Ecological Economics). Per i neoliberali, invece, questo tipo di problemi è destinato a sorgere ineluttabilmente a causa dell’inestricabile complessità delle interazioni tra la società e la biosfera, per comprendere le quali la conoscenza umana è affatto inadeguata. In realtà, il pensiero neoliberale adotta questa panoplia epistemologica in maniera affatto opportunistica, adoperando la complessità pro domo sua: siccome non ci si può affidare alla conoscenza umana per comprendere e prevedere questa multiforme e diveniente realtà, vi è bisogno di una sorta di deus ex machina, di un diavoletto di Maxwell, di una finzione retorica spacciata per verità: un’ immagine idealizzata di mercato perfetto, spontaneo ordinatore dell’ordine spontaneo e supremo elaboratore di informazioni, il motore immobile (ma, di fatto, mobile) al quale si demanda il compito di trovare soluzioni a qualsivoglia problema. Siccome, tuttavia, questo ordine «spontaneo» non è dato nei sistemi politici - e ci mancherebbe altro! - è necessaria tutta la forza di uno Stato forte che, col suo imperio, possa spontaneizzare ciò che spontaneo non è (da qui anche la finzione del «libero» mercato).

A questo punto, la strategia appare alquanto circolare: siccome non ci si può affidare alle decisioni politiche per affrontare i problemi complessi (dei quali fa sicuramente parte quello del cambiamento climatico), visto che la capacità conoscitiva dei decisori è fallace per definizione, allora è necessario che i decisori facciano un passo indietro abdicando al loro compito e affidino al mercato[12] - con una decisione politica! - il compito di decidere quali siano le soluzioni migliori. Ma a volte il problema è piuttosto restio a farsi incanalare con disinvoltura nei meccanismi di mercato, e quello del riscaldamento globale fa senz'altro parte di questa categoria. In questi casi la strategia dovrà seguire un piano più complesso ed essere dipanata secondo vari stadi successivi. Qui possiamo individuare una strategia composta da diversi stadi caratterizzati da diverse strategie di manipolazione dell'opinione pubblica: dalla promozione del «negazionismo» scientifico alla creazione di fenomeni come Greta Thurnberg o Friday for Future Tutte facce della medesima medaglia: la «risposta neoliberale» ai cambiamenti climatici.[13]

a) Il «negazionismo» scientifico

Il primo stadio consiste generalmente nel prendere tempo per poter elaborare gli stadi successivi. In casi come questo, la tecnica più efficace è quella di instillare il dubbio nell'opinione pubblica che questo tipo di problemi non sia correlato al modello economico della società attuale (sovraconsumo, inquinamento, sovrasfruttamento della biosfera, ecc.), in poche parole: che il mercato non è mai colpevole (a tal proposito è utile far notare che, ad esempio, nei paesi del blocco sovietico i problemi ecologici erano assai più gravi ecc.).

Lo scopo di quello che è stato chiamato «negazionismo» scientifico, promosso, principalmente, dalla Global Climate Coalition e, poi, dalla Hearthland Foundation, alle quali abbiamo già accennato, è stato quello di controllare l’opinione pubblica che, allarmata dal problema del riscaldamento globale, avrebbe potuto far pressione sui governi per affrontarlo con decisioni politiche, ovvero, come abbiamo detto, a prendere tempo per elaborare opportune soluzioni per far rientrare la questione nel recinto del mercato. La soluzione «negazionista», ancorché di carattere temporaneo, aveva il vantaggio di essere rapidamente dispiegabile ed economica e di distogliere l’attenzione del pubblico dagli argomenti appropriati.

La strategia del «collettivo di pensiero neoliberale» vuole che la prima risposta a una sfida di natura politica debba sempre essere di tipo epistemologico:[14] è necessario mettere in dubbio ciò che costituisce l’argomento di tale sfida, in questo caso, negare il problema e temporeggiare indefinitamente con sterili diatribe riguardo al merito (ovvero, se esista o meno il riscaldamento globale su base antropogenica). Il «mercato delle idee» deve essere sempre irrorato col dubbio affinché, come un efficace diserbante, esso possa far sviluppare solo le piante (idee) desiderate. Questa tecnica, descritta dallo storico Robert Proctor sotto il nome di «agnotologia»,[15] si è rivelata nel tempo assai efficace.

