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Fattori internazionali e nazionali nella fondazione del PCd’I

di Guido Ricci

Ordine Nuovo 1536x1536Il “fattore internazionale”, cioè l’insieme di eventi e relazioni internazionali che si sviluppano nel tempo, ha largamente influenzato il processo di raggruppamento delle tendenze comuniste all’interno del movimento operaio italiano, l’evoluzione della linea comunista e la formazione del Partito Comunista d’Italia. Un approccio che considerasse il processo che porta alla fondazione del PCdI o solo come prodotto dello sviluppo di condizioni interne, o solo come conseguenza di sollecitazioni e suggestioni esterne sarebbe parziale e sbagliato, poiché non terrebbe conto di come, tra le une e le altre, vi sia stato sempre un rapporto, praticamente indistricabile, di reciproca influenza e interazione che, solo, può farci capire la sintesi che storicamente ne è scaturita. Si tratta di un vastissimo argomento che non può certo esaurirsi in questo articolo. Ci limiteremo, quindi, ad esaminare solo gli aspetti più direttamente correlati alla formazione del PCdI nel periodo dalla I Guerra Mondiale alla scissione di Livorno (1914-1921), rimandando il seguito dell’analisi a un approfondimento successivo, con l’intento di stimolare la riflessione sulle importanti lezioni che ci giungono da quell’esperienza per trarne un insegnamento che possa essere valido e attuale anche oggi.

 

La guerra imperialista e la II Internazionale

Il 1914 segna la definitiva bancarotta politica della II Internazionale. La frattura, creatasi nel periodo precedente, tra revisionisti e riformisti, da un lato, “marxisti ortodossi” e marxisti rivoluzionari (questi ultimi talvolta confusi nell’area degli “ortodossi”), dall’altro, diventa definitiva e insanabile proprio in relazione al tema della guerra e dell’atteggiamento che i partiti operai nazionali devono assumere in relazione ad essa.

Le solenni, pressoché unanimi, risoluzioni di opposizione a qualsiasi guerra in quanto guerra tra capitalisti, approvate dal VII Congresso di Stoccarda nel 1907 e dal Congresso Straordinario di Basilea nel 1912, vengono ben presto disattese dalla maggioranza dei partiti aderenti alla II Internazionale, in particolare da francesi e tedeschi, quando si tratta di votare i crediti di guerra nei parlamenti dei rispettivi paesi. L’abbandono di questo principio fondamentale segna la fine politica della II Internazionale e della sua stessa ragion d’essere, sancendo il definitivo passaggio della maggioranza della socialdemocrazia al servizio delle rispettive borghesie nazionali su posizioni social-scioviniste. Con lo scoppio della I Guerra Mondiale, il IX Congresso, programmato per l’agosto del 1914, non sarà mai più tenuto.

Tra i partiti aderenti alla II Internazionale, non tutti si schierano al fianco della propria borghesia nazionale. Oltre al Partito Operaio Socialdemocratico Russo e a pochi altri, anche il Partito Socialista Italiano non vota i crediti di guerra, pervaso da forti sentimenti antibellici, maturati nell’intensa mobilitazione contro la guerra italo-turca in Libia (1911-1912), che lo preservano dal confondersi con i governi borghesi e dal cadere nel generale tradimento secondinternazionalista.

Da notare che, proprio a seguito del suo atteggiamento favorevole alla Guerra di Libia, al XIII Congresso di Reggio Emilia del 1912, viene espulsa dal Partito Socialista la corrente social-sciovinista facente capo a Ivanoe Bonomi e Leonida Bissolati, la quale, nel 1913 darà (breve) vita al Partito Socialista Riformista Italiano (PSRI). Al contrario, il PSI sarà uno dei principali promotori dei contatti e delle relazioni tra i partiti non compromessi dal sostegno alla carneficina imperialista, cosa che contribuirà in modo determinante alla possibilità di convocare la I Conferenza Internazionale Socialista a Zimmerwald (1915) e la II Conferenza Internazionale Socialista a Kienthal (1916) nel tentativo di individuare una comune linea di lotta contro la guerra. Dalle due conferenze emergerà con forza l’esigenza di costituire una nuova forma di coordinamento mondiale, politico e organizzativo, del proletariato.

