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sinistra

Germania 1918 e Italia 1945: due rivoluzioni interrotte

di Eros Barone

rivoluzioni interrotte

Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non altre nascon le cose.

Giambattista Vico, La scienza nuova, Degnità XIVª.

  1. La democrazia borghese contro la rivoluzione socialista: il caso tedesco

La nazione europea in cui le crisi e i conflitti del primo dopoguerra si manifestarono nella forma più netta e, nel contempo, più drammatica fu senza dubbio la Germania. In questo paese la sconfitta militare aveva determinato la disgregazione dell’impero guglielmino e posto la necessità di una profonda trasformazione dello Stato. In quello che, a partire dall’età bismarckiana, si presentava come un regime semi-assolutista e semi-parlamentare, l’impero si era basato su una compenetrazione talmente stretta fra l’imperatore e l’esercito che l’intero sistema politico e sociale finiva con l’articolarsi intorno all’autorità del sovrano e alla possente struttura dell’esercito, nel mentre il parlamento era ridotto a svolgere un ruolo decisamente subalterno.

Quando le ostilità cessarono, nel breve giro di due settimane questi pilastri crollarono.

Dapprima, il 3 novembre del 1918, vi fu l’ammutinamento della flotta a Kiel e, sull’esempio della Russia sovietica, si costituirono i Consigli dei soldati e degli operai; dopodiché la rivolta scoppiò nelle file dell’esercito, costringendo lo stato maggiore ad accettare l’armistizio; alla fine, il 9 novembre, in un clima di estrema tensione, con i Consigli degli operai mobilitati, con la minaccia di uno sciopero generale e le principali città investite da una dinamica pre-insurrezionale, il Kaiser Guglielmo II dovette abdicare e prendere la via della fuga. Da quel momento in poi i poteri istituzionali (monarchia, esercito, governo ecc.) cessarono di funzionare e si aprì un vuoto di potere che poteva essere colmato soltanto da una forza politica che si fosse dimostrata capace di conquistare ed esercitare la direzione del paese. 1

L’iniziativa passava dunque nelle mani delle organizzazioni del movimento operaio, le uniche forze ancora esistenti ed attive in un contesto segnato dalla catastrofe bellica, e le sole che potessero rappresentare una guida per le larghe masse nella fase conclusiva della guerra. Scrive lo storico marxista Arthur Rosenberg che «in tutta la Germania, nelle città come nei paesi, il potere era saldamente in mano ai Consigli degli operai e dei soldati che si appoggiavano sui reparti di truppe rivoluzionarie e sulla classe operaia che in diversi luoghi aveva preso le armi»: 2 un blocco sociale compatto formato da oltre un milione di uomini che godevano dell’appoggio delle truppe al fronte e dei lavoratori delle fabbriche, e che sostenevano apertamente le forze politiche socialiste le quali, dal canto loro, avanzavano un programma in cui al primo posto figurava la richiesta della pace immediata.

Si trattava perciò di una situazione in cui le altre forze politiche erano o escluse o emarginate: dalle organizzazioni della destra conservatrice ai partiti di carattere democratico-borghese, come i nazional-liberali e il partito cattolico (‘Zentrum’): tutte forze che pure, durante la guerra, si erano opposte alla dittatura del generale Ludendorff (il capo di stato maggiore investito dei pieni poteri, che sarebbe poi diventato uno stretto alleato di Hitler) e si erano battute, dopo il 1917, per la pace e la costituzione di una monarchia costituzionale. Era quindi del tutto evidente che in quei primi, difficili giorni della “rivoluzione di novembre”, la partita si sarebbe giocata all’interno dell’area socialista e il destino della Germania sarebbe dipeso dai rapporti di forza tra le diverse componenti di tale area.

Vediamo pertanto quali erano queste componenti. Tre formazioni politiche dominavano allora la scena della sinistra: oltre alla socialdemocrazia che era la componente maggioritaria (SPD), vi erano i socialisti indipendenti (USPD) e la Lega di Spartaco. I primi, che avevano i loro dirigenti più rappresentativi in Ebert e Scheidemann, costituivano l’ala collaborazionista del movimento operaio (quella che aveva votato i crediti di guerra e accettato la “mobilitazione totale”, ossia una tregua politica diretta a favorire le attività belliche, e che dopo il 1917 era passata all’opposizione). Essi puntavano ad instaurare una democrazia parlamentare ed erano contrari alla democrazia consiliare in cui vedevano una forma di prevaricazione di una minoranza sociale sulla popolazione. Sostenevano perciò che i Consigli dei soldati e degli operai dovevano essere sciolti al più presto e si sarebbe dovuta eleggere a suffragio universale un’assemblea nazionale costituente.

I socialisti indipendenti, espressione dell’ala socialdemocratica che si era opposta alla linea ‘socialpatriottica’ fondata sulla collaborazione con la borghesia e sul sostegno alla guerra imperialistica, puntavano, in coerenza con la loro vocazione centrista, ad integrare i Consigli con il parlamento ed erano favorevoli ad una limitata nazionalizzazione di alcuni settori economici strategici. 3

La Lega di Spartaco, diretta da Karl Liebknecht e da Rosa Luxemburg, si batteva per la repubblica socialista, cioè per un governo operaio fondato sui Consigli, e si opponeva alla proposta dell’assemblea nazionale che, facendo pesare la “maggioranza silenziosa” e moderata dell’elettorato, avrebbe inevitabilmente paralizzato l’iniziativa rivoluzionaria. Gli spartachisti, inoltre, erano fortemente critici verso il duplice modello leninista del partito rivoluzionario e della “dittatura del proletariato”. 4

Tra la Lega di Spartaco ed i socialisti indipendenti si collocavano invece i cosiddetti “capitani rivoluzionari”, gruppo di delegati delle grandi fabbriche metallurgiche di Berlino, espressione della parte più avanzata e radicale della classe operaia tedesca, i quali, pur essendo membri della USPD, rivendicavano anch’essi la repubblica dei Consigli.

 

  1. Un dualismo di potere breve e precario tra socializzazione e restaurazione

‘Rebus sic stantibus’, ben presto si arrivò ad una convergenza tra i socialdemocratici maggioritari e i socialisti indipendenti sulla base della parola d’ordine della repubblica democratica parlamentare, con la conseguente opposizione degli spartachisti. Così, quando il 10 novembre si riunì a Berlino l’assemblea plenaria dei Consigli degli operai e dei soldati, costituitasi in supremo organo di rappresentanza del popolo tedesco, fu sanzionata la nomina di un governo provvisorio composto da 6 commissari del popolo di cui 3 SPD e 3 USPD, destinato ad esercitare il potere fino all’elezione di un’assemblea nazionale con funzione costituente. In questo senso, espliciti furono sia la scelta per la repubblica borghese sia il ripudio del socialismo, giacché il manto ‘rivoluzionario’ dell’istituzione dei commissari del popolo serviva in effetti a mascherare, perpetuandola, la struttura del vecchio governo sorto all’inizio di ottobre, quando il Kaiser Guglielmo II aveva accettato di riformare la costituzione per salvare la monarchia: governo formato da ministri liberali e cattolici, ridefiniti ora con il titolo meno impegnativo e più anodino di sottosegretari, cui si aggiungevano i nuovi ministri socialdemocratici.

Orbene, il governo dei commissari del popolo assunse decisioni senza dubbio importanti, soprattutto sul piano sociale: proclamò la giornata lavorativa di otto ore, abolì i residui servili nelle campagne, stabilì l’illimitato diritto di associazione, garantì l’assistenza ai disoccupati, impose ai datori di lavoro la riassunzione degli operai reduci dal fronte, vietò i licenziamenti arbitrari, decretò che i contratti di lavoro avessero validità generale e introdusse il suffragio universale per tutti i cittadini, maschi e femmine, di età superiore ai 20 anni. Esso rifiutò però di portare la rivoluzione alle estreme conseguenze politiche e sociali.

A tale proposito, fu particolarmente significativa la vicenda della “Commissione per la socializzazione” istituita il 15 novembre di concerto tra i capi sindacali e i capi della grande industria e presieduta dallo stesso Kautsky, in quanto tale vicenda mostra con plastica evidenza come, sotto la pressione della paura suscitata dalla marea montante del processo rivoluzionario in corso, i principali centri di potere – l’industria in primo luogo, ma anche lo stato maggiore dell’esercito – si erano affrettati a riconoscere il nuovo ordine tentando di stabilire subito una prassi di contrattazione e di patteggiamento al fine di scongiurare il rischio di una trasformazione sociale troppo radicale, ispirata al modello bolscevico. In base a questa convenzione i rappresentanti delle associazioni dei datori di lavoro e i rappresentanti dei sindacati procedevano al “reciproco riconoscimento” e alla “parità dei diritti”, con buona pace della classe operaia e dei Consigli dei lavoratori che erano stati i protagonisti vittoriosi della spallata rivoluzionaria e che ora dovevano lottare contro i loro nemici intorno a un tavolo, con procedure e mezzi burocratici, per dosare le rispettive competenze.