La dottrina neoliberale difende, formalmente, il diritto di chiunque di sostenere qualsivoglia scempiaggine con egual diritto (la «saggezza delle masse»)[16] perché, in ultima analisi, l’ambito nel quale si stabilisce la verità è sempre il mercato. Quest'ultimo, tuttavia, non è mai libero come viene spacciato, ma è controllato da coloro ai quali fa comodo che venga spacciato come libero (e non certo da quella congrega di esperti che rappresenta la «scienza ufficiale»). Di fatto, la dottrina neoliberale coincide perfettamente con quella di Quelo: «la risposta è dentro di voi, epperò è sbajata [a meno che non coincida con la nostra]».[17]

Questo primo stadio però è ben lungi dall'essere sufficiente per incanalare il problema nei meccanismi di mercato, pertanto è necessario elaborare gli stadi successivi facendo sì che essi si dispieghino mediante un’offerta merceologica che sia in grado di coprire l’intero spettro della “domanda” di “soluzioni”. È altresì necessario che ognuna di queste implichi la creazione di un profitto e, possibilmente, che estenda la sfera del mercato ad ambiti mai toccati prima.

b) La mercatizzazione della CO2 e l’accumulazione per espropriazione

Dopo questo primo stadio agnotologico, è necessario che a un certo punto il mercato faccia il suo ingresso. In questo caso, l’azione del mercato si dispiega secondo due linee principali: la prima è costituita dalla monetizzazione e dalla conseguente finanziarizazione dei servizi degli ecosistemi, ovvero dalla creazione di permessi di emissione di CO2; la seconda, da quella che David Harvey ha definito «accumulazione per espropriazione».

L’istituzione di mercati dei permessi di emissione costituì un’abile strategia per costruire un nuovo settore merceologico e finanziario, ma anche per convincere gli attori politici del fatto che la risposta al problema dei cambiamenti climatici, ovvero la diminuzione dell’emissione di gas serra dovesse competere ai mercati invece che ai governi: si è mercatizzato qualcosa che avrebbe dovuto essere politico. Naturalmente, questa «soluzione» non ha condotto ad alcun risultato, per quello che era lo scopo dichiarato: di fatto non ha evitato l’emissione di una sola molecola di CO2.[18] D’altra parte, questo non era certo lo scopo reale, che viceversa, era quello di adoperare la scusa del riscaldamento globale per creare un nuovo strumento finanziario dal nulla, una merce virtuale che mercifica un dato fisico, peraltro virtualizzato, un nuovo derivato da immettere nella grande fucina della finanza fornendo agli operatori un ulteriore strumento speculativo da trasformare in moneta reale.

L’altro braccio della strategia a medio termine è stato quello dell’accumulazione per espropriazione, che merita qualche parola di spiegazione:

La descrizione di Marx dell’«accumulazione primitiva» comprende fenomeni come la mercificazione e la privatizzazione della terra e l’espulsione da essa della popolazione contadina; la conversione di varie forme di beni collettivi in proprietà privata; la mercificazione della forza lavoro e la eliminazione delle alternative ad essa; processi di appropriazione coloniale o neocoloniale di beni e risorse naturali; monetizzaione degli scambi e tassazione della terra; commercio degli schiavi; usura; il debito pubblico e il sistema creditizio.[19]

Si potrebbe pensare che questi tipi di accumulazione siano un retaggio del passato, dei tempi del capitalismo nascente e di quelli in cui iniziava ad affermarsi in maniera sempre più estesa e capillare.

A questo scopo si adottano infatti metodi sia legali sia illegali […] Tra i mezzi legali si annoverano la privatizzazione di quelle che un tempo erano considerate risorse di proprietà comune (come l’acqua e l’istruzione), l’uso del potere di espropriazione per pubblica utilità, il ricorso diffuso a operazioni di acquisizione, fusione e così via che portano al frazionamento di attività aziendali, o, per esempio, il sottrarsi agli obblighi in materia di previdenza e sanità attraverso le procedure fallimentari. Le perdite patrimoniali subite da molti durante la crisi recente possono essere considerate una forma di espropriazione che potrebbe dar luogo a ulteriore accumulazione, dal momento che gli speculatori acquistano oggi attività sottovalutate con l’obiettivo di rivenderle quando il mercato migliorerà, realizzando un profitto.[20]

Una delle forme più sottili di accumulazione per espropriazione è quella di drenare surrettiziamente denaro pubblico, o direttamente dalle tasche dei cittadini, per generare un profitto privato tramite una tassazione ad hoc, oppure obbligare la popolazione a un consumo tramite l’imposizione decretata dal potere dello Stato.

