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Schizofrenia digitale e autoritarismo accademico

Rocco De Angelis intervista Federico Bertoni

bertoniImpressioni e riflessioni di un docente dell'Università di Bologna sul rapporto tra docenti e studenti nel contesto della didattica mista. La netta posizione dell’intervistato in merito alla didattica blended, alla didattica a distanza e alle nuove tecnologie e modalità di apprendimento, ci permette di cogliere, attraverso le parole di un insider, i limiti e i punti di potenziale forza di questi processi, i quali sono presenti da molti anni (non solo nel mondo della formazione) e che con la pandemia da Covid-19 hanno avuta impressa una forte accelerata. Un tentativo per provare ad uscire dal dualismo tra apocalittici e integrati. 

Uno sguardo sulle trasformazioni in senso neoliberista dell’università e le ipotesi in merito al divenire business delle esperienze didattiche degli ultimi mesi, una fase che Federico Bertoni nel suo “Insegnare (e vivere) ai tempi del Coronavirus” vede come un passaggio obbligato, al quale seguirà la fase della raccolta cocci, un’analisi e delle ipotesi tutte da verificare. 

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Per cominciare, che ruolo ha all’interno dell’università? Quali corsi tiene?

Sono Professore Ordinario nell’Università di Bologna presso il Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica, dove insegno Teoria della Letteratura.

 

Che ruolo ricopre secondo lei l’università oggi e quali sono i principali elementi di trasformazione e passaggi nuovi avvenuti o che hanno subito un’accelerazione con la pandemia? Quali le continuità e quali i punti di rottura col passato?

Osservando l'università da un punto di vista interno al sistema accademico non ho potuto fare a meno di notare una serie di riforme e cambiamenti che hanno stravolto l'istruzione superiore italiana: trasformazioni in senso aziendalistico, ma mai in modo estremamente netto: un aspetto importante è la singolare combinazione tra logica neoliberale e burocrazia molto rigida e autoritaria: in Realismo capitalista, Mark Fisher chiama questo fenomeno “stalinismo di mercato”. Nella fase attuale è fondamentale non lasciarsi travolgere dal presente, anche perché i cambiamenti che osserviamo nel nostro quotidiano, che pure ci appaiono caotici, confusi e contingenti alla situazione emergenziale, fanno in realtà parte di un ben preciso processo storico di innovazione strutturale che prosegue da decenni. 

 

Ha citato l’espressione di Mark Fisher “stalinismo di mercato”, riferendosi all’inusuale mix di burocrazia e libero mercato. Ricollegandoci a questa definizione, chi sono i decision makers dell’università? A quali gerarchie di potere obbediscono? E che impatto hanno avuto sulla gestione dell’emergenza? Sono stati aperti degli spazi di autonomia nel determinare le modalità di insegnamento?

La struttura di potere universitaria è regolata da dispositivi giuridici che trovano la loro primaria origine nella riforma Berlinguer nei primi anni 2000. Il passaggio decisivo è stato compiuto dalla Legge 240, la cosiddetta "Legge Gelmini", descritta dai sostenitori con un’ incredibile operazione di marketing, come una riforma "antibaronale" . In realtà nei dispositivi la legge ha sortito l’effetto contrario, accentrando il potere  nelle mani di pochi individui e rendendolo ancor più opaco. Questo approccio era in accordo con ciò che accadeva praticamente in ogni ambito della società occidentale: veniva abbandonata la visione più democratica e partecipativa per un approccio tecnocratico dove le decisioni erano precluse alla maggioranza, che non aveva competenze per decidere sul suo futuro.  Pensiamo al geniale slogan della Thatcher, “there is no alternative”, o anche al classico “ce lo chiede l’Europa”. L’emergenza sanitaria ha legittimato la quasi totale sospensione di un confronto tra decision makers e comunità universitaria. Gli organi decisionali hanno deliberato la formula della didattica mista senza consultare chi, come i docenti, aveva il compito di applicarla concretamente. Io stesso ho vissuto questo momento in modo conflittuale. Da un lato, di fronte all’emergenza e al confinamento abbiamo lavorato molto per garantire i diritti sanciti dalla Costituzione, soprattutto per ricucire un filo con i nostri studenti. Dall’altro, mi sono presto reso conto che la buona volontà di alcuni professori e il loro sacrificio si sono trasformati in errori politici: il senso comune vuole che in un momento di crisi l’università venga messa da parte in quanto si pensa occupi una posizione privilegiata all’interno della società, che la didattica online possa a tutti gli effetti fungere da toppa per garantire il diritto allo studio, insomma che la situazione sia sotto controllo. È esattamente questo ottimismo tossico che impedisce al paese di osservare con lucidità la perversa e a tratti pericolosa condizione in cui versa la formazione superiore.

