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sinistra

Un contraddittorio del 1926 tra Stalin e Bordiga

di Eros Barone

stalin bordiga 1926Perché gli operai russi avevano una fiducia illimitata in Lenin? Solo perché la sua politica era giusta? No, non solo per questo. Avevano fiducia in lui perché sapevano che in Lenin le parole non erano in contrasto coi fatti e che Lenin non ingannava… Il metodo del gruppo Ruth Fischer… è diametralmente opposto al metodo di Lenin. Posso rispettare Bordiga, che non considero né leninista né marxista, e credergli, posso credergli perché dice quello che pensa… Ma, pur mettendoci tutta la buona volontà, non posso credere per un solo istante a Ruth Fischer, che non dice mai quello che pensa.1

Giuseppe Stalin

Stalin era anche lui un marxista con le carte in regola e un uomo d’azione di prim’ordine. L’errore dei trotzkisti è cercare la chiave di questo grandioso rivolgimento della forza rivoluzionaria nella sapienza o nel temperamento di uomini.2

Amadeo Bordiga

Nel presentare il verbale della riunione della delegazione italiana al Comitato esecutivo allargato dell’Internazionale comunista con Stalin, che ebbe luogo a Mosca il 22 febbraio 1926 - un documento di eccezionale valore storico che rispecchia con l’aderenza viva e diretta di uno scritto desunto dal parlato il senso dei dibattiti e degli scontri che scandirono la vita dell’Internazionale Comunista in quella congiuntura politicamente decisiva -, è senz’altro utile un rapido riepilogo dei termini essenziali che caratterizzavano la situazione internazionale e la situazione interna dell’URSS tra la fine della prima metà e l’inizio della seconda metà degli anni Venti del secolo scorso. 3

La situazione internazionale, considerata in base alle prospettive del movimento operaio e comunista, si poneva in quel lasso di tempo sotto il segno dell’incertezza e della contraddittorietà.

Nell’Occidente capitalistico si accentuava il riflusso della grande ondata di conflitti sociali e moti rivoluzionari che aveva contrassegnato gli anni del primo dopoguerra, mentre d’altro canto le strutture del mercato e dell’economia capitalistica si venivano “stabilizzando”: la stessa Internazionale comunista riconosceva, nel marzo 1925, che la “stabilizzazione relativa del capitalismo” si andava delineando sempre più nettamente, ed essa procedeva di pari passo con una stabilizzazione politica che si attuava a diversi livelli. In Italia il fascismo, superata nel 1924 la crisi originata dal delitto Matteotti, assumeva i caratteri di un regime autoritario e di una “dittatura dello sviluppo”. 4 Anche in Germania la grave crisi, che si era aperta con l’occupazione franco-belga della Ruhr e aveva acquistato sia sul piano politico sia su quello economico un’evidenza spettacolare a causa dell’inflazione, si stava rimarginando. Le speranze riposte sull’utilizzazione in senso rivoluzionario della profonda crisi e del conseguente disorientamento succeduti all’occupazione della Ruhr erano tramontate nell’ottobre del 1923 in séguito al fallimento del tentativo insurrezionale che avrebbe dovuto costituire la risposta allo scioglimento del governo di coalizione operaia della Sassonia. Il 1924 aveva pure visto in Inghilterra il fallimento del primo esperimento di governo laburista con MacDonald; sempre lo stesso paese sarebbe stato teatro, nel corso del 1926, del grande sciopero dei minatori inglesi conclusosi con una sconfitta, non senza grave danno per il prestigio dell’Internazionale comunista nei paesi dell’Europa occidentale. Nella maggior parte dei paesi dell’Europa orientale la situazione si veniva parimenti stabilizzando attorno a regimi di tipo tradizionale, cioè conservatore-agrario, mentre si veniva esaurendo la spinta del movimento contadino che, pur essendo stata così forte negli anni dell’immediato dopoguerra, non aveva trovato nel movimento operaio un adeguato interlocutore.

Diverso era invece il quadro che, sotto il profilo dei movimenti rivoluzionari e di emancipazione, emergeva in Oriente, dove in Cina il 1924 vedeva l’avvio del grande movimento rivoluzionario che avrebbe scosso per tre anni quel vasto paese, in India il primo inizio del movimento gandhista e nel Vicino Oriente speranze e fermenti di emancipazione suscitati ovunque dalla modernizzazione che Kemal Ataturk aveva intrapreso e portava avanti con successo.

Tra l’Europa “arretrata” e l’Asia “avanzata” (secondo la formula bifronte che Lenin aveva impiegato in un suo celebre scritto) stava la grande Unione Sovietica, bersaglio di odi inestinguibili e oggetto di speranze altrettanto profonde, la cui posizione internazionale rifletteva inevitabilmente le contraddizioni della situazione politica mondiale, cui si è fatto cenno. Riconosciuta da alcune delle grandi potenze dell’Occidente capitalistico, essa non cessava per questo di rappresentare l’oggetto dei propositi di rivincita di consistenti settori delle classi dirigenti euro-americane. Ormai troppo forte per essere rovesciata da un nuovo intervento militare, essa era troppo debole per rilanciare quella strategia di intervento rivoluzionario che aveva portato nell’estate del 1920 l’armata rossa fin sotto le mura di Varsavia.

Anche la situazione interna dell’URSS risultava caratterizzata da zone d’ombra e di luce. Erano, sì, gli anni della NEP, 5 ma anche gli anni in cui, mentre si continuava ad elaborare grandi piani per la modernizzazione e l’industrializzazione del paese, si era costretti a segnare il passo per risolvere problemi assai più urgenti e tradizionali, connessi all’andamento dei raccolti e al comportamento dei contadini che occultavano o riversavano il grano sul mercato a seconda delle varie congiunture economiche e contingenze politiche, mentre sullo sfondo campeggiava, fonte di inesauribili sollecitazioni ma anche di ricorrenti divergenze, la grande questione dell’eredità politica, scientifica e filosofica di Lenin con le aspre contese che essa aveva innescato nel paese e nel partito. 6 È questa la cornice, delineata nei suoi tratti essenziali, in cui va collocato il testo qui proposto. Un testo che occorre leggere portando l’attenzione non solo sui fatti, ma anche sulle individualità dei loro protagonisti e sugli orientamenti generali che esprimevano. 7

La prima personalità da prendere in esame è quella di Trotskij, interprete di un orientamento ideologico fondato sulla esigenza di un rilancio del processo rivoluzionario il cui modello era la diade ‘Tesi di aprile-insurrezione di Ottobre’, e la cui possibilità reale coincideva, in ultima istanza, con una illimitata fiducia nelle inesauribili risorse del proletariato rivoluzionario russo ed europeo. Secondo la prospettiva della “rivoluzione permanente” propugnata dall’ex ‘leader’ menscevico approdato nelle file dei bolscevichi, era ancora possibile battere il nemico di classe attraverso una lotta frontale. Gli eventi del 1923 in Germania lo avevano dimostrato e la causa della sconfitta della rivoluzione tedesca si riduceva unicamente, secondo il giudizio di Trotskij, alla impreparazione e alla sfiducia con cui il partito tedesco aveva affrontato la lotta. La teoria della “rivoluzione permanente”, che il suo autore riproponeva indipendentemente da ogni variabile di tempo e di luogo, era fondata sulla convinzione che fosse possibile un rapido passaggio dalla fase democratica alla fase socialista della rivoluzione e collegava strettamente questa convinzione alla prospettiva di una rivoluzione vittoriosa nei paesi decisivi dell’Occidente capitalistico. In tal modo, l’integrazione del grande apparato produttivo dei paesi dell’Europa occidentale nell’economia socialista avrebbe permesso, anche in Russia, un ritmo più celere di avanzata verso il socialismo.