Un esempio del primo tipo di pratica è, senza dubbio, quello degli impianti di produzione di energie rinnovabili (eolica, fotovoltaica, idroelettrica ecc) che sono casi nei quali l’energia prodotta viene remunerata a un prezzo superiore a quello di mercato (altrimenti non sarebbero economicamente sostenibili). In questo caso, il sovrapprezzo viene corrisposto dalla fiscalità generale o da un esborso aggiuntivo nelle tariffe delle forniture elettriche. Se si eccettua la sparuta produzione (in termini di MW/h) degli impianti ad uso familiare, la più parte della generazione di elettricità da queste fonti proviene da grandi impianti per i quali l’investimento è sostenuto da grandi investitori, in genere società finanziarie.[21] Questo è un caso nel quale lo Stato opera come perfetto agente del mercato: invece che favorire, con un’azione diretta la tanto sbandierata «transizione energetica», esso si fa promotore di un sistema nel quale i profitti delle società finanziarie sono a carico dei cittadini tramite un aggravio dei costi energetici o mediante la fiscalità generale.

Un altro esempio di questo tipo di accumulazione, anche se un poco più indiretto, è quello dei veicoli adibiti a trasporto stradale. In questo caso, lo Stato interviene modificando le regolamentazioni che regolano le emissioni dei veicoli (specie quelle di CO2) e inibendo la circolazione per quei mezzi che non rispettano i parametri imposti. Questa tecnica di marketing condotta tramite la forza della legge costringe attualmente gli utenti a cambiare veicolo tramite una sorta di obsolescenza programmata de jure, e apre la strada a nuove nicchie di mercato (veicoli elettrici, ibridi, ecc.). Ovviamente, questo è un altro un trucco per costringere i cittadini a esborsi di denaro in un certo senso coatti, senza alcun beneficio per ciò che riguarda le emissioni di CO2 in quanto tali, se si considera che il processo di produzione di un auto, è responsabile di una produzione di CO2 che è, in media, superiore a quella che la medesima auto produrrà nel suo ciclo di utilizzo (verosimilmente, da questo punto di vista, sarebbe più ecologico tenere la medesima auto per qualche decennio, ma questo non aiuta il mercato).[22]

Naturalmente, per imporre alla popolazione questa visione senza troppi incidenti (cosa che, ad esempio, non è riuscita in Francia),[23] è necessario predisporre l’opinione pubblica con massicce campagne moralizzatrici, come quella per la quale stanno usando la ragazzina che intimorisce quei «potenti della terra» che hanno tutto da guadagnare dalla creazione di nuove nicchie di mercato. Tuttavia, l’inesauribile cornucopia di idee del collettivo di pensiero neoliberale non si esaurisce qui, ma è lanciata verso sempre nuovi orizzonti.

c) Geoingegneria e altre distopie neoliberali

Dato che il sistema dei permessi di emissioni e le miriadi di impianti ad energia rinnovabile sono, ormai, soluzioni datate, anche se sono servite egregiamente allo scopo, che era quello di estendere il dominio del mercato o estrarre denari dalle tasche della popolazione e dei governi, è ora di superare queste reliquie del passato con la soluzione neoliberale per il lungo periodo: la geoingegneria. Qui si arriva al nucleo stesso della Dottrina, la quale postula che l’ingegno imprenditoriale, se lasciato libero di manifestare le proprie pulsioni di «distruzione creativa», può essere in grado di trovare soluzioni di mercato per risolvere qualsivoglia problema. Le idee non possono essere lasciate improduttive. Quando vi è la possibilità, esse vanno inserite nel discorso politico e perseguite con tutti i mezzi. È quindi ora di aprire nuove ed incredibili opportunità (!) per trasformare in merce e mercato parti del globo che nessuno pensava potessero avere questo destino - e questa destinazione. La geoigegneria rappresenta il volto futuribile e fantascientifico del neoliberalismo e, assieme ai deliri sull'ingegneria genetica e sull'intelligenza artificiale, il suo volto più distopico.