 

Questa dannosa retorica dello studente “privilegiato” che in virtù della sua posizione non ha diritto di protestare e di criticare lo stato di cose presenti è estremamente radicata, ma davvero non esiste un modo per disinnescare questi pregiudizi ?

Secondo me esiste un grave problema di comunicazione tra università e società, una sostanziale ignoranza da parte di chi non fa parte del mondo accademico, giornalisti in primis. È superfluo osservare come l’università faccia notizia solo in caso di scandali accademici. L’Università italiana è in realtà  un miracolo: nonostante tutti i malfunzionamenti e le mancanze svolge egregiamente il suo compito di produzione e condivisione del sapere.

L'idea che l’università sia una sacca di privilegiati è una conseguenza diretta della separazione quasi ermetica che separa l’accademia dal resto della società. E’ compito di chi vive questa realtà distruggere questa barriera, muovendosi soprattutto su media e social networks per far capire a chi non vive il nostro mondo quanto l’università sia importante per il futuro di un  paese, in particolare in un’ottica di rilancio sociale e economico post-pandemia. In questo senso, serve a poco far finta che vada tutto bene e sciorinare numeri trionfali sulla didattica a distanza, come ha fatto il Ministro Manfredi in alcune interviste durante le fasi più drammatiche della pandemia.

 

Al giorno d'oggi le università sono estremamente influenzate da ranking e classifiche, le quali sono tenute estremamente in considerazione dalla nuova generazione di studenti. Su quali criteri si basano queste suddette classifiche? In uno scenario dove gli studenti possono seguire le lezioni di tutte le università del globo comodamente da casa, è possibile che la competizione tra atenei diventi ancora più spietata di quanto non lo sia già adesso. A suo avviso, l’Unibo in che modo cercherà di rendere la sua offerta più allettante ai futuri studenti?

Nel ventunesimo secolo la parola magica ”eccellenza” sancisce la qualità e la gerarchia degli Atenei. La letteratura su questo tema è estremamente chiara: i parametri oggettivi non esistono e queste classifiche rispondono a precise decisioni che fanno parte di un sistema di governo e di mercato dell’istruzione, il quale rientra nel connubio tra economia di mercato e tecnocrazia. In questi rankings  vi è il tentativo di governare la competizione e il mercato che si crea tra Atenei. Si creano quindi situazioni estremamente incongrue, nelle quali vengono confrontati dati eterogenei: è assurdo confrontare l’Università di Bologna, che conta decine di migliaia di studenti, con Stanford, che ha qualche migliaio di iscritti e un sistema di finanziamento che le permette di offrire a ciascun studente servizi impensabili in un’università pubblica italiana. 

Il processo di digitalizzazione dei processi didattici è un tentativo di rendere valutabile e misurabile in modo il più possibile oggettivo la qualità dell’ insegnamento di un determinato ateneo. Nei paesi anglosassoni questo metodo di valutazione (“learning analytics”) viene applicato da anni, e sfrutta masse enormi di dati raccolti in registrazioni, video e sondaggi.

 

Ha avuto modo di parlare con gli studenti di ciò che accadeva? Cosa è cambiato tra i corsi in presenza adesso e prima del Covid?

Ho cercato di tematizzare con gli studenti e riflettere con loro, fermo restando che interagire via computer  con loro era molto più difficile. Ho mandato loro il mio instant book, e alcuni si sono dimostrati estremamente interessati. Al momento non ho corsi, ma della didattica mista penso il peggio possibile, mi sembra fondamentalmente una modalità schizofrenica: devi interagire contemporaneamente con gli studenti presenti in aula e con una comunità di studenti dispersi nella rete, con i quali è più complesso mantenere la comunicazione. Inoltre, come molti sospettano, la modalità blended rischia di accentuare le differenze di classe tra gli studenti. Personalmente non ho nessuna simpatia per le crociate contro la tecnologia e il digitale, ma non accetterò mai che  si instauri un regime di  modalità sincrona con studenti privilegiati in città universitarie e studenti meno benestanti che fruiscono della didattica online da casa. Nel medio periodo si rischia infatti di istituzionalizzare un doppio canale della formazione, tra l’altro in una fase in cui i divari socio socio-economici stanno aumentando proprio a causa del Covid-19. Finché la situazione di emergenza continua faremo tutto il possibile, ma a condizione che tutto ciò cessi alla fine della pandemia.