È questo un fatto che difficilmente trova riscontro nella storia delle altre rivoluzioni, poiché è tipico di una rivoluzione mancata. Occorre allora rilevare che, al di là di conquiste formali e transitorie che, di lì a non molto, la crisi economico-finanziaria del primo dopoguerra e la crisi strutturale degli anni Trenta avrebbero drasticamente ridimensionato e in parte cancellato, il fallimento dei capi socialdemocratici dipese fondamentalmente dall’opportunismo radicato nella socialdemocrazia e, in particolare, dal fatto che si considerarono nella socializzazione i vantaggi e gli svantaggi momentanei, anziché i presupposti del potere politico. 5

 

  1. Le radici del ruolo controrivoluzionario della socialdemocrazia

In sostanza, poiché la socialdemocrazia non aveva saputo cogliere l’essenza dell’imperialismo, essa non fu in grado di riconoscere nel novembre 1918 «l’alternativa posta dalla storia mondiale». Lenin lo mise acutamente in rilievo nella sua Lettera agli operai d’Europa e d’America: «Tutto il processo di sviluppo della rivoluzione tedesca e, in particolare, la lotta degli “spartachisti”, cioè dei veri e unici rappresentanti del proletariato, contro l’alleanza tra la canaglia traditrice dei Südekum e degli Scheidemann e la borghesia, mostrano chiaramente come la storia ponga la questione nei riguardi della Germania. O il “potere sovietico” o il parlamento borghese, quali che siano le insegne (Assemblea “nazionale” o Assemblea “costituente”), sotto cui si presenta… Ma oggi che la storia mondiale ha posto all’ordine del giorno il compito di distruggere tutto questo regime, di abbattere e schiacciare gli sfruttatori, di passare dal capitalismo al socialismo, oggi, limitarsi al parlamentarismo borghese, alla democrazia borghese, abbellire questa democrazia come “democrazia” in generale, celarne il carattere borghese, dimenticare che il suffragio universale, fino a che perdura la proprietà dei capitalisti, è solo una delle armi dello Stato borghese, significa tradire vergognosamente il proletariato, passare dalla parte del suo nemico di classe, significa essere un traditore e un rinnegato». 6

L’analisi sbagliata dell’imperialismo era proprio ciò che portava i capi della SPD e i dirigenti dell’ala destra della USPD a non comprendere la situazione politica mondiale. La crisi sempre più acuta, il grande indebolimento dell’imperialismo anche negli Stati vittoriosi, il rafforzamento del proletariato, e la portata epocale della vittoria del proletariato russo, erano tutti fattori che essi si rifiutavano di riconoscere. Perciò credevano di doversi orientare verso l’Occidente capitalistico e dubitavano che i bolscevichi russi potessero mantenere e consolidare il loro potere; in definitiva, essi temevano gli Stati dell’Intesa e non comprendevano che sarebbe bastata una decisa, generale ascesa rivoluzionaria in Germania perché tutto il movimento proletario internazionale acquistasse uno slancio tale da indebolire sensibilmente e minacciare seriamente l’imperialismo negli Stati stessi dell’Intesa. Sotto questo profilo, sarebbe stato impossibile per gli Stati imperialisti intraprendere con successo, mentre la rivoluzione li minacciava alle spalle, una campagna d’intervento controrivoluzionario contro il proletariato tedesco come quella che essi, all’indomani della rivoluzione d’Ottobre, avevano avviato contro la Russia sovietica. 7

 

  1. La “democrazia contrattata e neocorporativa” della Repubblica di Weimar: una fase di transizione tra il Reich guglielmino e il fascismo hitleriano

Fermo restando che la politica interna e quella estera sono indissolubilmente connesse, aveva quindi inizio, sul terreno della prima, una fase segnata dalla progressiva evanescenza del dualismo di potere, che in qualche modo si era costituito, tra gli interessi dei precedenti centri di potere e quelli degli strati sociali protagonisti della “rivoluzione di novembre” (ovviamente a favore dei primi e a detrimento dei secondi). E proprio su questo terreno la Repubblica di Weimar (così denominata dalla città dove fu redatta la costituzione del 1919) non seppe e non volle sciogliere alcuni nodi decisivi destinati a segnare la futura involuzione della società tedesca, o meglio li risolse in chiave nettamente moderata e, in certi momenti, perfino reazionaria: basti pensare alla “questione militare” e all’assetto proprietario dei grandi monopoli industriali. 8

La nuova repubblica doveva procedere alla riorganizzazione delle forze armate e, a questo fine, poteva scegliere se ristrutturare il proprio esercito su basi rivoluzionarie sfruttando l’adesione entusiastica e spontanea dei soldati in armi e dei loro Consigli eletti direttamente dalle truppe, oppure se puntare sull’alleanza con la struttura del vecchio esercito, dando credito alle dichiarazioni di fedeltà espresse dallo stato maggiore. Come è noto, prevalse ancora una volta la scelta più moderata e la repubblica borghese si pose sotto la tutela della vecchia gerarchia militare.

Parimenti, anche per quanto riguarda l’industria la nuova classe dirigente socialdemocratica rinunciò ad un programma di nazionalizzazione e di statalizzazione da attuarsi quantomeno nei settori strategici dell’apparato produttivo e – come si è visto nella vicenda della “Commissione di socializzazione” – fu paga degli impegni assunti dagli industriali e degli accordi da questi firmati con le organizzazioni sindacali dei lavoratori.

Sulla base di simili premesse, congiunturali e strutturali, nazionali e internazionali, non è difficile spiegare la debolezza e la fragilità della Repubblica di Weimar, che dalla scienza politica è stata infatti definita come una forma di “democrazia contrattata e neocorporativa”, cioè di sistema istituzionale il cui funzionamento dipendeva da una serie di patti stipulati tra le grandi corporazioni politiche e sociali che ne costituivano l’ossatura: un ‘patto militare’ tra governo ed esercito, un ‘patto sociale’ tra sindacati e industria, un ‘patto politico’ tra socialdemocrazia e partiti conservatori.

Era chiaro che un siffatto sistema poteva sopravvivere finché fosse durata la ‘geometria variabile’ delle transazioni e dei cedimenti consumati dalla socialdemocrazia nei confronti dei vecchi centri di potere a ridosso della crisi post-bellica, mentre si sarebbe progressivamente indebolito e inevitabilmente infranto qualora si fossero dissolti i patti fondamentali che ne costituivano la ‘ratio essendi’. Dopo la precoce sconfitta della “rivoluzione di novembre”, tra anni Venti e anni Trenta si rivelerà decisiva in questo senso la coalescenza tra capitale monopolistico, grande depressione, mobilitazione reazionaria dei ceti medi e delle larghe masse (compresi vasti settori della classe operaia) e mutamento di forma del dominio borghese con l’avvento al potere del fascismo hitleriano. 9

 

  1. La mobilitazione rivoluzionaria delle masse lasciata a sé stessa e la controrivoluzione gestita dalla socialdemocrazia

Al centro della dinamica della rivoluzione tedesca non vi fu dunque il conflitto tra il movimento socialista e i residui dell’antico regime bismarckiano, ma una vera e propria guerra civile tra l’ala maggioritaria della socialdemocrazia, alleata con gli altri partiti democratico-borghesi e con le corporazioni militari e industriali, e la sinistra comunista che contestava il carattere capitalistico del nuovo ordine.

A partire dalla fine di novembre, tutta la Germania, e in particolare Berlino, furono il teatro di scontri sanguinosi provocati, per un verso, dalla volontà delle forze conservatrici e reazionarie di spostare a destra l’asse politico del governo, premendo sulla SPD, e, per un altro verso, dai tentativi della sinistra comunista, diretti a rilanciare il processo rivoluzionario e a mobilitare le masse. Alla fine di dicembre a Berlino ci furono violenti scontri tra gli spartachisti e le forze governative. Durante la “settimana rossa”, dal 5 all’11 gennaio 1919, Berlino cadde nelle mani degli insorti: la situazione stava ormai precipitando sul piano inclinato della lotta aperta e violenta.

Nel determinare questa imprevista accelerazione del conflitto ebbe certamente un peso notevole l’eccessiva sottovalutazione con cui le organizzazioni rivoluzionarie consideravano la forza dell’avversario e la resilienza del capitalismo tedesco. Ma ebbero un peso non trascurabile anche la crescente esasperazione delle masse e il diffuso malcontento per gli scarsi risultati raggiunti con la “rivoluzione di novembre”, insieme con la volontà di impedire il peggioramento degli equilibri politici e il rafforzamento sempre più palese della destra.

Gli eventi della “settimana rossa” sono, in questo senso, esemplari. Contro il tentativo del governo di destituire dalla carica di prefetto della polizia il socialista indipendente Eichorn, la sinistra comunista aveva risposto indicendo una mobilitazione di protesta; sennonché la risposta operaia sorprese gli stessi organizzatori e rivelò un livello di tensione superiore al previsto: centinaia di migliaia di lavoratori avevano invaso il centro di Berlino, rendendo credibile ciò che di questa manifestazione ebbe ad affermare il giornale spartachista «Die Rote Fahne», e cioè che quella fosse “la più grande azione di massa svoltasi nella storia”, così grande che “neppure in Russia si era mai vista una manifestazione di tale ampiezza”. 10

Mentre le masse operaie affluite nel centro di Berlino ascoltavano i discorsi dei ‘leader’, chiedendo indicazioni e obiettivi, gruppi di operai armati della Lega di Spartaco (che il 30 dicembre aveva assunto la denominazione di Partito Comunista Tedesco) occupavano le sedi dei giornali e presidiavano gli edifici pubblici. Tutto sembrava confermare che in quella giornata avesse avuto inizio la seconda fase della rivoluzione; invece, nonostante l’enorme spiegamento di forze, quello che si compiva era l’inizio della tragedia della sinistra tedesca. In realtà, accadde ciò che il divario tra la mobilitazione delle masse e l’azione delle avanguardie rese inevitabile, e cioè che l’intero fronte rivoluzionario fu polarizzato verso uno scontro armato di vaste proporzioni a cui non era preparato e da cui uscì distrutto. La mobilitazione rivoluzionaria delle masse esprimeva infatti una tendenza spontanea verso l’insurrezione, ma il passaggio alla lotta armata per la conquista del potere non rientrava nei programmi e nelle intenzioni di nessuno dei gruppi politici che avevano promosso e organizzato la mobilitazione. Di certo, non era il caso né della USPD né dei “capitani rivoluzionari”, favorevoli ad una pressione pacifica, ma neppure della direzione spartachista, che aveva espresso con chiarezza il rifiuto di ogni logica putschista ed era orientata verso la prospettiva di un processo rivoluzionario di lunga durata, ritenuto indispensabile quale periodo di preparazione del proletariato al rovesciamento del potere. D’altra parte, non esistendo proposte alternative credibili per un’azione immediata, la mobilitazione rivoluzionaria delle masse non trovò né uno sbocco corrispondente alla forza messa in campo né una direzione politica capace di indicare obiettivi corrispondenti a quel livello di mobilitazione.