Se l’iniziale neutralità dell’Italia aveva favorito l’unanime opposizione del PSI al conflitto in corso, la sua entrata in guerra al fianco dell’Intesa nel 1915, a seguito del Patto di Londra[1], palesa una crescente differenziazione di posizioni all’interno del PSI, che riflette le differenze di posizioni tra due tendenze generali che si manifestano a Zimmerwald e Kienthal, non solo riguardo alla guerra in sé, ma anche al suo possibile sbocco.

Una è la tendenza rivoluzionaria, quella della cosiddetta “sinistra di Zimmerwald”, che condivide la linea proposta da Lenin e dalla frazione bolscevica del POSDR di “trasformare la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria“, di passare dalla guerra tra nazioni alla guerra tra classi per la conquista del potere politico da parte del proletariato.

Una concezione estremamente lucida, che parte dalla considerazione, già di Von Klausewitz, che la guerra rivela uno stato di crisi e vulnerabilità del potere borghese nazionale, impossibilitato a continuare la propria politica senza ricorso alla violenza e alla guerra. Di questa temporanea debolezza il proletariato deve servirsi per i propri fini rivoluzionari.

In una guerra reazionaria, la classe rivoluzionaria non può che desiderare la sconfitta del proprio governo. Questo è un assioma che mettono in discussione solo i sostenitori coscienti o i servi impotenti dei social-sciovinisti. … Ai secondi appartengono Trotzky e Bukvoyed, Kautsky in Germania. Il desiderio che la Russia sia sconfitta – scrive Trotzky – non è altro che «una concessione irragionevole e ingiustificabile alla metodologia politica del social-patriottismo, che sostituisce la lotta rivoluzionaria contro la guerra e le condizioni che l’hanno generata con un orientamento, estremamente arbitrario nelle condizioni date, verso la linea del male minore» («Naše Slovo», № 105). Ecco un esempio delle frasi pompose con le quali Trotzky sempre giustifica l’opportunismo. «La lotta rivoluzionaria contro la guerra» è un’esclamazione vuota e priva di contenuto, di cui sono maestri gli eroi della II Internazionale, se per essa non si intendono azioni rivoluzionarie contro il proprio governo anche durante la guerra. … Ma le azioni rivoluzionarie contro il proprio governo durante la guerra, indubbiamente e indiscutibilmente, significano non solo desiderare la sua sconfitta, ma contribuire a questa sconfitta nei fatti. … La rivoluzione durante la guerra è guerra civile e la trasformazione della guerra tra governi in guerra civile da un lato è agevolata dagli insuccessi militari (dalla «sconfitta») dei governi, ma, dall’altro lato, è impossibile battersi concretamente per tale trasformazione senza con ciò stesso contribuire alla sconfitta[2].

Questa lunga citazione di Lenin rivela, tra l’altro, come anche il fronte della “sinistra” dei residui della II Internazionale non sia privo di influenze opportuniste, di cui Trotzky è un chiaro esempio e da cui anche il PSI è tutt’altro che immune.

Così continua Lenin:

La lotta di classe è impossibile senza colpire la «propria» borghesia e il «proprio» governo e, durante una guerra, colpire il «proprio» governo è tradire lo Stato, è cooperare alla sconfitta del proprio paese. Chi accetta la parola d’ordine «né vittoria, né sconfitta»…di fatto tradisce la politica proletaria indipendente, imponendo al proletariato di tutti i paesi belligeranti un compito perfettamente borghese: difendere dalla sconfitta i diversi governi imperialisti. L’unica politica di rottura non a parole della «pace civile», di riconoscimento della lotta di classe, è la politica per la quale il proletariato approfitta delle difficoltà del proprio governo e della propria borghesia per abbatterli[3].

Da qui una chiara consapevolezza che un’azione rivoluzionaria di questo tipo non può che essere considerata “tradimento” dal punto di vista della borghesia, ma anche che ciò non può e non deve intimidire l’agire politico del partito di classe.

Una lucidità analitica e propositiva che conserva tutt’oggi la sua piena validità, in condizioni di inasprimento delle contraddizioni interimperialistiche e di crescenti rischi di guerra, di fronte alle ambigue posizioni social-patriottiche di certe formazioni politiche della cosiddetta “sinistra radicale”.