«Geoingegneria» è una sorta di definizione collettiva che individua un'ampia gamma di manipolazioni in larga scala volte a modificare il clima della terra, per «correggere» i cambiamenti climatici. Essa comprende «soluzioni» come l’aumento artificiale dell’albedo del pianeta attraverso vari tipi di «gestione» della radiazione solare (tramite la diffusione di particelle riflettenti nella stratosfera, l’installazione di specchi nell'orbita terrestre spaziali o la copertura dei deserti con materiale riflettente); l’aumento del sequestro di CO2 da parte degli oceani tramite la stimolazione della crescita del fitoplancton (concimazione degli oceani con nutrienti, mescolamento degli strati) o della terraferma (seppellimento dei residui vegetali; introduzione di organismi geneticamente modificati, oppure, ancora, l’estrazione e il confinamento della CO2 direttamente al punto di emissione). Questa sorta di ideazione delirante ha connessioni piuttosto strette col «collettivo di pensiero neoliberale» in quanto diverse istituzioni che ne sono emanazione diretta, come L’American Enterprise Institute, Ii Cato Institute, la Hoover Institution e il Competititive Enterprise Institute si occupano in maniera assai attiva nella promozione della geoingegneria. Lo stesso tempio accademico del neoliberalismo, la Chicago School of Economics, ha pubblicamente appoggiato questo delirio[24].

Naturalmente, questi progetti sono solamente allucinazioni lisergiche portate ad un livello istituzionalmente riconosciuto: vedi alla voce: «lo dice Lascienza». Ma questa mirabolante scienza, in questi casi, può solo asserire ipotesi che non hanno alcuna possibilità di essere provate sperimentalmente. Non vi è alcun modo di verificare ex ante gli assunti ipotizzati né, tanto meno, gli effetti indesiderati. Qui il laboratorio è costituito dall'intero mondo e l’ex post potrebbe essere una catastrofe di proporzioni inimmaginabili. Ma evidentemente queste considerazioni non hanno il potere di scalfire l’adamantina determinazione dei nostri apprendisti stregoni arsi dal sacro fuoco di Prometeo. Ça va sans dire che queste mirabolanti proposte agirebbero solo sugli effetti e non certo sulle cause del problema. D'altronde, agire sulle cause significherebbe mettere in discussione le basi sulle quali poggia il capitalismo stesso mentre secondo l’epistème neoliberale. Se il capitalismo ha causato dei problemi, la soluzione è: più capitalismo!

Quindi, le soluzioni geoingegneristiche apportano enormi vantaggi secondo i criteri neoliberali, perché non limitano mercati consolidati (non sia mai che, nel mondo, si producano meno pezzi di Hallo Kitty o di cheeseburger, o che a Dubai non si possa più sciare al coperto!), ma espande gli ambiti del mercato verso nuovi orizzonti: niente di meno che la privatizzazione dell’atmosfera e del clima. Perché, qualora non si fosse compreso, lo scopo è questo, nonché porre il pianeta in ostaggio di alcune entità private (quelle che mettono a punto le «soluzioni» protette da brevetto),[25] affinché possano trarre profitto da qualcosa che, magicamente, può diventare merce con pochi tratti di penna, con la scusa di un «fate presto!» globale perché «ce lo chiedono le prossime generazioni».

***

Con questo si chiude il cerchio. Nel mirabolante mondo di Quelo e Greta, la teknè viene politificata mediante l’ennesimo ragionamento circolare, perché i problemi sono troppo complessi per poter essere affrontati con soluzioni che non siano tecniche (la risposta è dentro di voi, epperò è sbajata), fino ad obliterare interamente lo spazio della politica che non sia quello di mero «comitato d’affari della borghesia». Perché non vi è alternativa alle verità di una scienza che è divenuta dogma e di una società che ha abbandonato ogni dogma che sia non sia quello dell’ordine del mercato, quella secondo cui la «provedenza che governa il mondo» agisce con mano invisibile affinché si possa manifestare il mistero della creazione.