Come spiega un adagio antico, l’occasione è paragonabile alla corsa di un giovane che ha un ciuffo di capelli sulla fronte ma è calvo sulla nuca: non avendo afferrato l’occasione, anche il tentativo di dare inizio, nella giornata del 6 gennaio, ad azioni di lotta armata, tentativo di cui furono protagonisti alcuni ristretti gruppi rivoluzionari facenti capo ad Eichorn e ad una frazione dei “capitani rivoluzionari”, non ebbe alcun successo. Conclusa la manifestazione del 5 gennaio, la potenza del movimento di massa rifluiva e il grosso del proletariato, deluso e incerto, non partecipò a quel tipo di lotta. Poche migliaia di operai di avanguardia, cui si unirono, vincendo perplessità e riserve, anche Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, rimasero soli a combattere una battaglia tanto disperata quanto impari.

Dopo l’11 l’ala dura dei socialdemocratici capeggiata dal ministro Gustav Noske decise di scatenare la controrivoluzione, inviando nella capitale, assieme ad un certo numero di operai socialdemocratici e di sottoproletari prezzolati, i “corpi franchi” formati da ex ufficiali dell’esercito imperiale. 11 Fu questo esercito di ventura, messo assieme da Noske, che si incaricò di soffocare nel sangue il movimento spartachista: la “Comune di Berlino” era finita come quella di Parigi del 1871.

Da Berlino la controrivoluzione dilagò nel resto della Germania e i “corpi franchi” attuarono un gran numero di spedizioni punitive a Brema, Amburgo, Lipsia, nei distretti minerari della Germania centrale, nella Ruhr, in Turingia, ovunque la classe operaia si fosse organizzata in forme non controllate dal governo. La campagna militare della controrivoluzione, dopo aver seminato migliaia di morti, raggiunse l’apice con il rovesciamento della Repubblica dei Consigli della Baviera, che era sorta in séguito all’assassinio, da parte di un nobile nazionalista, del socialista umanitario Kurt Eisner ed era sostenuta dagli stessi socialisti maggioritari della regione.

 

  1. La “rivoluzione senza rivoluzione”: 12 il caso italiano

Nella primavera del 1943 gli operai di Torino presero l’iniziativa di un possente movimento di sciopero che si estese anche a Milano e a Genova, coinvolgendo più di centomila lavoratori. La sconfitta tedesca a Stalingrado, lo sbarco angloamericano in Sicilia, gli scioperi operai del Nord fanno comprendere ai gruppi dirigenti della borghesia italiana che è giunto il momento di sbarazzarsi di Mussolini e di rifugiarsi sotto l’ala protettrice degli Alleati. Nel contempo, il loro principale obiettivo è quello di prevenire uno sbocco rivoluzionario della crisi del regime, mentre il governo Badoglio mostra fin da subito la sua vera faccia, repressiva e antipopolare.

In una circolare governativa del governo Badoglio (definito con giusto disprezzo “governo dei Fu”) – la tristemente nota “circolare Roatta” del 26 luglio 1943 - si dànno le seguenti istruzioni, che saranno fedelmente applicate dall’esercito nella repressione sanguinosa dei moti popolari che esplosero nel periodo dei “quarantacinque giorni” (25 luglio 1943 – 8 settembre1943): «Ogni movimento deve essere inesorabilmente stroncato in origine […] Le truppe procedano in formazione di combattimento, aprendo il fuoco a distanza, anche con mortai e artiglieria, senza preavvisi di sorta, come se si procedesse contro il nemico. Non si tiri mai in aria, ma colpire come in combattimento, e chiunque, anche isolatamente, compia atti di violenza contro le forze armate venga immediatamente passato per le armi.» 13

La storia subisce una forte accelerazione: i partiti antifascisti e i sindacati ritornano alla legalità, mentre si moltiplicano gli scioperi in cui si esige la liberazione dei detenuti politici. Nelle fabbriche si costituiscono per elezione le commissioni operaie (i primo organi elettivi che sorgono in Italia dopo la caduta di Mussolini). Frattanto i tedeschi che già avevano sette divisioni in Italia ne inviano altre 18, occupando di fatto il Nord e il Centro del paese senza che il governo Badoglio prenda alcuna misura difensiva. Il re e il maresciallo, e la grande borghesia italiana, memori della nota tradizione per cui la dinastia dei Savoia non aveva mai concluso una guerra dalla stessa parte in cui l’aveva iniziata, si illudevano di porre in atto il ‘revirement’ nel campo della politica estera e di potersi concentrare nella lotta contro il nemico interno, utilizzando l’apparato dello Stato fascista e avvalendosi del consenso dei tedeschi e degli angloamericani nel condurre in porto tale operazione. Ma la reazione dei tedeschi chiuse questa prospettiva e l’unica soluzione che rimase al ‘Governo di Sua Maestà’ fu quella di rifugiarsi al Sud, nel territorio occupato dalle truppe alleate, senza aver preso la minima misura difensiva e lasciando ai tedeschi il compito di reprimere il movimento antifascista nel Nord e nel Centro del paese. Dopo l’8 settembre passerà ancora più di un mese prima che Badoglio, dietro pressione degli Alleati, dichiari la guerra alla Germania.

A partire dal novembre 1943 il movimento di massa e l’azione armata cominciano ad assumere una grande ampiezza nella zona settentrionale e si sviluppano scioperi importanti in Piemonte, in Lombardia, in Liguria e in Toscana. Per iniziativa della direzione comunista del Nord e con l’appoggio del CLNAI, nel marzo 1944 viene dichiarato lo sciopero generale nel territorio occupato dai tedeschi. Più di un milione di lavoratori partecipano al movimento, il più importante di questo genere durante la IIª guerra mondiale nell’Europa occupata. Contemporaneamente alle azioni di sciopero e alle altre forme di lotta di massa, si sviluppa rapidamente la lotta armata partigiana, Mentre nel Nord incomincia così a prendere corpo un tessuto di vero e proprio potere popolare, nel Sud agrario incominciano a formarsi le strutture di un nuovo potere politico della borghesia italiana.

Nel periodo che segue la caduta di Mussolini i ‘leader’ della sinistra cercano di giungere a un accordo con Badoglio per organizzare la lotta contro l’occupazione tedesca, ma la politica repressiva e antipopolare, praticata con immutato spirito forcaiolo dal re e dal maresciallo, e la loro tacita complicità con i nazisti rendono impossibile qualsiasi collaborazione. Dopo l’abbandono di Roma il problema di creare un governo rappresentativo dell’antifascismo, che sia disposto a portare avanti la lotta contro la Germania nazista, balza in primo piano. Frattanto i “tre grandi” hanno riconosciuto ‘de facto’ il governo Badoglio e nella loro “Dichiarazione sull’Italia”, pubblicata alla fine dell’ottobre 1943, raccomandano l’inclusione nel governo di «rappresentanti di quei settori del popolo che si sono sempre opposti al fascismo». Il 12 novembre 1943 la «Pravda» pubblica un articolo di Togliatti, il quale si trovava ancora in Unione Sovietica: «Le misure indicate in questa dichiarazione – scrive il capo del PCI – corrispondono esattamente alle aspirazioni e agli interessi del popolo italiano. Costituiscono il programma intorno a cui devono unirsi tutte le forze antifasciste democratiche del paese per rendere possibile la sua immediata realizzazione.» Vale la pena di rammentare che la sostanza di questo “programma”, firmato dai rappresentanti di Churchill e di Roosevelt, consisteva nell’instaurazione di una democrazia borghese in Italia e che per iniziare la sua costruzione esso esigeva l’accordo tra i partiti antifascisti e il governo Badoglio, che era giustamente considerato da questi partiti come una sopravvivenza del fascismo.

Sennonché la posizione di Togliatti divergeva nettamente dalla posizione che in quel momento aveva il PCI nel paese. Non a caso un documento interno della direzione del partito che operava nell’Italia occupata, risalente alla fine di ottobre 1943, afferma quanto segue: «Compito e funzione della classe operaia è di porsi all’avanguardia della lotta per la liberazione nazionale, ed attraverso questa lotta conquistare tale influenza sul popolo italiano da divenire la forza direttiva per una effettiva democrazia popolare. Questa deve essere la politica del Partito comunista.» Il documento indica due errori: il primo sarebbe consistito nell’identificare gli obiettivi della Resistenza con la rivoluzione proletaria, cadendo nell’“infantile estremismo”. «Ma sarebbe pure grave errore in senso opportunista quello di sottovalutare l’importanza del problema della direzione politica nel complesso delle forze fra cui opera la classe operaia, e per un malinteso senso di unità, accedere e consentire alle esigenze di quelle forze reazionarie di cui Badoglio e la monarchia sono l’espressione.» 14 È significativo che questo documento fosse pubblicato dalla stampa illegale del partito sotto forma di articolo nel mese di dicembre, dopo che la radio di Mosca aveva fatto conoscere la posizione di Togliatti. Merita inoltre di essere sottolineato che la politica del partito socialista in questo periodo non si poneva alla destra del PCI, ma era ben più radicale, e anche il Partito d’azione affermava che gli obiettivi della Resistenza non potevano limitarsi all’instaurazione di una democrazia borghese.

 

  1. La “svolta di Salerno” e la sua gestione opportunista

Alla fine del gennaio 1944 si riunisce a Bari un Congresso unitario di tutti i partiti antifascisti, cui assistono alcuni delegati del CLN. Il Partito d’azione propone al Congresso una serie di misure che vengono appoggiate dai comunisti e dai socialisti, oltre che dai delegati del CLN: esigere l’abdicazione immediata del re; costituirsi in Assemblea rappresentativa del paese fino alla elezione di un’Assemblea Costituente; designare una giunta esecutiva incaricata dei rapporti con le Nazioni Unite. Il nodo gordiano che non poteva essere sciolto se non con un atto di forza ed entrando in conflitto con gli Alleati, è però quello del destino del sovrano. Viene tuttavia nominata una giunta esecutiva, ma il Congresso non arriva a costituirsi in Assemblea rappresentativa. Ad ogni modo, i partiti di sinistra non rinunciano alle loro posizioni; anzi, in risposta al discorso che Churchill pronuncia il 22 febbraio e in cui ironizza sulle risoluzioni antimonarchiche e antibadogliane del Congresso di Bari, 15 gli operai di Napoli indicono uno sciopero, che di fronte all’opposizione delle autorità militari alleate viene sostituito da un grande comizio popolare cui partecipano soltanto i partiti di sinistra. Quando nel mese di marzo l’agitazione contro il governo raggiunge il culmine, Badoglio annuncia il riconoscimento del suo governo da parte dell’Unione Sovietica e il ristabilimento dei rapporti diplomatici tra i due paesi (gli Alleati non avevano ancora compiuto questo passo).