L’altra tendenza che si manifesta a Zimmerwald e Kienthal è quella social-pacifista dei cosiddetti “centristi”, che rimanda la questione della presa del potere alla fine del conflitto, limitando la lotta alla semplice rivendicazione di una “pace equa, democratica e senza annessioni“, una posizione che Lenin critica aspramente sia riguardo al riferimento alla “non violenza” come valore fondativo dell’Internazionale (cosa non vera, se riferita all’insieme dei maggiori dirigenti della stessa e non solo ad una sua componente minoritaria), sia per la colpevole astrazione dalla realtà che tale parola d’ordine comporta. La conclusione di una guerra imperialista che ha per fine l’assoggettamento di popoli e territori non può che essere una pace che sancisce nuovi assoggettamenti e annessioni, quindi tutt’altro che equa e democratica. Lenin rileva acutamente come i social-pacifisti del “centro” tendano a denunciare assoggettamenti e annessioni da parte degli imperialismi concorrenti, mai quelli del proprio, venendosi così a trovare su una posizione di fatto complice del social-sciovinismo dei riformisti di destra. Anche su questo la posizione di Lenin, come sempre, è netta:

Una delle forme per ingannare la classe operaia è il pacifismo e la predicazione astratta della pace. Nel capitalismo, in particolare nel suo stadio imperialista, le guerre sono inevitabili. Dall’altro lato, i socialdemocratici[4] non possono negare la valenza positiva delle guerre rivoluzionarie, cioè non di quelle imperialiste, ma di quelle condotte … per l’abbattimento del giogo nazionale e la creazione di stati capitalistici nazionali dalle ceneri di quelli feudali e frammentati, oppure di quelle eventuali per la difesa delle conquiste del proletariato vincitore della lotta contro la borghesia. … Oggi, una propaganda della pace che non si accompagni ad un appello all’azione rivoluzionaria delle masse, serve solo a seminare illusioni, a pervertire il proletariato ispirandogli fiducia nell’umanità della borghesia e a renderlo un giocattolo nelle mani della diplomazia segreta degli stati belligeranti. In particolare, è profondamente sbagliata l’idea della possibilità di una cosiddetta pace democratica senza una serie di rivoluzioni[5].

La distinzione tra guerre giuste e ingiuste e la presa di distanza dall’ambiguo pacifismo, moralista e aclassista, dalla teoria della non-violenza, sono concetti che si ritrovano lungo tutta l’opera teorica e pratica di Lenin.

A Zimmerwald prevarrà la linea social-pacifista, mentre a Kienthal, solo un anno dopo, la linea leninista otterrà maggiore successo, insieme alla proposta, sempre di Lenin, di dichiarare morta la II Internazionale e di lavorare per la costituzione della III Internazionale. La delegazione italiana si divide: le tesi leniniane saranno condivise da Giacinto Menotti Serrati, massimalista, direttore de L’Avanti! e Angelica Balabanoff, mentre Giuseppe Modigliani, “centrista” vicino a Filippo Turati, Oddino Morgari – massimalista, vice-segretario e responsabile esteri del PSI – e Costantino Lazzari, segretario del PSI ed esponente della sinistra massimalista uscita vincitrice dal Congresso di Reggio Emilia del 1912, sostengono l’inconcludente posizione attendista, maggioritaria nel PSI, “né aderire, né sabotare“, del tutto simile a quella opportunista “né vittoria, né sconfitta” precedentemente citata.

La proposta di risoluzione, avanzata da Lenin alla Conferenza di Kienthal, esercita, dunque, una duplice influenza sulla polarizzazione interna al PSI. Se, da un lato, rivela una differenziazione di posizioni all’interno della stessa sinistra massimalista, dall’altro determina una forte demarcazione tra una parte di questa e i “centristi” in relazione alla guerra e ai suoi possibili sbocchi. Benché le componenti più autenticamente rivoluzionarie del PSI siano, tuttavia, ancora disaggregate e disperse all’interno della sua area massimalista, saranno proprio la guerra e le posizioni che Lenin e la “sinistra” di Zimmerwald assumono in relazione ad essa a determinare l’inizio del processo di distinzione e raggruppamento delle tendenze rivoluzionarie all’interno del partito. A dare un decisivo impulso a questo processo saranno altri due eventi internazionali epocali: la rivoluzione proletaria in Russia e la nascita della III Internazionale.