Sono queste le tesi che stanno al centro dell’opuscolo che Trotskij pubblicò nel 1924 intitolandolo appunto Le lezioni dell’Ottobre. Sennonché basta confrontare queste posizioni politico-ideologiche con la situazione generale dell’epoca testé tratteggiata e con gli sviluppi successivi, per cogliere il carattere intempestivo e il massimalismo che le inficiano. Questi gravi difetti, d’altronde, furono subito rilevati non appena le Lezioni dell’Ottobre vennero conosciute. La stragrande maggioranza del partito prese posizione contro Trotskij e ciò non fu dovuto né alle manovre dell’apparato né ad una campagna propagandistica, bensì al suo isolamento e al modo con cui egli reagì agli attacchi contro la sua linea politica e la sua persona. In realtà, fu tutto il paese, e non solo il partito, che respinse, dopo dieci anni di guerra imperialistica, di guerra civile, di carestie e di difficoltà di ogni genere, la prospettiva di un rilancio rivoluzionario con tutti i sacrifici e le lotte che ciò avrebbe, in quel momento, comportato.

La teoria delineata da Bucharin giustificava invece la lentezza del passaggio dalla fase democratica alla fase socialista della rivoluzione mondiale in base alla constatazione che la grande maggioranza della popolazione del globo era costituita da contadini, dalle masse rurali dell’Asia e dei paesi coloniali. Così, l’ottica del processo rivoluzionario si spostava dai paesi decisivi ad alto sviluppo industriale verso l’Oriente e alla “guerra di movimento” subentrava una vasta e lenta “guerra di posizione”. 8 Quale garanzia però esisteva che nel corso di un processo di riconversione strategica così lungo la prospettiva socialista non venisse diluita e attenuata sin quasi a compromettere la fedeltà ai princìpi, ossia al messaggio rivoluzionario e proletario dell’Ottobre? Questo fu il dilemma di fronte al quale si trovò, nei primi mesi del 1925, quando la “crisi delle forbici” raggiunse l’apice, il gruppo dirigente del partico comunista russo: 9 un dilemma che il famoso discorso di Bucharin, rivolto ai ‘nepman’ e incentrato sulla parola d’ordine “arricchitevi!”, rese ancor più scottante. La ricerca di un’alternativa a tale dilemma costituì quindi il centro del dibattito che si sviluppò nel partito durante i mesi che precedettero la convocazione del XIV Congresso.

E qui incontriamo i due uomini che svolsero una parte di primo piano in questo dibattito: Zinoviev e Stalin. Se si volesse definire l’atteggiamento di Zinoviev nel periodo in questione, bisognerebbe sottolineare che esso era sostanzialmente l’atteggiamento di un eclettico e, in quanto tale, assumeva più forme: in primo luogo, come è tipico dell’eclettismo, si manifestava nella tendenza alla conciliazione e alla meccanica integrazione delle tesi contrapposte, che si può facilmente cogliere nel suo libro sul Leninismo. In secondo luogo, esso si manifestava nella tendenza ad oscillare tra un atteggiamento e il suo opposto, ripudiando o l’uno o l’altro di tali atteggiamenti a seconda delle circostanze e alternando l’intolleranza con il cedimento. Così, negli anni tra il 1924 e il 1927 Zinoviev passerà dall’adesione oltranzistica alla campagna contro Trotskij e dalla priorità accordata al problema dei contadini, ad un tentativo grossolano di mediazione, esperito nella fase in cui ricoprì la carica di presidente dell’Internazionale comunista, tra la prospettiva della “rivoluzione permanente” e la prospettiva del “socialismo in un paese solo”, per arrivare poi a schierarsi con Trotskij, che era in precedenza il suo principale avversario.

Al contrario di Zinoviev, la ‘forma mentis’ di Stalin non era quella di un eclettico, bensì di un realista, la cui linea di condotta rifuggiva dall’emotività ed era improntata alla massima freddezza. Naturalmente, quando si sottolinea il realismo della condotta di Stalin, non si deve però dimenticare che egli, come del resto tutti gli altri membri del gruppo dirigente del partito, era anzitutto un figlio della rivoluzione e che in fondo al suo animo egli nutriva delle convinzioni assai radicate, maturate attraverso un duro tirocinio di lotte e di esperienze. Raramente questo aspetto della sua personalità aveva occasione di manifestarsi; quando però, in talune solenni occasioni, esso si manifestava, nessuno poteva sottrarsi alla sensazione di una forza profonda e irresistibile. Basti pensare al giuramento sulla tomba di Lenin. In realtà, fra questi due aspetti della personalità di Stalin, il suo realismo e la sua fermezza sui princìpi fondamentali, la contraddizione era apparente. Di fatto la sua incrollabile fiducia nei princìpi, che nessuna polemica dottrinale o contrasto personale potevano intaccare, costituiva il presupposto e la condizione del suo realismo e della sua stessa spregiudicatezza. I princìpi erano stati definiti e formulati da Lenin, e messi alla prova attraverso l’esperienza della rivoluzione, ragione per cui non si trattava più di interpretare il leninismo, ma di applicare gli insegnamenti di Lenin e dell’Ottobre, senza dimenticare certe verità fondamentali: che la rivoluzione sovietica era una rivoluzione proletaria, che essa aveva per fine la vittoria del socialismo e per strumento la dittatura del proletariato.

Frutto di questa fermezza sui princìpi fondamentali e di una esemplare chiarezza espositiva furono, all’indomani del XIV Congresso, le Questioni del leninismo, con cui Stalin fissava, dopo tanto dibattere intorno al leninismo, i punti essenziali e non controversi della dottrina comunista, richiamando su di essi l’attenzione dei militanti del partito. Questo tipo di atteggiamento mentale, fondato come è (e come deve essere) sull’’esprit de géometrie’ più che sull’’esprit de finesse’, corrispondeva a un livello di coscienza politica e rivoluzionaria che era assai diffuso tra i quadri e i militanti di un partito operaio, i quali erano animati dalla convinzione che per raggiungere determinati obiettivi e realizzare determinati ideali è necessario percorrere un lungo cammino affrontando ostacoli e difficoltà di vario genere e facendo ogni volta quel che c’è da fare, senza impantanarsi in eccessive discussioni che possono nuocere alla necessaria unità del movimento e avendo come stella polare la fiducia nella propria buona causa e nella forza dei princìpi primi. Da questo punto di vista, Stalin rappresentava agli occhi di molti militanti l’espressione più organica e più coerente delle loro posizioni di classe e del codice morale dei rivoluzionari. Inoltre, è da tenere presente che tra i vari ‘leader’ del partito egli appariva come il più equilibrato e il meno compromesso, colui insomma che meglio di qualsiasi altro poteva rendere credibile ed operante l’unità del partito bolscevico. Fu quindi in questo quadro che maturarono la vittoria di Stalin e la crescita del suo prestigio e della sua autorità negli anni seguenti. Il suo realismo illuminato dai princìpi fondamentali divenne gradualmente il modello di comportamento dei quadri e della generazione che avrebbe realizzato i grandi piani quinquennali a ritmo accelerato e in pochi anni di un lavoro senza soste e senza incertezze avrebbe gettato le basi della prima società socialista della storia umana.