Questa è dunque la situazione che trova Togliatti quando sbarca a Napoli il 27 marzo 1944, deciso ad applicare il programma dei “tre grandi”, Non può allora sorprendere il fatto che il suo giudizio sulla politica dei partiti antifascisti di sinistra, e in particolare su quella del suo partito, fosse piuttosto severo. Anni dopo dirà ai suoi biografi che il PCI si era messo su una “strada pericolosa, senza prospettive”, giungendo al punto di organizzare «comizi di protesta contro Churchill, studiando con altri gruppi antifascisti la possibilità di fare una consultazione popolare per iniziativa non del governo ma dei partiti». 16 In un attimo Togliatti sposterà il partito dal piano inclinato di una politica di classe e lo porterà sulla retta via della politica di unità nazionale. Il 29 marzo si riuniscono i dirigenti del partito nella zona meridionale e Togliatti propone di «aggiornare il problema istituzionale fino al momento in cui potrà essere convocata un’Assemblea costituente, di mettere in primo piano l’unione di tutte le correnti politiche nella guerra contro la Germania e di giungere alla creazione immediata di un governo di unione nazionale». Secondo quanto si legge nella stessa biografia, all’inizio “la maggior parte dei presenti fu sbalordita”, ma Togliatti, oltre ad essere un polemista di razza, espose il suo discorso con tutta l’autorevolezza che gli derivava dal prestigio dell’Internazionale comunista e dell’Unione Sovietica e, anche se alcuni vecchi dirigenti del partito non si lasciarono convincere così facilmente, finì con l’ottenere il consenso dell’uditorio al quale si rivolgeva. 17

La svolta del partito comunista, passata alla storia come la “svolta di Salerno”, permise di vincere la resistenza dei socialisti e degli ‘azionisti’. Vittorio Emanuele, cedendo alle pressioni di Benedetto Croce e di Roosevelt, accettò di ritirarsi e di nominare luogotenente del regno il principe Umberto, una volta che Roma fosse stata liberata. Nel nuovo governo Badoglio entrò come vice-presidente del Consiglio lo stesso Togliatti. Orbene, nei documenti del PCI si è sempre presentata la costituzione del governo di unità nazionale presieduto da Badoglio come un’iniziativa essenzialmente italiana, il cui principale artefice era stato Togliatti. In realtà si era trattato di un’operazione dei “tre grandi” e, secondo alcune fonti sovietiche, il merito dell’iniziativa deve essere attribuito al governo dell’URSS. La Grande Enciclopedia Sovietica lo afferma a chiare lettere: «per iniziativa dell’URSS che l’11 marzo aveva stabilito relazioni dirette con il governo italiano, il 22 aprile 1944 venne riorganizzato il governo Badoglio con l’inclusione di rappresentanti dei sei partiti della coalizione antifascista.» 18 Siccome chi governava di fatto il territorio italiano era l’AMGOT (la commissione militare alleata, in cui non c’erano rappresentanti sovietici), il riconoscimento diplomatico del governo Badoglio, con l’ingresso dei comunisti in tale governo, dava all’URSS la possibilità di intervenire direttamente su questo terreno. Nell’ottica di Stalin la questione consisteva pertanto nel potenziare in alcuni paesi-chiave dell’Europa occidentale, come la Francia e l’Italia, i fattori capaci di controbilanciare l’influenza degli Alleati.

 

  1. La “svolta di Salerno” e il corso opportunista e revisionista del PCI

È doveroso, a questo punto, affrontare una questione cruciale che si può riassumere nella seguente domanda: che rapporto intercede tra la “svolta di Salerno” e il revisionismo togliattiano? In altri termini, quando cominciò a manifestarsi apertamente il revisionismo di Togliatti? Nella ricerca della risposta corretta a questi interrogativi occorre, in primo luogo, sgombrare il campo da un falso problema e riconoscere che la scelta di formare un governo di unità nazionale per la lotta contro il nazifascismo era del tutto giusta e non sbarrava affatto la prospettiva della rivoluzione. In secondo luogo, poiché non esiste alcun documento dell’epoca (e nemmeno posteriore a quell’epoca) in cui sia dato trovare una concreta analisi del PCI riguardo al rapporto di forze tra borghesia e proletariato nella congiuntura storica 1944-1947, il presupposto secondo cui tale rapporto non permetteva una soluzione socialista della crisi del capitalismo italiano (o conduceva inevitabilmente ad un esito di tipo greco) veniva affermato dalla direzione del PCI (ma analogo ragionamento valeva anche per il PCF) come una sorta di principio metafisico o di assioma matematico, partendo dal quale tutta la politica successiva del partito era giustificata. In realtà, non fu la “svolta” in quanto tale, e tanto meno l’URSS, ad impedire uno sbocco rivoluzionario della crisi del capitalismo italiano; fu invece Togliatti a escluderlo in modo aprioristico usando la vaga formula della “democrazia progressiva” la quale, secondo la sua interpretazione, indicava un regime che, pur restando nell’àmbito della società borghese, si sarebbe trasformato gradualmente in un regime socialista grazie al progressivo estendersi dell’egemonia politico-culturale della classe operaia e dei suoi alleati, laddove tale egemonia era vista non come una delle condizioni per la conquista del potere ma come la via stessa per giungervi.

Insomma, non fu Stalin a scambiare la tattica per la strategia rivoluzionaria né fu la “svolta di Salerno” ad aprire il corso opportunista e revisionista del PCI. Fu invece la concreta prassi politica seguita in quel periodo da Togliatti e dal gruppo dirigente del PCI, che in quella congiuntura trovarono l’occasione per imboccare una linea di destra, revisionista, di cui si erano peraltro manifestati alcuni sintomi nel periodo precedente e di cui il browderismo fu la manifestazione più clamorosa a livello internazionale. 19 Tale linea era. da un lato, il prodotto della sfiducia nelle capacità e nelle possibilità rivoluzionarie del proletariato e dei suoi alleati, e dall’altro scaturiva dalla scelta di rimanere sul terreno preferito dalla borghesia e non su quello, più vantaggioso per il proletariato, di una lotta rivoluzionaria di massa per modificare i rapporti di forza e creare le condizioni della vittoria nel processo della rivoluzione ininterrotta che avrebbe dovuto portare dal capitalismo, attraverso la distruzione del fascismo, al socialismo/comunismo. Questo orientamento democratico-riformista era già evidente nelle istruzioni per la Direzione del partito che Togliatti inviò il 6 giugno 1944 “a tutti i compagni e a tutte le formazioni di partito”. In questo importante documento Togliatti, dopo aver affermato che la linea generale del partito è l’insurrezione generale delle regioni occupate contro i nazifascisti, precisa «che l’insurrezione che noi vogliamo non ha lo scopo di imporre trasformazioni sociali e politiche in senso socialista e comunista, ma ha come scopo la liberazione nazionale e la distruzione del fascismo. Tutti gli altri problemi verranno risolti dal popolo, domani, una volta liberata tutta l’Italia, attraverso una libera consultazione popolare e l’elezione di una Assemblea costituente». 20 È quasi superfluo osservare che qui manca il concetto di una rivoluzione ininterrotta ed è invece presente il riferimento ad una futura democrazia fondata sui partiti, sia borghesi che proletari (del resto, è opportuno rammentare che i CLN erano basati sui partiti e non su organismi di massa).

 

  1. Il Togliatti revisionista: realismo o utopia?

Le prime tappe di questo percorso involutivo, conseguenza inesorabile della drastica esclusione di una linea rivoluzionaria, furono: la rinuncia a sfruttare la situazione di accesa lotta di classe, una vera e propria mobilitazione rivoluzionaria delle masse, apertasi nel 1945; l’amnistia ai fascisti; la mancata risposta di lotta quando nel maggio del 1947 il PCI fu estromesso dal governo per opera di De Gasperi, il quale agiva su mandato degli USA, che dovevano avviare il Piano Marshall, e del Vaticano, attestato con il papa Pio XII su una linea di aggressivo anticomunismo; l’art. 7 della Costituzione che, illudendosi di modificare l’atteggiamento del Vaticano, convalidava il Trattato e il Concordato mussoliniani che riconoscevano al cattolicesimo e al clero cattolico privilegi speciali ecc. In buona sostanza, Togliatti sfruttò la nuova situazione politica, che egli stesso aveva contribuito a creare, e la stessa esperienza delle alleanze antifasciste per annebbiare la coscienza del proletariato e seguire un’altra linea, non più rivoluzionaria e di classe ma gradualista e interclassista, non più caratterizzata dal legame fra lotta antifascista e lotta per il socialismo ma subordinata agli interessi della classe dominante. Egli non commise dunque solo errori tattici e di valutazione, ma strategici e di principio, escludendo la via rivoluzionaria della conquista del potere da parte della classe operaia, teorizzando la via pacifica e parlamentare, trasformandosi in tal modo da comunista in socialdemocratico ben prima della svolta revisionista attuata dal XX Congresso del PCUS (1956).

La critica di ordine va quindi centrata sul fatto che la ‘svolta’ non costituì l’inizio di un ampio disegno politico di classe (come allora numerosi amici e nemici del PCI credettero), ma fu invece l’inizio di quello che del resto lo stesso Togliatti proclamò, e ha poi sempre ribadito, che fosse, e cioè un inserimento strategico e permanente della classe operaia nella società borghese e nella sua gestione governativa. In altri termini, quando Togliatti evocava la formula della “democrazia progressiva”, dimostrava di essere giunto alle ultime conseguenze del lungo viaggio che dal marxismo-leninismo l’aveva portato al revisionismo.