 

La Grande Rivoluzione Socialista d’Ottobre e la fondazione della III Internazionale

Il 7 novembre (25 ottobre, secondo il vecchio calendario ortodosso) 1917, le salve dei cannoni dell’incrociatore Aurora e l’assalto al Palazzo d’Inverno, sede del governo provvisorio, aprono una nuova era, nella quale le masse proletarie si affacciano vittoriosamente alla ribalta della storia.

L’esigenza di costruire una nuova organizzazione politica mondiale del proletariato a seguito del crack della II Internazionale, emersa a Zimmerwald e Kienthal, trova realizzazione pratica il 2 marzo 1919, quando a Mosca, tra mille difficoltà, mentre infuria la guerra civile e la giovane repubblica sovietica resiste strenuamente agli attacchi delle armate bianche e all’invasione da parte di ben 14 potenze straniere (unite, dopo la carneficina della I Guerra Mondiale, nella santa crociata per schiacciare il bolscevismo), si tiene il Congresso fondativo della III Internazionale, l’Internazionale Comunista o Komintern. Il coordinamento internazionale della “sinistra di Zimmerwald” viene sciolto in quanto superato dai fatti, dal momento che quanto di rivoluzionario vi era in esso viene assorbito dall’Internazionale Comunista. La necessità di cambiare la denominazione della nuova Internazionale e dei partiti che ne faranno parte e, quindi, di abbandonare definitivamente il termine “socialdemocrazia”, matura in Lenin nel periodo tra il 1917 e il 1918, per segnare il definitivo distacco, anche in termini, sia dal socialismo riformista e opportunista, compromesso e screditato dal sostegno alla guerra imperialista, sia dal concetto di democrazia parlamentare borghese a cui esso faceva riferimento, ripristinando così il termine “comunista”, originariamente usato da Marx ed Engels, che porta in sé la concezione di una democrazia, sostanziale e non formale, di tipo nuovo.

Il I Congresso dell’Internazionale approva senza modifiche le tesi di Lenin, la piattaforma programmatica redatta da Bukharin, il Manifesto al proletariato mondiale e, insieme ad altre, la Risoluzione Costitutiva. Le linee guida sono delineate con chiarezza: 1) lotta per la conquista del potere politico, 2) instaurazione della dittatura proletaria, 3) esproprio dei capitalisti e socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio, 4) lotta all’opportunismo e al riformismo, che cercano di rinascere con l’Internazionale di Berna[6], 5) resistenza ai tentativi dell’alleanza di stati capitalistici di soffocare la rivoluzione, 6) liberazione dei popoli dal giogo coloniale, 7) subordinazione dei cosiddetti “interessi nazionali” agli interessi della rivoluzione mondiale, 8) creazione di forme di mutuo soccorso internazionale proletario. Il I Congresso stabilisce anche l’istituzione di un Comitato Esecutivo (CEIC), incaricato della gestione degli affari dell’Internazionale, del quale fanno parte cinque rappresentanti del PCR(b)[7] e un rappresentante per ciascun partito aderente. A sua volta, il CEIC elegge al proprio interno un Bureau di cinque persone.

Il partito mondiale del proletariato è costituito e le sue decisioni, in base al principio del centralismo democratico, sono vincolanti per tutte le sezioni nazionali aderenti, tenute a sottomettervisi.