La stessa scienza, ha abbandonato qualsivoglia funzione epistemica per divenire un mero paradigma gestionale e non ha maggior significato, per ciò che riguarda la conoscenza del mondo, di quanto ne abbiano le regole del Monopoli. L’ordine del mercato è rimasto l’unica praxis che orienti le azioni umane e l’unico tèlos, autotelico e perpetuamente progressivo, al quale si volge lo sguardo di quella che un tempo usavamo chiamare civiltà.


Note
  1. Gli studi più rilevanti furono condotti da Hans Suess, Gilbert Plass, Roger Revelle e Charles Keeling.
  2. Lista dei membri della Global Climate Coalition: American Electric Power, American Farm Bureau Federation, American Highway Users Alliance, American Iron and Steel Institute, American Forest & Paper Association, American Petroleum Institute, Amoco, ARCO, Association of American Railroads, Association of International Automobile Manufacturers, British Petroleum, American Chemistry Council, Chevron, DaimlerChrysler, Dow Chemical Company, DuPont, Edison Electric Institute, Enron, ExxonMobil, Ford Motor Company, General Motors Corporation, Illinois Power, Motor Vehicle Manufacturers Association, National Association of Manufacturers, National Coal Association, National Mining Association, National Rural Electric Cooperative Association, Ohio Edison, Phillips Petroleum, Shell Oil, Southern Company, Texaco, Union Electric Company, United States Chamber of Commerce. Fonte: K. Brill, "Your meeting with members of the Global Climate Coalition", United States Department of State, 2001.
  3. Almeno dall’uscita del libro di Rachel Carson, Primavera silenziosa (1962).
  4. A sua volta influenzato dagli studi di Frederick Soddy.
  5. In P. Mirowski, Never let a serious crisis go to waste, Verso, London-New York, 2013; P. Mirowski, D. Plehwe, The Road from Monte Pelerin, Harvard University Press, Cambridge, 2009.
  6. In M. Foucault, The Birth of Biopolitics. Lectures at the Collège de France 1978–79, Palgrave McMillan, Basingstoke, 2008.
  7. In P. Mirowski, D. Plehwe, cit., p. 4 sgg.; 417 sgg.
  8. In L. Fleck, The Genesis and Development of a Scientific Fact, University of Chicago Press, Chicago, 1979.
  9. Residuo linguistico della sterile diatriba tra Benedetto Croce e Luigi Einaudi, che data alla fine degli anni ’20 del secolo scorso.
  10. In P. Mirowski, Never let a serious crisis go to waste, cit., cap. 6.
  11. In P. Mirowski, "Naturalizing the market on the road to revisionism: Bruce Caldwell’s Hayek’s challenge and the challenge of Hayek interpretation", in Journal of Institutional Economics, 2007.
  12. Che include anche quella scienza che ha dimostrato il proprio successo nel «mercato delle idee», anch’esso spontaneo come lo spacciatore alla dogana di cui sopra.
  13. In P. Mirowski, Never let a serious crisis go to waste, cit.
  14. Ibid.
  15. In R. N. Proctor, L. Schiebinger, Agnotology. The Making and Unmaking of Ignorance, Stanford University Press, 2008.
  16. Cfr. F. A. Hayek, "The use of knowledge in society", in American Economic Review, XXXV, No. 4, September 1945, pp. 519-30.
  17. «First and foremost, neoliberalism masquerades as a radically populist philosophy, which begins with a set of philosophical theses about knowledge and its relationship to society. It seems to be a radical leveling philosophy, denigrating expertise and elite pretensions to hard-won knowledge, instead praising the “wisdom of crowds.” It appeals to the vanity of every self-absorbed narcissist, who would be glad to ridicule intellectuals as “professional secondhand dealers in ideas.” In Hayekian language, it elevates a “cosmos”—a supposed spontaneous order that no one has intentionally designed or structured—over a “taxis”—rationally constructed orders designed to achieve intentional ends. But the second, and linked lesson, is that neoliberals are simultaneously elitists: they do not in fact practice what they preach. When it comes to actually organizing something, almost anything, from a Wiki to the Mont Pèlerin Society, suddenly the cosmos collapses to a taxis. In Wikipedia, what looks like a libertarian paradise is in fact a thinly disguised totalitarian hierarchy» (in P. Mirowski, D. Plehwe, The Road from Monte Pelerin, cit., pp. 425-426).
  18. La stima è dell'ufficio studi della banca svizzera UBS, in una relazione ai clienti del novembre 2011 (cfr. https://www.thegwpf.com/europes-287-billion-carbon-waste-ubs-report).
  19. In D. Harvey, "The 'new' imperialism: accumulation by dispossession", in Socialist Register, No. 40, p. 74.
  20. In D. Harvey, L’enigma del Capitale, Feltrinelli, Milano, 2011, pp. 60-61.
  21. Tipicamente con sede all’estero, se ci riferiamo all’Italia o anche ai cosiddetti Paesi in via di sviluppo.
  22. Cfr. S. Kagawa, K. Hubacek, K. Nansai, M. Kataoka, S. Managi, S. Suh, Y. Kudoh, "Better cars or older cars?: Assessing CO2 emission reduction potential of passenger vehicle replacement programs", in Global Environmental Change, Volume 23, Issue 6, December 2013, pp. 1807-1818; M. Messagie, "Life Cycle Analysis of the Climate Impact of Electric Vehicles", in Transport and enviroment, 2014; H. Helms, M. Pehnt, U. Lambrecht, A. Liebich, "Electric vehicle and plug-in hybrid energy efficiency and life cycle emissions", 18th International Symposium Transport and Air Pollution, 2010.
  23. Ricordiamo che il fattore che ha innescato la rivolta dei Gilet Jaunes è stata proprio l’inasprimento dei parametri per le emissioni veicolari. Naturalmente queste riguardavano soprattutto I veicoli di una certa età, che sono quelli che garantivano la mobilità della fascia di popolazione meno abbiente (in presenza di concomitante smantellamento delle reti di trasporto pubblico di prossimità).
  24. Cfr. P. Mirowski, Never let a serious crisis go to waste, cit.
  25. Cfr. D. Cressy, "Geoengineering Experiment Cancelled Amid Patent Row", in Nature, No. 15, May 2012; M. Specter, "The Climate Fixers", in The New Yorker, May, 2012.