A pochi giorni dalla liberazione, il 7 aprile 1945, parlando al II Consiglio Nazionale del PCI, Togliatti precisava così gli obiettivi della propria politica: «1) Fare il più grande sforzo per la liberazione totale del paese…; 2) evitare che la liberazione del Nord sia accompagnata da urti e conflitti i quali possono creare gravi malintesi tra il popolo e le forze alleate liberatrici…; 3) evitare che si crei, liberato il Nord, una frattura tra il settentrione e il resto d’Italia, frattura che potrebbe essere esiziale per il nostro paese, in quanto aprirebbe un capitolo di storia pieno di confusione». Naturalmente tutte queste preoccupazioni di “fratture”, di “urti” e di “conflitti” non potevano che mostrarsi il migliore alleato per il ritorno in forze del sistema borghese. D’altra parte, tutta la teorizzazione togliattiana del “partito nuovo”, teso alla creazione di una “democrazia progressiva” in cui la classe operaia assuma una funzione dirigente senza l’abbattimento delle strutture dello Stato borghese, conteneva, dal punto di vista del marxismo, il grave errore di confondere una egemonia politica con l’effettiva dittatura del proletariato conquistata per via insurrezionale. Senza contare che, come si è notato in precedenza, la concezione, secondo cui la classe operaia possa acquisire una funzione dirigente nella vita nazionale prima della (e senza la) conquista del potere politico di Stato, è una posizione tipicamente gradualista e socialdemocratica.

Era davvero passata molta acqua sotto i ponti da quando, dieci anni prima, un Togliatti ancora leninista aveva dichiarato al VII Congresso dell’Internazionale che una «collaborazione temporanea con la borghesia», così come teorizzata dalla politica dei fronti popolari, «non deve mai condurre a rinunciare alla lotta di classe, cioè non può e non deve essere mai una collaborazione riformista. È tanto più necessario sottolineare questo elemento, in quanto sappiamo che la borghesia, anche se in un determinato momento è costretta a prendere le armi per la difesa della libertà e dell’indipendenza nazionale, è sempre pronta a passare nel campo avversario di fronte al pericolo della trasformazione della guerra in guerra popolare e di una potente sollevazione delle masse operaie e contadine per esigere l’attuazione delle loro rivendicazioni di classe». 21

È stato osservato, da un punto di vista sia teorico sia storico, che «aver ridotto il partito alla ceralacca che tiene insieme il blocco storico, è stato uno dei più forti, forse il più forte, elemento di blocco dell’intera prospettiva rivoluzionaria, in Italia. Il concetto gramsciano di blocco storico era niente altro che la rilevazione di uno stadio particolare, di un momento nazionale dello sviluppo capitalistico. La sua immediata generalizzazione, nelle stesse opere del carcere, era già un primo errore. Il secondo errore, molto più grave, fu la volgarizzazione togliattiana del partito nuovo che doveva tendere sempre più a identificarsi con questo blocco storico, fino a sparire in esso, man mano che la storia della nazione veniva a identificarsi con la politica nazionale del partito di tutto il popolo. È facile dire oggi: il disegno non è riuscito. La verità è che non poteva riuscire. Il capitalismo non permette queste cose a chi, sia pure formalmente, parla a nome della classe avversaria. Il capitalismo tiene questi programmi per sé, li adatta al suo livello, li usa nel proprio sviluppo. Tutti hanno detto Togliatti realista. Ma è stato forse l’uomo più lontano dalla realtà sociale del suo paese che il movimento operaio abbia mai espresso. Viene il dubbio che il suo non fosse opportunismo ben calcolato, ma un’utopia bella e buona scarsamente ragionata.» 22

 

  1. Una ‘possibilità reale’ scartata a priori

Per converso, ricorrendo ad un’ipotesi controfattuale, si può provare a delineare uno scenario ben diverso, corrispondente a quella ‘possibilità reale’ che allora fu scartata dal gruppo dirigente del PCI a causa del condizionamento opportunista e revisionista. 23 La premessa maggiore dell’argomentazione che ci si propone di svolgere è la seguente: a partire dal 1943 la possibilità di una soluzione rivoluzionaria della guerra di liberazione contro il nazifascismo si profila, per quanto concerne lo scenario dell’Europa occidentale, in quattro paesi: Italia, Francia, Jugoslavia e Grecia. Nel contempo si profila la sconfitta della Germania e il ruolo decisivo che hanno in essa le armate sovietiche, la cui offensiva generale si sviluppa con un ritmo travolgente su tutti i fronti nell’estate di quell’anno.

Si può allora affermare, da questo punto di vista, che la ‘svolta’, in quanto espressione di una politica abile e matura, poteva costituire l’inizio di un’azione a largo raggio tendente a battere i nemici di classe isolandoli volta per volta dalle altre forze, a partire dal fascismo e dai tedeschi, passando attraverso gli Alleati, per giungere ai partiti conservatori e reazionari. È innegabile che la possibilità di una linea politica che combinasse dialetticamente la lotta armata contro il nazifascismo con la lotta per una soluzione socialista si era presentata concretamente in Italia dopo la caduta di Mussolini, quando, per dirla con le parole di Togliatti, sprofondarono le vecchie fondamenta dello Stato borghese, compresa la sua organizzazione militare, ed ebbe inizio la sollevazione popolare più grande di tutta la storia d’Italia; quando sul fronte di questa formidabile avanzata popolare si trovarono comunisti, socialisti e intellettuali progressisti. Sennonché durante i due anni trascorsi tra lo sbarco alleato in Sicilia e l’insurrezione del Nord, il PCI non si propose di organizzare la lotta delle masse contadine per la terra e frenò le tendenze verso una soluzione socialista che si profilavano nel grande movimento proletario del Nord. In pratica, la gestione togliattiana della ‘svolta’, ossia della politica di unità nazionale, consisté nel frenare il movimento di massa per evitare, da un lato, la rottura della coalizione governativa e, dall’altro, qualsiasi scontro con le autorità militari angloamericane. Ma solo il movimento di massa, la sua affermazione come potere autonomo a tutti i livelli, con un suo specifico programma, poteva minare e alla fine impedire la restaurazione del potere tradizionale che si andava man mano compiendo. La presenza degli Alleati avrebbe dovuto certamente suggerire metodi differenti rispetto agli jugoslavi, una forma di scontro essenzialmente politica. Ma proprio questa presenza e proprio il comportamento delle autorità militari angloamericane fornivano un vivo insegnamento al popolo e permettevano alla sinistra comunista di esprimere e far valere la coscienza nazionale risvegliata dalla guerra di liberazione, esigendo il pieno riconoscimento della sovranità italiana e il diritto del popolo a darsi liberamente i propri organi di governo senza che le autorità militari angloamericane interferissero negli affari interni dell’Italia.

Riassumendo e concludendo, nei primi mesi del 1945 la Germania era praticamente sconfitta; le armate sovietiche, rinforzate da importanti contingenti bulgari, romeni e polacchi e anche dall’Esercito di liberazione jugoslavo, avevano una decisiva superiorità nel continente rispetto alle forze alleate; gli Stati Uniti erano ancora impegnati nella guerra del Pacifico. In tutta Europa era il momento del massimo entusiasmo popolare per gli ideali democratici e innovatori della Resistenza. Sviluppando allora l’ipotesi controfattuale in questione, ci si potrebbe domandare che cosa sarebbe successo se in questa situazione i movimenti operai della Francia e dell’Italia fossero passati risolutamente all’offensiva ponendo all’ordine del giorno la questione del potere dei lavoratori sulla base di un programma di trasformazione democratica e socialista. Sarebbe forse scattato l’intervento degli Alleati? Potevano Roosevelt o Truman rischiare politicamente di sostituirsi a Hitler contro la sinistra europea? Erano nelle condizioni militari per farlo? Certo, il pericolo non poteva essere scartato, come nell’ottobre 1917 non poteva essere scartato il pericolo dell’intervento degli eserciti tedeschi, che stavano per schiacciare la rivoluzione russa. È però altrettanto vero che finora non si sono conosciute rivoluzioni munite di permesso e garantite da ogni pericolo…

Ponendosi al termine della congiuntura storica oggetto di questa disàmina, ci si può chiedere infine se la politica di unità nazionale del PCI sarebbe stata più fruttuosa, qualora a condizionarla e a limitarla, soprattutto sul terreno politico e sociale, non vi fosse stato il timore di un brutale intervento angloamericano. È però incontestabile che essa venne sfruttata a fondo dalla borghesia italiana, poiché De Gasperi non deluse la fiducia e le speranze che le vecchie classi dirigenti italiane avevano riposto in lui. Poteva dirsi lo stesso riguardo alla fiducia e alle speranze che il proletariato italiano aveva riposto in coloro che lo rappresentavano nel momento in cui era avvenuta la maggiore catastrofe economica e sociale del capitalismo italiano? La missione storica del partito rivoluzionario era forse quella di contribuire a preparare le condizioni economiche e politiche della restaurazione capitalistica?

Nessuno può negare che i lavoratori italiani ottennero una serie di conquiste che non possono essere disprezzate: invece del fascismo la democrazia borghese; invece della monarchia la repubblica democratica con una Costituzione tanto avanzata quanto può esserlo una Costituzione borghese; infine, una serie di miglioramenti sociali. In sostanza, qualcosa di simile a ciò che il proletariato tedesco aveva ottenuto dopo la prima guerra mondiale con la sua ‘rivoluzione’ sotto la direzione della socialdemocrazia.

 

  1. Le direzioni del tempo e la ‘possibilità reale’

Secondo Reichenbach, tempo e causalità sono strettamente connessi e i rapporti di causalità si situano tutti all’interno di un’area ben definita. La combinatoria di quelle che egli chiama biforcazioni congiuntive fornisce una descrizione proprio di quest’area, e comprende quattro casi possibili: biforcazioni chiuse verso il passato e il futuro (rappresentabili come un rombo: <>), aperte verso il passato e il futuro (una clessidra: ><), chiuse verso il futuro e aperte verso il passato (una freccia: >), chiuse verso il passato e aperte verso il futuro (di nuovo una freccia ma in direzione inversa alla precedente: <).