 

All'università di Bologna così come in molti atenei la modalità blended prevede la registrazione delle lezioni. A suo avviso ciò che impatto può avere sulla figura del professore universitario, che diventa riproducibile e ri-ascoltabile a seconda delle esigenze dello studente? Che impatto ha sulla temporalità della lezione universitaria?  

Innanzitutto la registrazione non è obbligatoria e nemmeno l’onda autoritaria che ha investito l’accademia può intaccare questo spazio di libertà, anche perché richiede il consenso per ragioni di copyright e tutto ciò è regolato dalla legge. La principale ragione per la quale si invitano gli insegnanti a registrare le lezioni è la presenza sempre più importante  di studenti internazionali che, ritornati nei loro paesi durante la quarantena, hanno avuto molteplici difficoltà a seguire la didattica per via di differenti fusi orari. 

Ripeto e sottolineo che non ho né timore della tecnologia, né ho alcun tipo di attaccamento romantico alla figura del docente che volteggia nell’aula e con grazia arringa gli studenti.  Trovo però ingenua e forzata la convinzione diffusa che la tecnologia e il progresso digitali siano strumenti neutrali, immuni da ogni giudizio politico e morale, anche considerando come questi trasformano il modo in cui comunichiamo e insegniamo. La tecnologia diventa pericolosa quando si inserisce in un processo di trasformazione sistemica, in cui l’università è concepita come un’azienda fornitrice di servizi e gli studenti diventano clienti che acquistano il prodotto più adatto, un po’ come quando dobbiamo decidere se andare in pizzeria o a restare comodamente sul divano e ordinare su Just Eat.  Nel rendere la lezione un prodotto impacchettato in format standardizzato non c’è assolutamente niente di innovativo: innovazione tecnologica non coincide con innovazione didattica.

Nel registrare una lezione si crea automaticamente una trasmissione unilaterale del sapere, poiché la conferenza registrata non prevede dialogo, conflitto o dissenso. Così si annulla la possibilità di mettere in discussione o persino di cambiare la rotta di un corso universitario, che è la parte più affascinante del mio mestiere. Con i pacchetti didattici la creatività del docente e degli studenti viene strangolata. 

 

Molti professori universitari hanno tessuto le lodi della didattica a distanza, elogiandone la flessibilità, spesso e volentieri in modo estremamente ideologico. È anche vero però che le crisi aprono sempre spiragli per cambiamenti profondi e radicali. Nel suo libro “Insegnare (e vivere) ai tempi del virus” afferma che, tutto sommato, la modalità di lezione frontale tradizionale "dove almeno ci sono sguardi, espressioni e voci umane che dicono cose a cui non avevamo pensato" resta un'alternativa preferibile alla didattica online. secondo lei esistono degli aspetti della Didattica a Distanza (DAD) che possono compensare alle mancanze intrinseche della DAD stessa (mancanza di contatto ecc)?

In realtà molti docenti avevano già iniziato da tempo a usufruire delle risorse digitali per interagire a distanza con gli studenti. La cosa che noto con dispiacere è che le modalità applicate non sono in alcun modo innovative, ma fanno invece un passo indietro. Ripeto: si va verso una standardizzazione del modulo lezione in maniera quasi meccanica, e dunque rimango convinto che la lezione in presenza sia di gran lunga preferibile alla schizofrenica modalità blended. Ciò non toglie che alcuni aspetti del digitale possano essere affascinanti e persino utili, ma ripeto: innovazione digitale e innovazione didattica non coincidono in modo automatico, e chi solleva dubbi non è un oscurantista medievale, ma qualcuno che vuole usare tecnologie in modo consapevole.

È vero che le crisi stravolgono la realtà, ma allo stesso tempo impongono delle scelte. L’etimologia della parola crisi rimanda a due sfere semantiche: da un lato “lacerazione”, “separazione” tra un prima e un dopo, dall’altro “scelta”, giudizio”, “critica”, tenendo conto anche delle  problematiche e ambigue nuove forme di socialità, che portano a un isolamento reciproco di “esseri umani in piccole stanze”. È interessante come il discorso sull'università Post -Covid riguardi esclusivamente la distanza tra studente e docente ma mai quella della comunità studentesca, di condivisione di formazione tra pari, di socialità esercitata con i propri corpi.

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