Nell’Italia ancora in guerra si sa molto poco degli accadimenti in Russia e la stampa borghese tende a presentarli come una rivolta di marinai ubriachi. Nonostante la sorveglianza della polizia, il 18 novembre 1917, si tiene a Firenze una riunione clandestina dei principali esponenti della corrente massimalista, o “intransigente-rivoluzionaria”, del PSI. Sono presenti tra gli altri, oltre a Lazzari e Serrati per la direzione del partito, Amadeo Bordiga, Bruno Fortichiari, Giovanni Germanetto, Rita Maierotti, Nicola Bombacci, Ferdinando Garosi e un ancora poco conosciuto Antonio Gramsci. Tra questi, la figura che ha indiscutibilmente il maggiore ascendente è Bordiga. Dopo avere analizzato la situazione italiana, lo stato di disastro militare ed economico in cui versa il paese, Bordiga pone in modo diretto la necessità di superare la formula centrista “né aderire, né sabotare” e di agire per la presa del potere da parte di un proletariato, certamente provato dalla guerra dalla fame, ma armato. In queste sue affermazioni è sostenuto da Gramsci, mentre Lazzari, Serrati e la maggioranza dei presenti preferiscono il mantenimento della vecchia tattica. La riunione non approda a nulla, se non ad una più radicale interpretazione del concetto di “non adesione” – in cui si fa strada ciò che la borghesia bollerà come disfattismo, cioè la volontà, di matrice leninista, di contribuire attivamente alla sconfitta militare della propria borghesia – e ad una condanna della tendenza del gruppo parlamentare a fare concessioni allo Stato borghese su questo terreno, ma ha il merito di fornire alla sinistra degli “intransigenti” la prima occasione per delineare le linee di massima della propria piattaforma politica e organizzativa.

La suggestione e l’afflato solidaristico che la Rivoluzione d’Ottobre suscita è enorme, nella maggioranza del PSI, come nelle masse lavoratrici. Lenin, la Rivoluzione e i destini della neonata Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa sono i veri protagonisti del XV° Congresso socialista, tenutosi a Roma nel settembre del 1918.

Ad eccezione della minoranza dei riformisti di sinistra che fa capo a Filippo Turati e predice una rapida e triste fine di quell’esperienza, il congresso è pressoché unanime nel votare la mozione di solidarietà alla Russia Sovietica e di impegno ad approfittare di ogni occasione di debolezza della borghesia per sollevare e guidare le masse, proposta dalla frazione “intransigente-rivoluzionaria” e approvata dal 70% dei delegati.

Il clima di entusiasmo è tale da stemperare temporaneamente il processo di distinzione della parte più coerentemente rivoluzionaria della frazione in un massimalismo generico, che ancora accomuna esponenti assai diversi tra loro per orientamento e posizioni. Vi è, tuttavia, in Gramsci, la consapevolezza che la via da imboccare è quella aperta dalla Rivoluzione d’Ottobre: “Il bolscevismo è un fenomeno storico di immensa portata, non è opera di utopisti, ma di avanguardie consapevoli e di masse che si muovono sulla via giusta, l’unica strada giusta[8]. In questa sua affermazione traspare già l’importanza centrale che Gramsci, in sintonia con Lenin, attribuisce al legame tra avanguardia e masse, un argomento che Lenin e il Komintern useranno ampiamente nella critica di alcune posizioni estremiste di Bordiga, Terracini e dei “comunisti di sinistra”.

 

La situazione in Italia nel 1919

Il 1919 per l’Italia è un anno cruciale sotto molti aspetti. L’Italia è uscita dalla guerra formalmente vincitrice, più per accordi diplomatici che per virtù militari, ma il paese è prostrato dalla crisi economica postbellica. Il malcontento è generale e provoca fortissime tensioni sociali nel proletariato e, con segno opposto, nella piccola-borghesia. Sfruttando i timori e il malessere della piccola borghesia e il reducismo, il 23 marzo Mussolini fonda a Milano il Movimento dei Fasci Italiani di Combattimento. La conflittualità è molto alta. Scioperi e agitazioni si susseguono; inizialmente diretti in modo generico contro l’aumento dei prezzi dei generi alimentari, incominciano gradualmente ad avanzare rivendicazioni più precise, per la giornata lavorativa di otto ore e per aumenti salariali e sempre più spesso assumono, più spontaneamente che non in conseguenza di una precisa agitazione in tal senso dei vertici della CGL e del PSI, un carattere marcatamente politico, che esprime solidarietà alla Russia Sovietica e la volontà di seguirne l’esempio.

Il governo del primo ministro Saverio Nitti dà disposizione ai prefetti del Regno di tollerare le manifestazioni a carattere economico, ma di reprimere con fermezza qualsiasi sciopero politico.