Il primo caso, romboidale, rappresenta bene l’universo deterministico assoluto di cui gli Stoici furono i propugnatori e si può riassumere in questa proposizione: “Tutto quello che è, deve essere; e se non dovesse essere, non sarebbe”. Il secondo caso è invece la classica immagine dello spazio-tempo causale formulata (e formalizzata) dalla teoria della relatività, laddove il presente è il punto in cui i due coni della clessidra si oppongono al vertice. In un certo senso, esso definisce lo spazio in cui abita la categoria di ‘possibilità reale’, che, come si è cercato di dimostrare nel presente elaborato, è il cardine epistemologico della tesi secondo cui era concretamente possibile, non solo in Italia, un esito politico e sociale molto più avanzato di quello che fu raggiunto con la guerra partigiana nel periodo 1944-1947 qui individuato come periodo di riferimento L’ultimo caso disegna i confini entro cui, generalmente, opera la prassi medica e qualsiasi processo di ricostruzione. Vale la pena di notare che, riferito alla prassi politica comunista, chi ragiona secondo questo biforcazione congiuntiva commette l’errore di invertire l’ordine di successione temporale, considerando il presente alla stregua del passato di un futuro indefinito. È la posizione del riformismo socialdemocratico, di cui Bernstein ha fornito la classica formula con la nota massima, e di cui Togliatti e il gruppo dirigente del PCI, tra la fine della guerra e l’inizio del dopoguerra, hanno fornito la prassi (e più tardi, a partire dal 1956, la teoria): «Il movimento è tutto, il fine è nulla». 24

Ma, tornando alla questione da cui si son prese le mosse, occorre ribadire, in opposizione al una interpretazione dogmatica del determinismo come quella esemplificata nel primo caso della combinatoria testé illustrata, che se non esistesse alcuna libertà di scelta (o i margini, per quanto ristretti, di tale libertà) perderebbe ogni senso, nell’ottica marxista l’alternativa stessa fra una scelta rivoluzionaria e una scelta riformista.

Di fronte allo squallore, alla grettezza e alle menzogne delle “galline” del riformismo odierno, il quale si caratterizza per la sua completa accettazione e perfino glorificazione dello stato di cose esistente, spiccano invece il valore, la coerenza e il coraggio di “aquile” come Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht e Leo Jogiches, per i quali la certezza della sconfitta e della morte fu oggetto di una scelta consapevole. In ciò vi è davvero qualcosa di grande, la cui luce si riverbera su quel sacrificio. E in questa luce chi milita nel movimento rivoluzionario riconosce l’espressione più alta della coscienza di classe: la parzialità nell’universalità e l’universalità nella parzialità. 25