Il 1926 è, per più versi, un ‘annus mirabilis’ sia nella storia del movimento comunista mondiale sia in quella del Partito comunista d’Italia (sezione della Terza Internazionale). Nella prima è l’anno che segna l’inizio del periodo staliniano, allorché, per l’appunto, Stalin si pone alla testa del partito comunista russo e dell’Internazionale. Nelle vicende del partito comunista italiano è l’anno del terzo congresso nazionale, quello di Lione, 10 che si tiene infatti all’estero per via delle condizioni di semi-clandestinità in cui il partito è costretto ad operare in Italia dal regime fascista, il quale nel mese di novembre di questo stesso anno procederà all’arresto dei suoi dirigenti, decapitando politicamente il partito e dando inizio al lungo periodo della “profonda illegalità”.

In tale contesto si svolge, tra il febbraio e il marzo del 1926, una importante assemblea che raccoglie a Mosca i dirigenti del movimento comunista, fra cui gli italiani, per fare il punto della situazione e fissare le prospettive generali. È il VI Plenum dell’Internazionale, la sesta riunione plenaria dell’Esecutivo allargato, ed ha quasi il carattere e l’importanza di un congresso. In effetti, tra il V Congresso (1924) e il VI Congresso (1928) del Komintern intercorrono quattro anni e in questo lasso di tempo sono le sessioni semestrali dell’Esecutivo allargato ad assumere una consimile valenza. Il Comitato centrale del Partito comunista russo ha invitato, in una lettera ufficiale trasmessa in gennaio, le altre sezioni nazionali dell’Internazionale a «non trasportare la discussione sulla questione russa nelle file dell’Internazionale comunista», e l’invito viene raccolto. Al VI Plenum non si parla delle divergenze esistenti nel partito comunista russo, ma la questione dei rapporti tra lo sviluppo socialista dell’URSS e il destino dei partiti comunisti emergerà in più di un intervento. D’altra parte, Zinoviev non può mancare di riflettere nel suo rapporto quella che è la preoccupazione principale del gruppo dirigente bolscevico: vale a dire la possibilità che si formi una opposizione di sinistra nelle file del Komintern e che essa si saldi in un solo blocco con il trozkismo, puntando a contestare la linea generale, ponendo in discussione la prospettiva strategica della costruzione del socialismo in un solo paese e ostacolando la campagna della “bolscevizzazione”, cioè l’adozione, da parte delle altre sezioni, dei metodi organizzativi vigenti nel partito russo. L’“ultrasinistrismo” viene perciò identificato come il nemico principale nelle file del movimento, come una tendenza che va combattuta con la massima fermezza. Basti pensare al caso del partito tedesco, dove questo pericolo sembra più presente soprattutto in relazione all’esito disastroso del conato insurrezionale del 1923: un precedente che ha reso quanto mai complicati i rapporti tra il gruppo dirigente russo e quello tedesco. Tant’è che, quando si arriva al VI Plenum, anche il gruppo di destra, formato da Ruth Fischer e da Maslov, sarà escluso dalla direzione, che verrà assunta da quadri operai provenienti dalla sinistra, tra cui primeggia l’amburghese Ernst Thälmann. Ed è particolarmente significativa del clima politico-ideologico in cui si svolge la discussione sulla questione tedesca la polemica di Stalin contro un certo intellettualismo di stampo piccolo-borghese: «Si dice che l’attuale Comitato centrale non brilli per cognizioni teoriche. Ebbene, purché la politica sia giusta, si può andare avanti anche senza cognizioni teoriche. Le cognizioni si possono acquistare; se mancano oggi, ci saranno domani, mentre non è molto facile che certi intellettuali boriosi riescano ad assimilare la giusta politica svolta attualmente dal Comitato centrale del partito tedesco… Secondo alcuni compagni, basta che un intellettuale legga due o tre libri o scriva un paio d’opuscoli in più, perché possa rivendicare il diritto di dirigere il partito. Questo è sbagliato, compagni. È sbagliato sino al ridicolo… Compagno Thälmann! Mettete al lavoro questi intellettuali se vogliono realmente servire la causa operaia, oppure, se vogliono comandare a tutti i costi, potete mandarli al diavolo…11».

Dal canto suo, Amadeo Bordiga, la cui direzione politica alla testa del partito italiano è stata definitivamente scalzata nel congresso di Lione grazie all’intervento determinante dell’Internazionale, riesce ancora a far valere, al VI Plenum, tutto il suo prestigio come unico oppositore dichiarato e irriducibile della linea vincente. La sua critica investe l’intero corso storico del movimento comunista e colpisce la linea strategica del partito comunista russo, confluendo obiettivamente (ma anche soggettivamente per via di contatti personali) con il trozkismo. Così, quando, il 21 febbraio, Togliatti riunisce la delegazione italiana per una discussione preliminare sul progetto di tesi politiche presentato da Zinoviev, sarà Bordiga a porre il problema più delicato, disattendendo l’invito rivolto alle altre sezioni dal partito russo. Bordiga si rifiuta infatti di partecipare alla discussione collettiva, si alza e se ne va. Togliatti propone allora di informare la Centrale del partito comunista russo circa la situazione che si è venuta a creare nella delegazione italiana in séguito alle dichiarazioni di Bordiga sui pericoli che, secondo lui, derivano all’Internazionale dalla situazione russa. Si stabilisce quindi che sarà lo stesso Stalin a discutere con gli italiani. La riunione si polarizzerà infatti attorno a un duello, non privo di momenti drammatici, tra Bordiga e Stalin. Il primo sferra un vero e proprio attacco personale contro il segretario del partito russo, riprendendo argomenti tipici della polemica trozkista (ad esempio, rimprovera a Stalin di essersi differenziato da Lenin in un certo momento del 1917); il secondo replica affermando che la lotta con Trotskij avviene su un punto fondamentale, sulla «vecchia convinzione (trozkista) secondo la quale se non vi sarà la rivoluzione in altri paesi d’Europa, non si può sviluppare la rivoluzione in Russia». È la questione nodale del dibattito, che Bordiga riprenderà nel suo intervento-fiume, durato quattro ore, alla seduta plenaria dell’EKKI.

Come si può notare scorrendo il botta e risposta tra i due antagonisti così come è riportato nel verbale di quella storica riunione, le successive battute del serrato confronto tra Bordiga e Stalin mettono a nudo l’intero arco del dissenso, che, per quanto concerne il primo, era stato già esplicitato nel biennio 1923-1924 all’interno del PCd’I durante la polemica con Gramsci: il rifiuto di considerare il leninismo come uno sviluppo creativo del marxismo, la tendenza a contrapporre la Russia arretrata all’Europa avanzata, il rifiuto del processo di bolscevizzazione del movimento comunista internazionale (con tutti i suoi corollari organizzativi) e della tattica del fronte unico. Come ha scritto con ironia manzoniana Paolo Spriano, cui si deve una particolareggiata ricostruzione di questo cruciale momento storico, «Bordiga è perennemente identico a se stesso, dunque, è soprattutto bordighiano». 12

Va però riconosciuta una verità storica troppo spesso rimossa o negata, e cioè che, a partire dal trauma storico del 1914 e della prima guerra mondiale, Amadeo Bordiga occupa un posto di primo piano sulla scena del comunismo europeo e mondiale; assume un ruolo importante nella Terza Internazionale; è il fondatore e il maggiore dirigente del Partito Comunista d’Italia ed è l’unico comunista occidentale che si confronta direttamente – in termini ben diversi, come è ovvio, ma nell’uno e nell’altro caso senza soggezioni gerarchiche – con Lenin e con Stalin. Lo scrivente, che appartiene alla scuola marxista-leninista, non condivide se non in minima parte le concezioni e le posizioni di Amadeo Bordiga, ma non ha difficoltà ad ammettere che, come disse Machiavelli di Savonarola, “d’uno tanto uomo se ne debbe parlare con riverenza”. 13

* * * *

Seduta del 22 febbraio 1926 della delegazione italiana col compagno Stalin

Nel verbale sono segnate tra parentesi quadre alcune parole che nel testo originale rovinato dal tempo e dall’umidità non erano chiaramente leggibili.