Di fronte all’imponente protesta operaia e popolare, gli industriali concedono quasi immediatamente la riduzione dell’orario di lavoro a otto ore giornaliere. Il successo contribuisce a fare alzare il livello dello scontro e a consolidare la convinzione, in larga parte del PSI, che il paese sia entrato in una fase rivoluzionaria. Il 20-21 luglio dello stesso anno viene indetto uno sciopero generale di solidarietà con la Russia Sovietica, contro l’intervento militare dell’Intesa e dei suoi alleati, che coinvolge pressoché tutte le categorie di lavoratori, compresi i dipendenti dello stato. La sinistra interna al Partito Socialista e gli anarchici spingono per uno sciopero ad oltranza con carattere insurrezionale, ma i vertici moderati della CGL impongono l’osservanza della legalità, negando qualsiasi sviluppo rivoluzionario dello sciopero e rifiutandosi di proclamarne la durata a oltranza, fornendo uno dei più lampanti esempi di collaborazione della dirigenza sindacale con lo stato e il governo borghesi, in ottemperanza alle direttive del primo ministro Nitti.

La linea del governo è chiara: favorire la collaborazione dei “partiti d’ordine” (tra i quali include i riformisti del PSI e della CGL), reprimere gli “elementi sovversivi”, utilizzare, nell’opera di repressione, milizie paramilitari private, come i neocostituiti fascisti.

Mentre agrari e industriali aumentano il sostegno al neonato movimento fascista, che utilizzano contro il movimento operaio e contadino con la complicità del governo e della corona, anche la Chiesa si mobilita per frenare la diffusione delle idee socialiste tra gli strati popolari. Il non expedit (non è conveniente), espresso da Pio IX nel 1874, chiarito nelle sue implicazioni e promulgato dal Sant’Uffizio sotto il pontificato di Leone XIII nel 1886 (non expedit prohibitionem importat, la non convenienza comporta il divieto), che vietava la partecipazione dei cattolici alla vita politica italiana come reazione alla fine della sovranità temporale del papa attuata con l’unificazione del paese nel Regno d’Italia, viene abrogato da papa Benedetto XV nel 1919. Nello stesso anno, il prete Luigi Sturzo, insieme ad altri intellettuali cattolici, fonda il Partito Popolare Italiano, di ispirazione cattolica e vocazione interclassista, che si rifà alla dottrina sociale della Chiesa, segnando così il ritorno dei cattolici alla vita politica attiva. Gramsci capisce con chiarezza il ruolo del nuovo partito: «Il cattolicismo entra così in concorrenza, non già col liberalismo, non già con lo Stato laico; esso entra in concorrenza col socialismo, esso si pone sullo stesso terreno del socialismo, si rivolge alle masse come il socialismo»[9].

Sempre nel 1919, il PSI riporta un’importante vittoria alle elezioni di novembre, le prime con sistema proporzionale nella storia italiana, diventando il primo partito del regno, con il 32,28% dei voti e 156 deputati.

Al XVI° Congresso (Bologna, 5-8 ottobre 1919), il Partito Socialista vota l’adesione alla Terza Internazionale, ma continua a mantenere artificialmente insieme tutte le correnti interne, il che di fatto impedisce l’adozione di una chiara e definita linea d’azione. Al congresso si scontrano quattro mozioni: quella dei massimalisti di Giacinto Menotti Serrati pone l’obiettivo della repubblica socialista su modello sovietico e, con innegabile meccanicismo deterministico, sostiene l’ineluttabilità di uno sbocco socialista senza, però, escludere la partecipazione alle elezioni; anche la mozione di Costantino Lazzari pone lo stesso obiettivo, ma ritiene che l’azione debba limitarsi alle forme di lotta legali; i riformisti di sinistra di Filippo Turati, la destra del partito, invece, non condividono l’applicabilità all’Italia della tattica bolscevica e non credono in uno sbocco rivoluzionario della crisi in atto, per cui la lotta deve limitarsi a rivendicare migliori condizioni retributive, di vita e di lavoro, mentre il socialismo resta un obiettivo finale, ma lontano, da perseguirsi attraverso il progressivo insediamento nello stato e nelle istituzioni borghesi con una tattica elettorale e parlamentare (non a caso, questa corrente è minoritaria nel partito, ma è maggioritaria tra i suoi membri parlamentari e amministratori pubblici locali); infine, la mozione di Amadeo Bordiga, leader dei comunisti astensionisti, che pure sostiene l’instaurazione della repubblica socialista sovietica ma, in polemica con i massimalisti, non ritiene ineluttabile uno sbocco socialista, bensì raggiungibile solo attraverso un’attiva azione rivoluzionaria, che esclude qualsiasi partecipazione alle elezioni e alla democrazia borghese. Inoltre, unica tra le mozioni, chiede l’espulsione dei riformisti e propone di cambiare il nome del partito in Partito Comunista.