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Mario Galati
Wednesday, 29 January 2020 23:06
Sull'intensitá e pervasivitá del totalitarismo liberale attuale sono d'accordo con Nap. Ma questa mi sembra soltanto un'altra tappa della forma merce che tende ad occupare ogni sfera dell'esistenza. Seguendo Gramsci, ogni stato (formazione economico-sociale) tende a strutturarsi intorno al suo principio informatore. Ogni stato (formazione economico-sociale) è, perciò, sempre (tendenzialmente) totalitario. Il fanatismo ordoliberale non è altro che l'esplicita teorizzazione del totalitarismo liberale. La sua metodologia mi pare l'espressione scientifica della sua ideologia generale, ecco perché mi sembra che metodo e contenuto non siano separabili. Ma potrei sbagliarmi.
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Nap
Tuesday, 28 January 2020 13:25
@Mario Galati
per fare qualche esempio tra molti, i vari "diventa imprenditore di te stesso" oppure "valorizza il tuo capitale umano" etc.. mi sembrano novità epistemologiche e culturali che marcano una differenza importante rispetto non solo al liberalismo classico ma anche rispetto ai trenta gloriosi del warfareState.
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Mario M
Tuesday, 28 January 2020 12:48
I poteri, le gerarchie, i governi approfittano delle circostanze per "fabbricare" verità utili a impaurire, a stupire e quindi a soggiogare il popolo: le bombe atomiche, i viaggi spaziali, gli attentati alle twin tower, i virus, i vaccini, le mirabolanti cure per il cancro. Come ultima verità fabbricata ora abbiamo il riscaldamento globale, che è diverso dal vero inquinamento e dalla distruzione dell'ambiente.