Note
1 Nella ricostruzione degli eventi della rivoluzione tedesca ho tenuto presenti sia A. Rosenberg, Origini della Repubblica di Weimar, Sansoni, Firenze 1972, sia O. Grotewohl, La rivoluzione del 1918 in Germania, Edizioni Rinascita, Roma 1952.
2 A. Rosenberg, op. cit., p. 91 e sgg.
3 Nel lessico marxista il centrismo è un termine che indica quella tendenza politica che oscilla tra il riformismo e il bolscevismo. Il centrismo è un fenomeno che si manifesta quando gruppi dirigenti con un programma e un metodo riformista, spinti dalla pressione delle masse e della base operaia della propria organizzazione, tendono a spostarsi a sinistra e ad acquisire una fraseologia rivoluzionaria. In altre situazioni esso può esprimere il processo opposto, quando un gruppo dirigente rivoluzionario degenera sotto i colpi degli avvenimenti e, nella sua transizione verso posizioni riformiste, attraversa anche una fase centrista. Alle parole allora non seguono i fatti né si fa nulla per preparare il partito a dare corpo agli slogan rivoluzionari proclamati dai suoi dirigenti: questo è il sintomo classico del centrismo. Esempi di centrismo nella storia del movimento operaio sono ravvisabili, oltre che nella kautskiana USPD, nella direzione del PSI a partire dal 1915 (il gruppo di Lazzari e Serrati) e, ovviamente su scala molto più ridotta, in altre formazioni politiche italiane dell’ultimo sessantennio, quali lo PSIUP, la sinistra ingraiana del PCI, il gruppo del «manifesto», il PDUP e, buon ultimo, il PRC.
4 Sulla critica luxemburghiana del modello leninista è sempre utile il volume,Scritti politici, a cura di Lelio Basso, Editori Riuniti, Roma 1970.
5 Nello scritto Per la critica del progetto di programma del partito socialdemocratico (1891) Engels ha fornito una definizione classica dell’opportunismo: «Questo dimenticare i grandi princìpi fondamentali di fronte agli interessi passeggeri del momento, questo lottare e tendere al successo momentaneo senza preoccuparsi delle conseguenze che ne scaturiranno, questo sacrificare il futuro del movimento per il presente del movimento, può essere considerato onorevole, ma è e rimane opportunismo, e l’opportunismo “onorevole” è forse il peggiore di tutti» (Marx-Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 1175). Su questo scritto soffermerà la propria attenzione Lenin in Stato e rivoluzione.
6 V. I. Lenin, Opere complete, vol. XXVIII, Editori Riuniti, Roma 1967, pp. 436-437.
7 Cfr. il cap. VIII, Le conseguenze degli errori e delle debolezze del movimento operaio tedesco nella rivoluzione, in Grotewohl, op. cit., pp. 118-119, e il cap. IX, Il significato degli errori della rivoluzione di Novembre (pp. 125-166), all’interno del quale merita una particolare attenzione il terzo paragrafo, Il significato della teoria marxista dello Stato (pp. 135-152).
8 Lapidario il giudizio formulato da Grotewohl circa l’esito democratico-borghese e prefascista della rivoluzione tedesca: «La classe operaia tedesca non aveva dunque saputo assolvere i compiti che le erano stati posti dalla rivoluzione di Novembre e dagli avvenimenti successivi, perché ad essa era mancata una ferrea direzione bolscevica, un partito socialista rivoluzionario educato nello spirito del marxismo-leninismo e soprattutto un orientamento marxista-leninista sul modo di intendere lo Stato e la sua funzione politico-sociale. Il 4 agosto, sotto la fatale influenza dei dirigenti socialtraditori, gli interessi di classe del proletariato e i veri interessi del popolo tedesco vennero sacrificati alla “pace civile”, e la Germania sprofondò in un mare di sangue e di lacrime. Il 9 novembre 1918 “la pace e l’ordine” prevalsero sugli interessi di classe del proletariato e sulla sua missione rivoluzionaria e il risultato fu l’Assemblea Nazionale di Weimar. Il 19 gennaio 1919 la maggioranza della classe operaia tedesca ebbe fiducia – seguendo le parole d’ordine della direzione opportunistica – nelle schede elettorali della formale democrazia borghese, fu presa dal vortice delle coalizioni e finì nel mare di sangue del fascismo. Tre errori storici che ebbero conseguenze funeste» (Ivi, pp. 104-105). Mi permetto di segnalare una riflessione sulla teoria dell’errore, che ho sviluppato coniugandola con una teoria dialettica degli opposti e della soggettività: https://www.sinistrainrete.info/filosofia/15262-per-una-teoria-materialistica-dell-errore-degli-opposti-e-della-soggettivitaeros-barone.html.
9 Sulla crisi della Repubblica di Weimar si vedano i fondamentali volumi di A. Rosenberg, Storia della Repubblica di Weimar, Sansoni, Firenze 1972, e di G. E. Rusconi, La crisi di Weimar, Einaudi, Torino 1977.
10 A. Rosenberg, Le origini… cit., p. 153.
11 Bertolt Brecht ha dedicato a Gustav Noske – “der rote Hund” - questo memorabile epitaffio: «Ero il cane sanguinario, compagni. Io stesso, /figlio del popolo, mi diedi questo nome. / Me ne furono grati; quando i nazisti vennero, / mi garantirono casa e pensione.»
12Nel novembre del 1792, prendendo la parola dalla tribuna della Convenzione nazionale a Parigi, Maximilien Robespierre domandò: «Cittadini, volete una rivoluzione senza rivoluzione?» Poco meno di un mese dopo, da quella stessa tribuna, Robespierre riprenderà la parola in uno dei suoi discorsi più memorabili, nel corso del rovente dibattito sul processo a Luigi XVI, e ricorderà ai convenzionali che non spettava loro condannare o assolvere un re deposto, ma solo prendere una misura di “salute pubblica”, ossia giustiziarlo. Ciò significa che nella rivoluzione francese, così come in quella russa e in ogni rivoluzione degna di questo nome, il Terrore non è una parentesi o un incubo, ma è parte integrante del processo rivoluzionario. In questo senso è doveroso rammentare il fondamentale articolo di Stefano Merli, I nostri conti con la teoria della “rivoluzione senza rivoluzione” di Gramsci, pubblicato in «Giovane critica», 17 (autunno 1967), e ripubblicato nel n. 21 (autunno 1969) della stessa rivista. Riguardo al sintagma ossimorico di “rivoluzione senza rivoluzione”, parola d’ordine dell’“emancipazione accidiosa”, superfetazione dei cascami post-sessantotteschi e matrice di ogni opportunismo (e della stessa controrivoluzione), i Wu Ming hanno argutamente osservato: «Il 1789 senza il 1793, quindi. È una tendenza del tutto contemporanea. Coca-Cola senza caffeina, sigarette che si possono fumare in aereo perché non si accendono e non fanno fumo, yogurt senza grassi, dolcezza senza zucchero, sensazioni senza corpo, Guerra apparentemente senza Guerra, nel senso che non tocca noi, Rivoluzione senza Rivoluzione: l’edulcorazione prima di tutto».
13 R. Del Carria, Proletari senza rivoluzione, vol. 2, Edizioni Oriente, Milano 1972, pp. 309-310.
14 F. Claudìn, La crisi del movimento comunista. Dal Comintern al Cominform, Feltrinelli, Milano 1974, pp. 276-277 e sgg. Nella nota a piè di pagina (p. 276) si rileva che in questo articolo Togliatti tace sul fatto che la dichiarazione delle tre potenze riguardante l’Italia conteneva una disposizione secondo la quale durante la guerra tutto il potere effettivo restava nelle mani delle autorità alleate (Allied Military Government of Occupied Territories, in sigla AMGOT). Il diritto del popolo italiano a eleggere democraticamente il suo governo veniva rimandato a dopo la vittoria.
15 È il “discorso della caffettiera”, così passato alla storia, il quale, se mai ce ne fosse bisogno, rivela le doti di brillante scrittore e di mordace polemista che possedeva Churchill. In questo discorso i partiti antifascisti vengono paragonati a “strofinacci”, che per di più non servono allo scopo, e su Benedetto Croce viene espresso questo sarcastico apprezzamento: «Apprendo da MacMillan che Croce è un professore nano sui 75 anni che ha scritto buoni libri di estetica e di filosofia. Non ho più fiducia in Croce che in Sforza. Vyšinskij, che ha provato a leggere i suoi libri, li ha trovati persino più noiosi di quelli di Carlo Marx…» (cfr. P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, vol. V, Einaudi, Torino 1975, pp. 288-289).
16 Marcella e Maurizio Ferrara, Conversando con Togliatti, Edizioni di Cultura Sociale, Roma 1953, pp. 318-319.
17 In realtà, la gestione opportunista della ‘svolta’ non passò senza produrre lacerazioni nella sinistra operaia. Giancarlo Pajetta ebbe ad accennare in una conferenza al caso dei dirigenti comunisti calabresi che rifiutarono di «accettare i primi documenti del partito considerandoli come documenti falsificati da provocatori, quando videro posti in questi documenti i problemi della riscossa nazionale e dell’unità delle forze democratiche» (cfr. R. Del Carria, op. cit., p. 337).
18 Cfr. F. Claudìn, op. cit., p. 280.
19 Rivelatore fu l’atteggiamento di Togliatti nei confronti della deviazione rappresentata dal browderismo, richiamata esplicitamente negli interventi duramente critici verso il partito comunista italiano e quello francese che furono pronunciati dalla maggioranza dei delegati alla conferenza di Szklarska Poreba, da cui nacque il Cominform (1947-1956). Nel 1943 Earl Browder, segretario del partito comunista degli Stati Uniti, identificò infatti il “New Deal” rooseveltiano, cioè una politica economica che era sostanzialmente funzionale alla fuoriuscita dalla “grande crisi” del 1929 e alla preparazione della guerra, con una sorta di nuovo “fronte popolare” e decise di sciogliere in esso il CPUSA, trasformandolo in una “"Communist Political Association”, dalla cui denominazione era addirittura sparita ogni connotazione di partito. La trasformazione del partito in ‘associazione’ significava che i comunisti americani sarebbero stati una delle forze presenti nel ‘melting pot’ dell’esperienza ‘radical’ del “New Deal” e nel fronte antifascista americano (donde si può notare quanta fortuna abbia avuto, e abbia anche ai nostri giorni, il browderismo nella storia antica e recente della ‘sinistra’ nostrana). Narra Italo De Feo, al tempo segretario di Togliatti (cfr. Diario politico. 1943-1948, Rusconi, Milano 1973, pp. 114-116), che, quando i giornalisti americani chiesero al ‘leader’ italiano di commentare quella clamorosa decisione, egli rispose «che Browder era uno dei capi più autorevoli del comunismo internazionale» e che «gli sembrava che l’indirizzo adottato da Browder di piena collaborazione con l’amministrazione di Roosevelt corrispondesse agli interessi del suo paese e della causa della democrazia». Dopodiché, così Togliatti precisò il suo pensiero parlando con De Feo che l’accompagnava: «Riprese il discorso su Earl Browder e il comunismo americano, per dire che quegli era andato forse un po’ oltre nel ritenere che il capitalismo avesse perduto i suoi artigli; ma che nel sostenere che il partito comunista dovesse diventare un partito democratico come gli altri avesse ragione [e qui vien fatto di pensare al PD come esito finale di un processo trasformistico, spacciato come innovativo, che avrebbe compiuto, per gradi, un vero e proprio salto di qualità]... Le cellule e il resto, aggiunse, sono cose del passato... Ricordò che in questo spirito s’era sciolto il Komintern, che era stato l’organo più efficace del vecchio tipo di organizzazione». In realtà, mentre Stalin aveva disegnato una strategia geniale di utilizzazione delle contraddizioni fra i diversi capitalismi sia sul versante interno (approfondendo il conflitto tra la democrazia progressiva e lo Stato borghese) sia sul versante esterno (impedendo la saldatura tra paesi fascisti e paesi democratico-borghesi, che sarebbe stata esiziale per l’intero schieramento comunista internazionale), Togliatti ridusse quella strategia ad una politica di inserimento subalterno della classe operaia nelle strutture dello Stato borghese spacciandola, grazie anche all’uso del pensiero gramsciano in chiave revisionista, per una “trasformazione democratica e socialista” della società. Bisogna tenere presente, peraltro, che l’emergere delle tendenze revisioniste in quegli anni non fu un fenomeno soltanto italiano, ma internazionale, con precise radici di classe. Il browderismo era quindi il prodotto, in primo luogo, della formidabile pressione esercitata dall’imperialismo, in ispecie da quello statunitense, sulla classe operaia e sulle sue organizzazioni, e in secondo luogo dell’influenza delle concezioni borghesi e piccolo-borghesi nelle file dei partiti comunisti, concezioni non combattute e fatte passare da dirigenti che non avevano assimilato il marxismo-leninismo. In questo quadro spicca la debolezza ideologica e politica dei capi del PCI, le deviazioni dei quali sono note: basti ricordare la lunga storia di dissidi con il Komintern, culminata nello scioglimento del Comitato Centrale nel 1938. Ma vi è di più: nel 1947, quando si riunì in Polonia il Cominform, venne avanzata da Andrej Zdanov, a nome del PCUS, e dai dirigenti di altri partiti comunisti ed operai una dura critica al PCI (fra questi ultimi si distinse per ampiezza, radicalità ed asprezza quella del partito comunista jugoslavo). L’accusa non fu quella di aver compiuto la “svolta di Salerno”; fu invece il cretinismo parlamentare, il legalitarismo, lo sviluppo pacifico verso il socialismo, la subalternità del PCI nei confronti dell’ingerenza statunitense, l’essersi fatti estromettere dal governo (non di esservi entrati!), la mancanza di un piano offensivo, l’alleanza con la DC.
20 Cfr. R. Del Carria, op. cit., p. 335.
21Ivi, pp. 364-365.
22 M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino 1971, pp. 116-117. A volte la verità, che ha una sua sottile ironia, può manifestarsi nelle voci più avverse.
23 Nella Scienza della logica Hegel afferma quanto segue: «Questa realtà, che costituisce la possibilità di una cosa, non è quindi la sua propria possibilità, ma è l’essere di un altro reale…» (Cfr. G. F. W. Hegel, Scienza della logica, Laterza, Bari 1968, vol. II, p. 617). Per Hegel, quindi, la possibilità è sempre qualcosa di realmente esistente; essa è possibilità solo in relazione a un altro esistente, a una realtà che va trasformandosi. Il marxismo, sviluppando l’interconnessione dialettica della possibilità e della realtà e riconoscendo nelle categorie “forme d’esserci, determinazioni d’esistenza” (Marx, Introduzione del 1857), applica la categoria modale di ‘possibilità reale’, elaborata da Hegel, all’analisi delle (e all’intervento nelle) situazioni concrete. Come argomenta, richiamandosi alla teoria del processo rivoluzionario formulata da Lenin, il filosofo sovietico Alexander Sceptulin, autore di un testo importante del “Diamat”, La filosofia marxista-leninista (Edizioni Progress, Mosca 1977, p. 188), «la possibilità diventa realtà… solo in opportune condizioni. Ad esempio, la possibilità della rivoluzione socialista nei paesi capitalistici può trasformarsi in realtà solo nel caso di una crisi di tutta la nazione, di una situazione in cui non solo gli strati inferiori non vogliano vivere come per il passato, ma anche gli strati superiori non possano governare come per il passato, in cui si aggravino più del solito l’angustia e la miseria delle classi oppresse e si accresca la loro attività, e, infine, in cui la classe operaia sia capace di compiere “azioni rivoluzionarie di massa sufficientemente forti per poter spezzare (o almeno incrinare) il vecchio governo». Forse che la ‘possibilità reale’ qui esposta non corrispondeva alle situazioni analizzate nel presente scritto? Ma se essa sussisteva e corrispondeva, che cosa le ha impedito di diventare, per dirla con Hegel, “un altro reale”?
24 Per la tematizzazione del tempo e della causalità nella scienza contemporanea è particolarmente utile un testo di H. Reichenbach, The Direction of Time, Dover Books on Physics, Mineola (New York), pubblicato postumo nel 1956. Circa il problema filosofico dei margini di libertà che vanno riconosciuti, insieme con la correlativa responsabilità, ad un soggetto che interviene in una situazione data è famoso l’argomento di Aristotele sulla previsione della “battaglia navale”. Tale argomento è sviluppato da Aristotele nella sezione 9 di Perì hermeneìas (Sull’interpretazione) e muove dalla disgiunzione esclusiva, che è quasi una tautologia, in base alla quale, se affermo che è vero p o è vero non-p, allora ciò che affermo è vero indipendentemente dal fatto che la verità (o la falsità) sia attribuita a p o non-p. Questa tautologia trapassa in due princìpi logici: quello di bivalenza e quello del terzo escluso, che Aristotele cercò di tenere distinti allo scopo di salvaguardare la libertà umana. E infatti: se affermo che domani vi sarà o non vi sarà una battaglia navale, l’affermazione è certamente vera, e questo implica che uno dei due disgiunti è certamente vero. Gli Stoici, portando il ragionamento alle sue logiche conseguenze, ne concluderanno validamente che è già vero oggi ciò che accadrà domani (determinismo assoluto). La soluzione individuata da Aristotele per salvaguardare la libertà umana fu quella di negare che ogni enunciato debba essere necessariamente vero o falso (rifiutando la bivalenza), pur continuando a sostenere che non esiste una terza possibilità (riaffermando perciò il principio del terzo escluso).
25 Merita di essere citato l’epitaffio che Lenin consacrò alla Luxemburg:«Paul Levi vuole aggraziarsi la borghesia - e, conseguentemente, i suoi agenti, la II Internazionale e l’Internazionale due e mezzo - ripubblicando precisamente quegli scritti di Rosa Luxemburg in cui lei era in torto. Noi risponderemo a ciò citando due righe di un buon vecchio scrittore di favole russo: "le aquile possono saltuariamente volare più in basso delle galline, ma le galline non potranno mai salire alle altitudini delle aquile". Rosa Luxemburg sbagliò sulla questione dell’indipendenza della Polonia; sbagliò nel 1903 nella sua valutazione del menscevismo; sbagliò nella sua teoria dell’accumulazione del capitale; sbagliò nel luglio 1914, quando, con Plekhanov, Vandervelde, Kautsky ed altri, sostenne la causa dell'unità tra bolscevichi e menscevichi; sbagliò in ciò che scrisse dal carcere nel 1918 (corresse poi la maggior parte di questi errori tra la fine del 1918 e l’inizio del 1919, dopo esser stata rilasciata). Ma a dispetto dei suoi errori lei era - e per noi resta – un’aquila. E i comunisti di tutto il mondo si nutriranno non solo del suo ricordo, ma della sua biografia e di tutti i suoi scritti (nelle pubblicazioni disordinatamente aggiornate dai comunisti tedeschi, solo parzialmente scusabili dalle tremendi perdite subite durante la loro dura battaglia) serviranno da utili manuali nella formazione delle future generazioni di comunisti di tutto il mondo. "Dal 4 agosto 1914 la socialdemocrazia tedesca è stata un fetido cadavere" - questa dichiarazione renderà il nome di Rosa Luxemburg famoso nella storia del movimento proletario internazionale. E, certamente, risalterà nel movimento proletario, fra i mucchi di letame e le galline come Paul Levi, Scheidemann, Kautsky e tutta la confraternita di coloro che schiamazzeranno sugli errori commessi dai più grandi comunisti. A ognuno il suo» (Note di un pubblicista in V. I. Lenin, Opere complete, vol. XXXIII, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 189).