Presenti: Stalin, Bordiga, Emilia (Ligabue, Bice), Berti, Viola (Flecchia), Perotti, Bracco (Grieco), Cecco, Gennari, Anselmi (Azzario), Primo, Molino, Ambrogi, Kobilanskij, Ercoli (Togliatti). Presiede Ercoli, segretario Anselmi.

ERCOLI: La delegazione desidererebbe che il compagno Stalin esponesse quali sono stati i punti di divergenza al recente Congresso del P.C.R. in relazione ai problemi economici.

STALIN: È meglio che mi siano fatte domande sopra le questioni particolari.

ERCOLI: Il compagno Bordiga chiede che il compagno Stalin spieghi qual è il valore delle concessioni che sono state fatte ai contadini medi.

STALIN: Vi sono in Russia due classi, il proletariato e i contadini. La borghesia esiste ancora, ma è debole. Nondimeno si deve tener conto di essa. In nessun paese la classe dominante può tenere la direzione della cosa pubblica da sola. La classe finora più ricca è stata la borghesia, ma essa ha sempre governato con l’aiuto, anche se passivo, di altre classi. Oggi abbiamo la classe proletaria al potere, ma essa si mantiene al potere soprattutto a spese dei contadini. Il proletariato è in minoranza e non è abbastanza ricco per tenere e gestire da solo lo Stato. Lo Stato quindi è costretto a vivere per la maggior parte a spese della campagna, dei contadini. Vi è una nuova borghesia anche, ma essa è molto debole, anche finanziariamente, e le imposte che la colpiscono non bastano da sole ai bisogni dello Stato. In tali condizioni come si può parlare di concessioni ai contadini? La situazione è tale che si deve invece dire che è a spese dei contadini che lo Stato vive. Esso prende ad essi - che sono la maggioranza - tutto quanto è possibile, e ciò per mantenere lo Stato e per creare una riserva all’industria. Capitali non ne abbiamo, prestiti neppure, e si comincia appena oggi a parlare di crediti all’industria. Che altri mezzi possiamo avere noi per alimentare l’industria se non le tasse che i contadini pagano allo Stato?

Fu necessario permettere all’interno la libertà di commercio. Si è in questo modo dato una certa libertà per il capitale privato, che in tal modo può svilupparsi e rafforzarsi. Siamo in tali condizioni che dobbiamo favorire ad ogni costo lo sviluppo della nostra industria, anche a costo di un certo sviluppo del capitale privato. Ciò che oggi possiamo fabbricare non basta neanche a soddisfare metà dei bisogni dei contadini. La sproporzione nel nostro bilancio fra la parte che riguarda l’industria e quella che riguarda l’agricoltura è molto grave. Di fronte a 11 miliardi di rubli dell’agricoltura abbiamo solo 5 miliardi dell’industria. Bisogna inoltre tener conto che la nostra agricoltura ha grandi possibilità di sviluppo, e ciò senza bisogno di contributi e di aiuti stranieri. Sarebbe sufficiente elevare la coltura agraria dei contadini - ad esempio per la pulitura e selezione dei semi - per realizzare l’aumento di 300 milioni nella produzione agricola. Queste sono le potenzialità della campagna di cui dobbiamo tener conto. Nell’industria, invece, noi non abbiamo consimili possibilità. Occorre quindi dare all’industria nuovi mezzi tecnici, nuovi capitali, per nuovi impianti. Da ciò deriva la necessità assoluta di migliorare ed assicurare lo sviluppo dell’industria sia quella socialista, sia quella privata, per provvedere in misura maggiore almeno del 50% ai bisogni sempre crescenti dei contadini.

Bisogna dunque aumentare l’importazione delle macchine, perché quelle ereditate dal vecchio regime non sono sufficienti, ma per importare bisogna avere della buona valuta, e per averne bisogna esportare. Esportare molto di più di quanto già esportiamo, non è possibile: è aumentato il consumo interno, per gli aumentati bisogni degli operai e dei contadini. Tutto ciò ci induce ad avere una bilancia commerciale non sempre attiva, e determina il pericolo di svalutazione della valuta.

Questi gravi problemi di bilancio si complicano con altri problemi interni. Nei villaggi ci sono troppi contadini disoccupati. È una specie di disoccupazione che non esiste altrove. E l’industria non è ancora in grado di assorbire questa mano d’opera eccedente. Fra i contadini disoccupati si costituiscono gruppi di lavoro collettivo ai quali si forniscono trattrici e mezzi di lavoro, mentre fra i contadini che non sono disoccupati si fanno economie per aiutare i disoccupati. Nonostante ciò siamo costretti a permettere, anche nelle campagne, il lavoro salariato, come si è già fatto da parecchio tempo in città. In tal modo una parte dei disoccupati può trovare lavoro.

Se si tiene conto di tutto ciò si vede come la nostra industria e il nostro Stato vivono a spese dei contadini, e così sarà ancora per molto tempo. Non so quindi come si potrà parlare di concessioni ai contadini in simili circostanze.

L’anno scorso si ebbero dai contadini 250 milioni di imposte dirette, quest’anno 300. Se non si vuole distruggere la fonte della ricchezza dello Stato, si devono fare ai contadini delle concessioni di natura economica, ma si tratta di concessioni che non escono dalla linea della NEP.

Per la lotta contro il capitale privato abbiamo molti mezzi, il credito nazionalizzato, i trasporti nazionalizzati, la terra nazionalizzata. Come Stato siamo il più grande commerciante di grano. L’80-85% degli acquisti viene fatto attraverso gli organi statali. Come Stato siamo altresì fornitori ai contadini di macchine, tessuti, etc. La parte che spetta al capitale privato in questa attività è piccola e sebbene aumenti in cifre assolute, in cifre relative va diminuendo sempre più. La concorrenza fra l’industria statale e quella privata concorre a migliorare la situazione della nostra industria. La pratica ha oramai dimostrato che è difficile aiutare l’industria all’infuori di questa concorrenza. La lotta è molto aspra. Si tratta di vita o di morte. Noi abbiamo però molte buone ragioni per credere che saremo vittoriosi in questa lotta, e che i contadini ci seguiranno.

I contadini si dividono in tre gruppi.

1) Contadini poveri: operai agricoli, piccoli proprietari che fanno anche del lavoro salariato, piccoli proprietari che non fanno lavoro salariato;

2) Contadini medi: stanno economicamente fra i poveri ed i kulak e in parte impiegano lavoro salariato;

3) Contadini ricchi (kulak) che vivono del lavoro salariato altrui.

La proporzione fra queste categorie era prima stabilita in base alla quantità di terra messa a coltura. Il contadino con non più di 2 dessiatine 14 di terra era compreso nel primo gruppo; quello con dessiatine da 2 a 6 era compreso nel secondo gruppo; quello con più di 6 dessiatine era del terzo gruppo. Ma questo metodo era sbagliato. Nel Caucaso, per esempio, vi erano contadini ricchi di 10.000 capi di bestiame e solo una dessiatina di terra i quali venivano assegnati al gruppo dei poveri, e contadini con 10 dessiatine di terra da coltivare ma con raccolti poveri, molte volte non superiori ai 200 rubli all’anno, considerati nella categoria dei ricchi. I contadini con 3 dessiatine coltivate a lino e cotone appartenevano ai medi sebbene avessero entrate molto grandi. La ricchezza delle diverse categorie era calcolata in un modo veramente sbagliato.