Penso sempre che il sistema di potere e di condizionamento potrebbe essere messo in crisi dal racconto della verità, perché spesso è banale, ma non si ha il coraggio di volerla vedere. Perché (come riportava Victor Serge in Memorie di un Rivoluzionario) quel che c'è di terribile quando si cerca la verità, è che la si trova.
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marku
Tuesday, 28 January 2020 09:53
il riscaldamento globale è la più potente arma
di distrazione di massa
gettata sulle genti dal sistema
liberal/liberista.
In un mondo dove sappiamo di tutto e di più dove
siamo in presenza di una scienza onniscente
di una tecnologia sempre più sofisticata che regola nel mondo ipersviluppato ogni branca della vita umana

non sappiamo praticamente niente a livello compiuto e sicuro sull'attività solare e su suoi cicli fisici e dinamici della sua azione sul sistema solare.
Non troppi anni fà nei settanta del secolo scorso, prima della crsi petrolifera si diceva che il clima si stava raffreddando dando la colpa all'emissione di fumi nell'atmosfera ed agli esperimenti termonucleari che a quei tempi si facevano non sotterraneamente ma en plein air.

Se torniamo indietro nel tempo e leggiamo i libri di storia apprendiamo che le grandi pestilenze che produssero il dimezzamento della popolazione mondiale di quelle che anche a quei tempi erano le potenze maggiori ed in cui figurava in grande auge la via della seta dell'impero cinese, furono favorite da un clima che fu per quel periodo insolitamente più caldo e siccitoso (parliamo di almeno quindici/vent'anni).
Il capitalismo da alcuni decenni divenuto turbo finanziario
(giocare a poker con il morto) ed il suo avanzamento produttivo capitalista classico, la cui idolatria del profitto è aggravata dal fatto di avere delocalizzato in zone del mondo dove le genti sono pagate di meno o addirittura il minimo possibile garantendo altresì una produzione quantitativa assai superiore in mancanza di diritti e spese sociali, ha portato alla crisi finale del sistema che necessiterà di una crisi distruttiva/generatrice su scala planetaria (una guerra insomma).
Nel frattempo si gioca l'ultima carta pacifica il new green deal dove una produzione palesemente falsamente amica dell'ambiente (l'automotive ne è la plastica realizzazione) ad altissima tecnologia e con produzioni riportate nel primo mondo dovrebbe far ripartire le agonizzanti economie dei suddetti paesi dando ulteriori capitali ai biscazzieri e riportando a casa l'indispensabile aiuto della classe media, spina dorsale dello stato e delle sue frontiere.
Peccato che il grande satana, ed ora la perfida albione, abbia anticipato i tempi e forte della sua strapotenza distruttiva cerchi di mantenere il suo pseudo primato ed il suo stile di vita a spese di chi non ci stà a riconoscergli tale primato europa compresa, che o si associa alla guerra dei valori occidentali contro russia e cina oppure perirà con esse,
Però questo non ditelo alle genti italiote che troppo preoccupate a raschiare il fondo del barile non si accorgono che il mondo ha preso a girare tanto vorticosamente da generare una forza centrifuga che cambierà la storia.
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Mario Galati
Monday, 27 January 2020 17:09
Articolo interessante sul quale vorrei fare un'osservazione.
Nell'artico si legge: " ...il nucleo del pensiero neoliberale non è tanto economico quanto epistemologico e si è andato storicamente a connotare come un vero e proprio «collettivo di pensiero», ... Non ha quindi molto senso il considerare (come, peraltro, fanno molti), questo fenomeno come un orientamento economico o, tanto meno, di spiegarlo con le obsolete categorie del pensiero politico del secolo scorso ( destra politica, conservatorismo, liberalismo, ecc.)".
Il totalitarismo mercatista liberale, ordoliberale, come pensiero epistemologico e non prettamente economico sarebbe una novità non inquadrabile nelle obsolete categorie di pensiero? Perché, esistono forse pensieri "economici" o d'altra natura che non siano anche pensieri e impostazioni epistemologici?
L'elaborazione intellettuale e ideologica, non solo lo scambio e la produzione di merci, da parte del mercato sarebbe, a parte la pervasivitá odierna ben descritta nell'articolo, una novità qualitativa del capitalismo attuale? Forse che nel vecchio capitalismo il mercato capitalistico, cioè i rapporti di produzione strutturali, non svolgevano questa funzione di elaborazione intellettuale, scientifica e ideologica?
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