 

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Alfonso
Monday, 22 June 2020 07:38
Caro Eros, sagace riferimento al materialismo in storiografia. "Rumor has it" che gli storiografi parlano tra loro in tal guisa e vanno formando un consenso proprio (e forse solo) con argomenti controfattuali; eppure, "se l'agente A avesse compiuto il gesto A' invece del gesto A1, la Storia avrebbe seguito il corso T' " non viene accettato come prova. Ojalá, pero no. La crisi epistemologica, come tu dici, di lorsignori è profonda, l'uso dei controfattuali comporta rendere esplicito il modello, al quale sono pronti a sacrificare tutto (forse sperano di esser santificati come Bellarmino?). Quelli della rivoluzione causale esortano gli economisti a esplicitare i loro modelli, e quelli fanno letteralmente orecchie da mercante. Mi accodo alla tua esortazione a studiare gli esempi che porti, in particolare della Jugoslavia, e di Nagasaki, quest'ultimo non praticabile per interposta persona. Hay que d'ir y fijarse. Fa bene al cuore. Grazie
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Eros Barone
Monday, 22 June 2020 00:33
Caro Alfonso, rischiando, come tu dici, di “imboccarci in un rimpallo a due”, aggiungo solo questa considerazione. Il ragionamento controfattuale nella storiografia è stato pienamente legittimato, sul piano epistemologico e nel vivo delle sue ricerche, da Max Weber e praticato da grandi storici, quali Tucidide e Guicciardini (tanto per citare almeno questi). Va quindi chiarito che non può essere accettata l’idea secondo cui questo strumento epistemologico va scartato a causa dell’impossibilità di effettuare esperimenti di controllo. E ciò perché tale impossibilità colpisce anche vasti settori delle scienze naturali: non si può certo provare con un esperimento che cosa sarebbe accaduto, ad esempio, ‘se non’ ci fosse stata l’evoluzione delle specie. Né può essere condivisa la tesi metodologica che impone allo storico il divieto di ricorrere a tali forme di ragionamento sulla base dell’argomentazione secondo la quale il suo compito è quello di spiegare le cose accadute e non immaginare come le cose sarebbero potute andare. Contrariamente a quanto asserisce un vieto luogo comune, la storia si fa anche con i ‘se’ (ovviamente a certe condizioni che vanno precisate, come credo di aver fatto nel mio articolo).
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Alfonso
Sunday, 21 June 2020 20:43
Caro Eros, a rischio di imboccarci in un rimpallo a due, non riesco a tirarmi indietro (sic!). Ho visto la citazione da Reichenbech, e il rimando al tuo saggio sul sito, che devo leggere, e sono sicuro che dico cose scontate. Nel dibattito filosofico, almeno anglosassone, la definizione di Coyne del free will viene considerata come una aporia: la sua affermazione, che poggia su quello che Coyne ritiene common sense, che free will "di fronte a due o più alternative, è la tua capacità di sceglierne una liberamente e consapevolmente, sul posto o dopo qualche riflessione" [tradotta con Translate, ma rende l'idea]. Propone un test : "Un test pratico del free will sarebbe questo: se tu fossi messo nella stessa posizione due volte - se il nastro della tua vita potesse essere riavvolto nel momento esatto in cui hai preso una decisione, con ogni circostanza che porta a quel momento lo stesso e tutte le molecole nell'universo si allineavano allo stesso modo - avresti potuto scegliere diversamente" Questo test, che lo stesso Coyne ammette non possa essere portato a termine, viene rigettato da una scienza che accetta solo ipotesi empiricamente verificabili. Con i controfattuali, e sono con la rivoluzione causale in questo, la aporia viene risolta. La contraddizione porta una determinazione ulteriore. Ho l'impressione che ci troveremmo molto in sintonia (sic!) nell'affinare su possibile e necessario, ma non me la sento di sbomballare gli sfortunati lettori di queste righe con questa tematica. Grazie della pazienza
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Eros Barone
Sunday, 21 June 2020 16:14
Caro Alfonso, come sempre i tuoi commenti sono sagaci e profondi. Mi sembra che questo tuo commento vada nella direzione del determinismo (e la citazione del biologo statunitense Jerry Coyne, che è un determinista, sembra confermarlo) e neghi quindi il cardine concettuale della mia ricostruzione storico-politica, cioè la categoria di ‘possibilità reale’ e la conseguente alternativa, che in tale possibilità si radica, tra una scelta opportunista e una scelta rivoluzionaria. Tale alternativa, per quanto concerne il ruolo dei comunisti, è avvalorata in positivo dall’esempio e dall’esito della guerra di liberazione jugoslava, la maggiore e la più importante delle Resistenze armate che si sono sviluppate in Europa contro il nazifascismo, e in negativo dalla guerra di liberazione della Grecia, rispetto alla quale va detto, fra l’altro, che la solidarietà dei comunisti italiani (ma non di quelli jugoslavi) fu, sul piano ideologico e su quello pratico, se non inesistente, del tutto irrilevante. D’altronde, come ho sottolineato nel mio articolo, non esistono rivoluzioni munite di permesso (a parte le “rivoluzioni senza rivoluzione”)… Dal canto mio, ribadisco perciò, in opposizione ad un’interpretazione, per così dire, bronzea del determinismo, come quella esemplificata nel primo caso della combinatoria che ho esposto, che se non esistesse alcuna libertà di scelta (o i margini, per quanto ristretti, di tale libertà) perderebbe ogni senso, nell’ottica marxista, l’alternativa sopraindicata. E ai deterministi, che finiscono col giustificare tutto ciò che accade alla luce della proposizione secondo cui tutto quello che è, deve essere, e se non dovesse essere, non sarebbe, mi limito a rammentare il ragionamento di Ludwig Wittgenstein, secondo il quale, se anche noi non fossimo liberi, non potremmo saperlo. Infine, approfitto dell’occasione offerta dal tuo stimolante commento per proporre, in una chiave controfattuale ma quanto mai istruttiva, la seguente ipotesi: la bomba di Nagasaki, la seconda, non quella di Hiroshima, la prima, fu un crimine mostruoso, poiché trasformò in un solo forno crematorio la popolazione di un’area ad altissima densità demografica. Come è noto, a Norimberga non se ne parlò, non era il caso (“vae victis!”). Chissà oggi, dopo tanto tempo, che cosa direbbe il mondo se una bomba di quella potenza e con quell’effetto l’avesse sganciata, su Amburgo o su Monaco, un pilota sovietico il giorno prima della fine della guerra (prescindo ovviamente dal fatto che in quel periodo l’URSS non possedeva ancora l’arma termonucleare). Infine, è vero che la morte non è un’alternativa e che viviamo in un’‘epoca post-eroica’, ma a volte mi capita di pensare che dovrebbe essere messa nel conto da chi intende rovesciare, per dirla con Herbert Marcuse, quella "confortevole, levigata, ragionevole, democratica non libertà (che) prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico". Sennonché il ‘mix’ tra crisi economica, pandemia e contrasti interimperialisti, aggravando la crisi generale, proietta l’ombra sempre più oscura della reazione e del fascismo su quella “democratica non-libertà” e rende tanto necessaria quanto urgente la prospettiva della conquista di un ricambio organico equilibrato e sostenibile tra la società e la natura, così come, ad un altro livello ma nella stessa direzione, tra l’uomo e l’uomo.
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Alfonso
Sunday, 21 June 2020 09:31
Caro Eros, mentre continuo a leggere (a spizzichi e bocconi) questa tua interessantissima disamina, una battuta di Lenin che tu riporti "la storia ponga la questione nei riguardi della Germania" (non mi viene il corsivo, fondamentale) mi ha ricordato una aporia di Jerry Coyne riguardo il free will: di fronte a una alternativa secca tra due opzioni, l'approccio 'interpretativo' non funziona, ossia la scelta tra due opzioni che appaiono ugualmente possibili ma delle quali una opzione diviene preclusa non porta mai una possibile scelta. Portando la contraddizione al limite, la 'questione di vita o di morte' non riguarda mai una scelta. Insomma, si risolve nella pratica. La morte non è mai una alternativa. Grazie
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