È perciò stato deciso che per stabilire il gruppo a cui assegnare il contadino occorreva tener conto non solo della terra coltivata, ma anche del tipo di coltura, del bestiame etc., insomma di tutte le sue entrate.

Adoperando il primitivo metodo di calcolo si giungeva al risultato che i contadini ricchi erano il 14%. Col nuovo metodo i contadini ricchi si sono ridotti al 4%. Risulta oggi che nelle campagne la maggioranza dei contadini appartiene alla categoria dei contadini medi, i quali sono il 55-60%, il resto è di contadini poveri. Prima della rivoluzione i contadini medi non potevano costituire la maggioranza non essendo possibile lo sviluppo dell’agricoltura. Esisteva quindi una più profonda differenziazione nella popolazione delle campagne. Lo sviluppo agricolo era tale da provocare un aumento nel numero dei poveri da un lato, e dall’altro un progressivo arricchimento e aumento dei ricchi. I contadini medi scomparivano. Questo genere di sviluppo era facilitato dallo Stato col suo regime fiscale e dal fatto che la terra era proprietà privata. Adesso le cose sono cambiate. Nelle campagne al posto degli elementi capitalistici sono in azione elementi socialistici, ad esempio le cooperative legate allo Stato e all’industria statale. Le cooperative hanno 13 milioni di soci e la terra non è più proprietà privata. La politica delle imposte e quella commerciale è diretta a limitare e controllare l’attività dei contadini ricchi.

Abbiamo avuto nel 1919-20 il periodo della dekulakizzazione. La terra presa ai ricchi venne [data] ai contadini poveri ma una parte di questi venne in tal modo a rafforzare il gruppo dei contadini medi, determinando nelle campagne un processo di livellamento che sostituì il precedente processo di differenziazione. Oggi si verifica un nuovo processo di differenziazione, ma esso non può essere così profondo come nel regime capitalistico, poiché i contadini ricchi sono solo il 4% ed i medi sono la maggioranza. Così si spiega la parola d’ordine di Lenin, che dopo aver neutralizzato i contadini medi bisogna passare all’alleanza con essi.

Il socialismo è l’unione dei lavoratori della città e della campagna sulla base della socializzazione dei mezzi di produzione. Questo vuol dire che bisogna attirare anche i contadini nel lavoro di realizzazione del socialismo. La maggioranza dei contadini non è socialista, non vuole il socialismo e ciò per condizioni storiche più che per sua volontà. Nel 1917 però i contadini sostenevano gli operai nella lotta per il potere perché volevano cacciare lo zar ed i padroni e per realizzare queste loro aspirazioni non avevano altra via che appoggiarsi al proletariato della città. I contadini infatti non possono costituire una forza indipendente. Essi rappresentano una riserva come la piccola borghesia o per gli operai o per i capitalisti. In Russia essi costituiscono oggi una riserva per il proletariato. Era loro interesse che fosse cacciato lo zar ed i proprietari. Questo interesse ha coinciso con l’interesse del proletariato. In modo analogo oggi i contadini non vogliono il socialismo ma vogliono fare dei buoni affari, comprare merci a buon mercato e vendere il grano col maggiore utile possibile. Queste possibilità le trovano nelle cooperative, le cui finanze sono le finanze dello Stato. Infatti il credito alle cooperative viene concesso dallo Stato, e alla dirigenza di esse vi sono i comunisti. Per mezzo delle cooperative noi possiamo dare ai contadini i vantaggi di cui hanno bisogno, legando in tal modo gli interessi dei contadini a quelli degli operai e dello Stato. Così come nell’Ottobre si è legato all’operaio il contadino colla pace, oggi questo collegamento si realizza attraverso i vantaggi economici. Chi ha il potere può spingere l’economia a svilupparsi sulla via del socialismo o del capitalismo. Il potere si esercita nelle città, e la campagna non può fare a meno di seguire la città, sia per ragioni di coltura che di economia. L’economia socialista è destinata alla fine ad avere la sua sicura vittoria. I contadini rappresentano così una riserva della rivoluzione.

L’alleanza fra operai e contadini non esclude la lotta: e questa lotta si attua oggi come lotta di prezzi. I contadini vogliono comprare a buon prezzo e non vorrebbero il monopolio dello Stato sul commercio estero, mentre vogliono vendere a prezzi alti e convenienti i loro prodotti agricoli. Se la nostra industria soffre i contadini non piangono, essi vorrebbero semplicemente importare di più. Così nell’Unione [Sovietica] c’è una lotta. Ma gli interessi essenziali coincidono: lo sviluppo dell’economia si verifica ed i contadini lo vedono e vedono anche che le cooperative aiutano questo sviluppo. L’unione fra operai e contadini resta quindi una forza reale. L’unione però non è fra uguali. Il nostro Partito è il Partito del proletariato: nell’unione una parte dirige: ed è la parte operaia; l’altra è diretta ed è la parte contadina.

Le cose che ho detto faranno comprendere ai compagni quanto sono complessi i problemi che si presentano al proletariato quando esso è al potere. Essere all’opposizione è una cosa molto comoda. Ma bisogna lottare contro le difficoltà e vincere.

GENNARI: Chiede la misura della ricchezza in base alla quale [viene fatta] l’assegnazione dei contadini ai tre gruppi citati dal compagno Stalin.

STALIN: È un po’ difficile rispondere perché tale misura cambia secondo le regioni. Non vi sono cifre assolute e generali. Noi abbiamo un solo criterio marxista che è generale: il ricco vive sul lavoro dei contadini poveri e questi lavorano per il ricco. Il contadino medio non fa generalmente del lavoro salariato, ma qualche volta è costretto ad esso. Al riguardo le nostre statistiche non sono per niente perfette.

BORDIGA: Stalin ha esposto la questione dei rapporti con i contadini dal punto di vista generale. Al recente Congresso del P.C.R. si è parlato però di alcune modificazioni di questi rapporti le quali potrebbero equivalere a delle concessioni.

STALIN: Queste concessioni vennero decise nella conferenza dell’aprile del 1925. In conseguenza di esse si realizzò un miglioramento [della] nostra situazione nelle campagne, si ebbe quindi la conferma che [si era] agito bene. La stessa opposizione non ha avuto il coraggio infatti di chiedere apertamente che fossero cambiate le decisioni prese nella conferenza di aprile. Una parte di essa voleva soltanto impedire l’applicazione della politica decisa in aprile, ma la maggioranza si [oppose] e le decisioni vennero rispettate.

Cosa sono queste modificazioni? La NEP della città deve essere [portata] nelle campagne. Oltre ai metodi amministrativi di lotta contro il capitalismo si sono applicati anche dei metodi economici (imposte, [parola illeggibile], politica dei prezzi, cooperative, etc.) e si è introdotto il lavoro salariato e l’affitto. Il metodo seguito in città si è così esteso alla campagna, ciò che ha favorito lo sviluppo ed ha attivato la vita dei Soviet nelle campagne. Fino a poco tempo fa i comunisti nei villaggi impedivano ai contadini di criticare la loro attività. Molti comunisti rubavano nelle cooperative, e quando qualche contadino li denunziava lo facevano arrestare. Le elezioni per i Soviet nella campagna non si facevano sul serio. Si è tentato di porre rimedio a tutto ciò. Le riunioni delle cellule devono essere fatte all’aperto, pubblicamente, perché il nostro Partito è legale. E ciò è bene perché le masse senza Partito possono partecipare alla nostra attività e controllarla. Molte cellule non vollero adattarsi a questo metodo. Perché? Non pochi comunisti avevano paura della luce e temevano sia il controllo dall’alto - quello del C.C. del Partito - quanto quello dal basso, il controllo delle masse.

Per cambiare tutto ciò che era veramente dannoso si è data la parola d’ordine di intensificare la vita dei Soviet; con più elastici metodi di vigilanza, ascoltando e tenendo conto della critica dei contadini e dei senza Partito, etc. Si sono inviate nelle campagne numerose commissioni in tutte le regioni, e venne constatato che a capo dei Soviet vi erano perfino dei criminali. Più di 200 comunisti vennero arrestati. Sono inconvenienti che capitano ai Partiti che sono al potere.

Questo cambiamento venne definito come introduzione di una democrazia sovietista, ma in realtà non si è modificata la costituzione, si sono soltanto introdotte norme di eleggibilità nei Soviet e nelle cooperative le quali sono conformi alla Costituzione. Oggi non c’è più la guerra civile. I metodi di allora, dell’epoca della guerra civile, non servono per i periodi di sviluppo dell’attività economica. In questi periodi i metodi di dirigenza devono essere più elastici, se non si vuole distruggere l’unione fra operai e contadini ed annullare i frutti della ricostruzione. In questo ristabilimento di buoni rapporti fra la città e la campagna consistono tutte le concessioni.

La critica della opposizione non è stata in materia molto chiara. Essa tentava di screditare questa politica che da un pezzo si sarebbe dovuta applicare. I metodi della violenza sono oggi dannosi.

BORDIGA: Chiede se la applicazione di queste misure abbia determinato un certo allarme nella classe operaia e se in questo allarme vi è un fattore utile o un fattore dannoso o negativo.

STALIN: Questa politica è stata fatta sotto la spinta del proletariato industriale il quale conosce i contadini meglio del C.C. del Partito. L’industria si sviluppa e sempre nuovi contadini vengono dalla campagna in città a fare gli operai. Il mese di riposo che spetta agli operai viene da questi passato nelle campagne. Vi è quindi [un legame] costante fra città e campagna. Anche la NEP è stata applicata sotto la spinta degli operai verso la fine del 1920. In una conferenza di metallurgici senza Partito, un operaio, Cernov, criticò Lenin, affermando che la politica che si seguiva allora non era ormai più la buona, che era ora di finirla coi metodi del comunismo di guerra, etc. Era la prima volta che Lenin trovava una resistenza nella classe operaia e ciò fu uno degli elementi che lo indussero a pensare alla NEP. Non vi è quindi oggi alcun allarme fra gli operai.

BORDIGA: Che valore ha, allora, l’opposizione operaia di Leningrado?

STALIN: Non si tratta di operai ma di un piccolo gruppo di dirigenti che rassomiglia al gruppo che alla vigilia dell’ottobre 1917, prima dell’insurrezione, non credeva alla riuscita dell’insurrezione e si pose contro le decisioni del C.C. scrivendo apertamente che la insurrezione che il C.C. aveva deciso non era possibile.

BORDIGA: Nel 1917 il compagno Stalin non era anche lui contro Lenin? Anche sulla questione della pace nel 1919 non è stato egli in disaccordo con Lenin?

STALIN: No, io non fui in disaccordo con Lenin. Tutti eravamo contro la continuazione della guerra. Nessun comunista avrebbe allora potuto sostenere una tesi diversa.

BORDIGA: Dal momento che ora il compagno Stalin si serve come argomento politico dell’errore compiuto nel 1917 da un gruppo di compagni, perché quando il compagno Trotskij ricordò anche lui questi fatti si organizzò contro di lui una campagna?

STALIN: Trotskij non fu combattuto per questo, ma perché riteneva e sosteneva la sua vecchia convinzione circa i rapporti tra il proletariato e i contadini, secondo la quale se non vi sarà la rivoluzione in altri paesi di Europa, non si può sviluppare la rivoluzione in Russia. Questa è una concezione socialdemocratica e per essa Trotskij venne combattuto.

BORDIGA: Sta però di fatto che Trotskij fece un confronto tra l’Ottobre russo e l’Ottobre tedesco e criticò le debolezze di quei compagni che oggi sono nella nuova opposizione. Allora si disse che Trotskij prendeva posizione contro la vecchia guardia. Oggi invece le stesse accuse vengono portate dal C.C. contro l’opposizione.

STALIN: La differenza sta in ciò: il compagno Trotskij incominciava con un paragone e su di esso costruiva tutta la sua critica. Quale era il suo scopo? Egli voleva cambiare i cavalli durante la corsa senza tener conto dell’essenziale. Ma non si può costruire su di un paragone. Se si comincia con un paragone si deve anche finire con un paragone. E questo vuol dire fare della letteratura, ma non del lavoro politico.

BORDIGA: Trotskij si serviva del paragone per indagare le cause della sconfitta toccataci in Germania nel 1923. Non era privo di importanza storica lo stabilire che gli stessi uomini i quali avevano sbagliato nel 1917 in Russia erano a capo della Internazionale quando fallì la rivoluzione tedesca nel 1923.

STALIN: Ma per quanto riguarda il 1923 Trotskij non aveva ragione. La posizione più estrema in quella occasione fu assunta proprio da Zinov’ev: e Trotskij appoggiò il gruppo Brandler, il quale aveva un contegno incerto e mutevole. Malgrado ciò Trotskij e Radek li appoggiarono.

BORDIGA: Non crede che la fiducia posta da Trotskij su Brandler sarebbe stata miglior cosa porla sulla Fischer.

STALIN: Brandler merita certo più fiducia della Fischer. Succede però spesso che un uomo degno prenda una posizione sbagliata e che viceversa un uomo non degno si trovi nella posizione giusta. In politica si deve seguire la linea delle posizioni non quella delle persone.

ERCOLI: Crede che ci [si] sia allontanati con questo dibattito su un punto della questione Trotskij, dal tema di cui la delegazione desiderava essere informata. Chiede che il compagno Stalin spieghi quale è il valore degli elementi socialisti esistenti nell’industria russa.

STALIN: Il Partito è dell’opinione che la nostra industria - in quanto al tipo della sua organizzazione sociale - stia più in alto della stessa organizzazione capitalistica. Essa è di tipo capitalistico dal punto di vista amministrativo, ma è di tipo socialista come organizzazione. In regime capitalistico due classi intervengono nel processo della produzione e lo scopo di esse è il profitto. Nella nostra industria è rappresentata una sola classe - il proletariato - ed essa non è organizzata allo scopo di sfruttare gli operai a vantaggio della borghesia, ma bensì di rafforzare economicamente la classe lavoratrice. Da ciò la sua caratteristica socialista. I dirigenti della nostra industria sono in maggioranza operai, e non possono restare neppure un’ora nella fabbrica se gli operai non li vogliono. Vi sono stati anche degli scioperi a questo riguardo, mentre sono rimasti al loro posto vecchi tecnici ereditati dal passato regime. Per riformare gli uomini ci vuole del tempo, e non è possibile aver subito un esercito di tecnici nuovi. L’organizzazione della nostra industria - nella quale vi è una classe sola - in cui il direttore lavora per volontà della classe operaia, non è ancora il socialismo; sono rimasti ancora in essa gli elementi capitalistici. Il socialismo bisogna però introdurlo in tutto il paese e non solo nelle fabbriche. Non l’industria è socializzata ma il suo tipo. Lenin disse che il tipo della nostra industria è socialista conseguente. Quando l’industria è arretrata anche la vita interna delle fabbriche è arretrata, e così pure l’ordine interno e la contabilità. La cultura degli operai è debole. Da noi si ruba ancora molto mentre nella organizzazione capitalista ciò è più difficile. Tutto ciò lo comprendiamo molto bene. Ma da noi gli operai sono più legati alla fabbrica, perché sanno che l’industria è cosa loro. In questo caso si può parlare di aumentare la produzione certi di essere compresi dagli operai. Non vi sono mai state tante invenzioni da parte degli operai quante ve ne sono adesso fra di noi. Se la nostra industria si basasse su di una maggiore cultura degli operai e su di una tecnica più perfetta, nelle nostre officine si lavorerebbe molto di più che in regime capitalistico e si farebbero dei miracoli.

Per quanto riguarda le concessioni - della durata massima di 40 anni - lo Stato, cioè la classe operaia, mette delle condizioni per esse, e l’industriale privato non è il padrone. Dopo un certo periodo di tempo esso viene cacciato via. In queste intraprese vi sono però ancora due classi: l’imprenditore e l’operaio. Questo è un tipo di organizzazione capitalistico. La differenza è data dal fatto che l’imprenditore ha un programma di produzione, deve pagare un fitto, realizza un profitto. Qui il capitalismo c’è ma è controllato e limitato.

ERCOLI: Chiede se le questioni che sono state discusse al Congresso del P.C.R. coinvolgono prospettive riguardanti gli sviluppi della situazione mondiale.

STALIN: Le nostre prospettive sono quelle in generale dell’Internazionale comunista.

BORDIGA: Allo scopo di precisare la questione delle prospettive chiede se il compagno Stalin pensa che lo sviluppo della situazione russa e dei problemi interni del Partito russo è legato allo sviluppo del movimento proletario internazionale.

STALIN: Questa domanda non mi è mai stata rivolta. Non avrei mai creduto che un comunista potesse rivolgermela. Dio vi perdoni di averlo fatto.

BORDIGA: Chiede allora che il compagno Stalin dica che cosa accadrà in Russia se non si verifica entro un certo periodo di tempo la rivoluzione proletaria in Europa.

STALIN: Se sapremo bene organizzare l’economia russa, essa è destinata a svilupparsi, e con essa è la rivoluzione che si sviluppa. Il programma del nostro Partito dice - d’altra parte - che noi abbiamo il dovere di diffondere la rivoluzione nel mondo con ogni mezzo e noi lo faremo. Non è affatto escluso che se la borghesia non ci attacca prima saremo noi costretti ad attaccarla. Certo la borghesia ha lasciato passare, per attaccarci, il momento buono, quando noi eravamo deboli. Oggi siamo più forti. Abbiamo, nella grande industria, due milioni di operai e sette milioni nella industria media e la loro capacità produttiva e la loro cultura vanno sempre più aumentando. La marcia su Varsavia fu un errore di tattica ma non un errore di principio.

BORDIGA: Ritiene il compagno Stalin che nel determinare la politica del Partito russo sia necessaria la collaborazione degli altri Partiti comunisti i quali rappresentano l’avanguardia del proletariato rivoluzionario?

STALIN: Senza dubbio è necessaria e noi la desideriamo. A questo scopo il nostro Congresso ha approvata la risoluzione secondo la quale i grandi Partiti della I.C. devono collaborare in modo effettivo alla dirigenza dell’Internazionale.

BORDIGA: Questa collaborazione dovrebbe già avere luogo per la recente discussione. Le questioni trattate dal Congresso russo dovrebbero quindi essere trattate all’attuale Esecutivo dell’I.C.

STALIN: Occorre osservare che queste questioni sono essenzialmente russe. Inoltre i Partiti occidentali non sono ancora preparati a discutere di esse. Per questo la Centrale del P.C.R. ha inviato ai Partiti dell’I.C. una lettera in cui si chiede che non venga trasportata la discussione recente russa negli altri Partiti. Questa risoluzione è stata approvata anche dalla opposizione ed è stata fatta sua dal Presidium dell’I.C. Noi abbiamo fatto ciò anche per evitare che si ripetesse ciò che è avvenuto per le precedenti discussioni con Trotskij, le quali vennero trasportate in alcuni Partiti in modo artificiale e meccanico.

BORDIGA: Non credo che questi argomenti abbiano un valore decisivo. Anzitutto, se si voleva non discutere delle questioni russe a questo Allargato, doveva essere l’Allargato stesso a decidere in questo senso. In secondo luogo i problemi che sono stati toccati nella discussione russa non possono essere considerati come solamente russi. Essi interessano il proletariato di tutti i paesi. Infine il fatto che la opposizione abbia acconsentito non ha nessun valore.

STALIN: Da un punto di vista formale e di procedura certamente è vero che non è del tutto regolare che l’Allargato non decida esso stesso di non affrontare la questione russa. Ma bisogna badare alla sostanza delle cose. La posizione che ha il Partito Comunista Russo nell’Internazionale è tale che non si può pensare sia possibile risolvere con la procedura i problemi che toccano i rapporti fra il Partito russo stesso e la Internazionale e gli altri Partiti. Certamente la posizione del Partito russo nell’Internazionale è una posizione privilegiata. Noi ci accorgiamo dell’esistenza di questo privilegio e sentiamo anche la responsabilità che deriva da esso. Sappiamo che quando i compagni russi parlano nel Presidium è difficile che i compagni degli altri Partiti li contraddicano e questo anzi non ci fa piacere. Noi abbiamo anche altri privilegi, quello ad esempio che l’Internazionale risiede a Mosca, quello di avere vinto la rivoluzione. Noi siamo però pronti a trasportare la sede dell’Internazionale in un altro paese non appena la rivoluzione sarà stata altrove vittoriosa. Come si vede non si tratta di una questione di procedura. Inoltre la difficoltà di procedura è una cosa assai piccola in confronto delle difficoltà di fronte alle quali ci troveremmo se riaprissimo la discussione russa al Plenum dell’Allargato. Questo vorrebbe dire infatti riaprirla nel Partito russo. Non solo, ma vorrebbe dire mettere in minoranza l’opposizione nell’Internazionale, cioè togliere dalla direzione dell’Internazionale il compagno Zinov’ev. Ora questa cosa non vi è nessuno che la desidera. E i Partiti dell’I.C. non crediamo abbiano essi interesse a riaprire il contrasto nel Partito russo.

La seduta viene tolta dopo che il compagno Stalin ha chiesto al compagno Ercoli alcune spiegazioni circa la tattica del Partito italiano nei sindacati e nei comitati di agitazione.


Note
1 Discorso alla commissione tedesca della sesta sessione plenaria del CE dell’IC, 8 marzo 1926, in Stalin, Opere complete, vol. VIII, Rinascita, Roma 1954, p. 147.
2 A. Bordiga, Il battilocchio nella storia (CXII) da «Il programma comunista», n. 7 del 1953.
3 Il verbale in parola fa parte dei documenti dell’archivio Angelo Tasca riprodotti nell’importante volume di Giuseppe Berti, I primi dieci anni di vita del P.C.I., Feltrinelli, Milano 1967, pp. 218-232. Tali documenti sono stati tratti dagli Annali Feltrinelli 1966, Milano, novembre 1966,
4 Le Tesi sulla tattica presentate da Zinoviev al V Congresso dell’Internazionale (1924) indicavano due possibili esiti del processo rivoluzionario: «È cominciata l’era della rivoluzione internazionale. Il ritmo del suo sviluppo complessivo, come pure, in particolare, il ritmo evolutivo degli avvenimenti rivoluzionari in un continente o nell’altro, in un paese o nell’altro, non può essere predetto con precisione. La situazione complessiva è tale per cui sono possibili due previsioni: 1) può verificarsi un’evoluzione più lenta e differenziata della rivoluzione proletaria; oppure, 2) dato che il capitalismo è già fortemente minato e le sue contraddizioni interne in generale si acutizzano con estrema rapidità, la catastrofe può verificarsi entro brevissimo tempo in un paese come in un altro. La tattica del Comintern deve tener conto della possibilità di entrambe le prospettive. La disponibilità alla manovra da parte del Comintern deve risultare anche dalla sua rapida capacità di adattamento al mutare del ritmo evolutivo. Tuttavia, anche se il ritmo di evoluzione degli avvenimenti deve essere lento, il Comintern stesso, quale intransigente partito comunista internazionale di massa della rivoluzione proletaria, dovrà radunare in ogni modo le masse attorno a sé ed educarle alla lotta rivoluzionaria per il potere». Cfr. Aldo Agosti, La Terza Internazionale: storia documentaria, vol. II, tomo I, Roma, Editori Riuniti, 1976, pp. 124-125.
5 La NEP «significa passare in misura notevole alla restaurazione del capitalismo, un vero e proprio ritorno al capitalismo» con «concessioni ai capitalisti stranieri, appalti ai capitalisti privati», ecc. Ragione per cui «sarebbe stato meglio se dapprima fossimo pervenuti al capitalismo di Stato e soltanto dopo al socialismo. Il capitalismo di Stato è la preparazione materiale più completa del socialismo..., dal punto di vista economico, incomparabilmente superiore alla nostra economia attuale». In base a simili considerazioni, Lenin ha affermato che «noi non abbiamo terminato neppure le fondamenta dell’economia socialista. Le forze ostili del capitalismo possono ancora distruggercele. Bisogna ren­dercene conto nettamente e riconoscerlo apertamente, poiché non c’è nulla di più pericoloso che le illusioni. I comunisti i quali pensano che esse esistano commettono un errore grandissimo. Gli altri popoli non sono riusciti a imboccare, almeno così presto come pensavamo, questo cammino. Vediamo l’unica repubblica so­cialista resistere accerchiata da tutta una serie di potenze imperialistiche a essa ferocemente ostili». Gli scritti più importanti di Lenin in merito alla NEP sono: Sull’imposta in natura (21 aprile 1921), La Nep e i comitati per l’istruzione politica (17 ottobre 1921), Rapporto politico all’XI congresso del Pc(b)r (27 marzo 1922), Meglio meno, ma meglio (2 marzo 1923); a questi sono da aggiungere articoli giornalistici e interventi congressuali, fra cui vanno citati almeno i seguenti: L’importanza dell’oro, Sulla nostra rivoluzione, Per il quarto anniversario della rivoluzione d’ottobre, Cinque anni di rivoluzione russa, La politica interna e estera della repubblica, Sulla funzione e i compiti dei sindacati, Sulla cooperazione, Paginette di diario.
6 Circa la problematica inerente all’eredità filosofica e scientifica di Lenin mi si consenta di segnalare in questa sede i seguenti saggi: https://www.sinistrainrete.info/marxismo/16339-eros-barone-la-filosofia-come-kampfplatz-e-l-intervento-di-lenin-nella-crisi-delle-scienze.html e https://www.sinistrainrete.info/marxismo/16525-eros-barone-buscar-el-levante-por-el-ponente.html.
7 I documenti di questo scontro d’idee decisivo per la rivoluzione sovietica e per la storia del movimento comunista internazionale, scontro che ebbe i suoi protagonisti in Bucharin, Stalin, Trotskij e Zinoviev, sono stati pubblicati nel volume, a cura di Giuliano Procacci, La “rivoluzione permanente” e il socialismo in un paese solo, Editori Riuniti, Roma 1970. È inoltre opportuno sottolineare che, nonostante l’uso ormai da tempo invalso del sintagma “socialismo in un paese solo”, il cui significato è chiaramente deformante, la traduzione corretta della corrispondente espressione russa è “socialismo in un paese singolarmente preso”.
8 La coppia concettuale elaborata da Gramsci sulla scorta della terminologia militare va qui intesa ovviamente non in senso gradualistico e riformistico (come poi avverrà nell’interpretazione togliattiana e germinalmente, bisogna pur dirlo, nello stesso Gramsci), ma in un senso strategico vicino alla teoria della guerra popolare di lunga durata e soprattutto, come chiarisce lo stesso Stalin nella riunione del 22 febbraio 1926 oggetto del presente articolo, in un senso vicino alla teoria della rivoluzione ininterrotta per tappe (la quale, ‘ça va sans dire’, non ha nulla a che fare con la teoria trozkista della “rivoluzione permanente”: su questo aspetto, ma anche su altri, è uno strumento prezioso di chiarificazione teorica e terminologica il libro di Kostas Mavrakis, Trotskismo: teoria e storia, Mazzotta, Milano 1972).
9 Si tratta di un periodo di recessione che ebbe inizio nel 1923 e durò fino al 1926. La “crisi delle forbici” fu determinata, come indica la metafora delle ‘forbici’, dal crescente squilibrio tra i prezzi dei prodotti industriali e i prezzi dei prodotti agricoli: mentre le merci dell’industria avevano un costo sempre più alto, il prezzo del grano e degli altri prodotti agricoli era sempre più basso. La logica conseguenza fu che i contadini poveri non possedevano risorse economiche sufficienti per poter acquistare i beni industriali; il contemporaneo deprezzamento del rublo rese ancor meno vantaggiosa per essi la vendita al mercato dei prodotti agricoli. Uno dei settori che fu maggiormente colpito dalla crisi fu quello dello smercio dei prodotti industriali, che rimanevano ammassati in misura sempre maggiore nei depositi delle aziende. Pertanto, in molte fabbriche si ebbero difficoltà per il regolare pagamento dei salari, cosicché molti operai, fra i quali soprattutto quelli meno sindacalizzati e politicizzati, reagirono con agitazioni, proteste e abbandono del posto di lavoro. La “crisi delle forbici” fu resa possibile dalla crescita troppo lenta del settore industriale: in molte zone dell’URSS non vi erano fabbriche, mentre in altre la nazionalizzazione delle stesse era stata difficile, ragione per cui il commercio dei beni industriali nelle campagne era rimasto in mano ai “nepman”, ossia a quegli speculatori che approfittavano della NEP per accrescere il proprio patrimonio: come Lenin aveva avvertito nel X congresso del Partito comunista russo (1921), finché questo monopolio privato non fosse stato abolito i prezzi avrebbero raggiunto livelli iperbolici.
10 Sulle “Tesi di Lione” (gennaio del 1926) mi permetto di rinviare ad un articolo reperibile in questo sito al seguente indirizzo: https://sinistrainrete.info/storia/10230-eros-barone-cosa-ci-insegnano-le-tesi-di-lione.html.
11 Discorso alla commissione tedesca della sesta sessione plenaria del CE dell’IC, 8 marzo 1926, in Stalin, Opere complete, vol. VIII, Edizioni Rinascita, Roma 1954, pp. 142-143.
12 P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano. Gli anni della clandestinità, vol. II, Einaudi, Torino 1969, pp. 10-11.
13 N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, Libro I, cap. XI, in Machiavelli, Tutte le opere, a cura di M. Martelli, Sansoni, Firenze 1971, p. 94.
14 Vecchia misura agraria russa pari a 1,09 ettari.

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Claudio
Wednesday, 03 June 2020 22:22
Straordinaria la lucidità e la lungimiranza di Bordiga.
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