Dopo tre giorni di dibattito, soprattutto sulla questione dell’atteggiamento nei confronti della destra del partito, prevale a larga maggioranza la mozione di Serrati, che esclude la rottura con i riformisti.

La sua maggiore preoccupazione è la conservazione dell’unità formale del partito più per non perdere la pletora di parlamentari, amministratori locali, dirigenti sindacali della CGL e delle cooperative, in larga parte riformisti, che non per assicurare un’adeguata massa critica e forza d’urto al partito in una fase di espansione delle lotte proletarie, considerata prerivoluzionaria dall’Internazionale e da lui stesso.

L’interlocuzione tra il PSI e la III Internazionale verte principalmente, in questo periodo, sui rapporti col riformismo. Lenin e il Komintern, così come la componente intransigente-rivoluzionaria del PSI, insistono per l’espulsione dei riformisti di sinistra facenti capo a Filippo Turati e per una definitiva rottura con l’opportunismo di matrice secondinternazionalista, che ancora ha una sua rappresentanza all’interno del partito. Questa linea si basa sulla constatazione che l’ondata rivoluzionaria si sta espandendo oltre i confini della Russia in paesi come la Germania, l’Ungheria, la Polonia, l’Italia.

Vi è una generale convinzione che la rivoluzione stia assumendo un carattere mondiale ormai inarrestabile. In quest’ottica diventa, perciò, necessario che i partiti operai escludano dalle proprie file gli opportunisti e i riformisti, che disorientano il proletariato e impediscono che la lotta giunga alle sue estreme conseguenze, agendo come veri e propri “sabotatori” della rivoluzione, come dimostra il comportamento degli opportunisti in Germania e Ungheria.

Le indicazioni di Lenin su ciò che si deve fare sono chiare:

… in primo luogo, condurre tutta la propaganda e l’agitazione dal punto di vista della rivoluzione, in contrapposizione alle riforme … Non rifiutare mai (salvo casi particolari, come deroga) di usare il parlamentarismo e tutte le “libertà” della democrazia borghese, non rifiutare le riforme, ma considerarle solo come un sottoprodotto della lotta di classe rivoluzionaria del proletariato. … In secondo luogo, è necessario combinare lavoro legale e illegale. … Non c’è un solo paese al mondo, neppure la più avanzata e la più “libera” delle repubbliche borghesi, dove non regni il terrore della borghesia, dove non sia vietata la libertà di agitazione per la rivoluzione socialista, la propaganda e il lavoro organizzativo in questa precisa direzione. Un partito, che anche ora non riconosce questo dato di fatto in condizioni di dominio della borghesia e non svolge un lavoro illegale sistematico e globale, contro le leggi della borghesia e dei parlamenti borghesi, è un partito di traditori e mascalzoni che inganna il popolo con un riconoscimento a parole della rivoluzione. Il posto di tali partiti è l’Internazionale gialla di Berna. Nell’Internazionale Comunista non ci saranno. … In terzo luogo, è necessaria una guerra implacabile e spietata per la completa espulsione dal movimento operaio di quei dirigenti opportunisti che si sono insediati sia prima della guerra, sia soprattutto durante la guerra, sia nel campo della politica che, in particolar modo, nei sindacati e nelle cooperative. ...”[10].

Occupare tutti gli spazi “democratici”, forzarne i limiti sviluppando l’attività rivoluzionaria illegale, separarsi in modo netto dagli opportunisti: sono questi i principali indirizzi che i partiti che vogliono aderire al Komintern devono fare propri e che saranno sviluppati nel II Congresso mondiale dell’Internazionale nei famosi 21 punti.

La polemica con Serrati e la maggioranza massimalista del PSI si incentra, quindi, principalmente sulla permanenza nelle sue file della frazione riformista turatiana, dal momento che, formalmente, il partito aderisce al Komintern, la maggioranza ne condivide le linee generali e Giacinto Menotti Serrati il 1° ottobre 1919 addirittura fonda la rivista bimensile “Comunismo” col sottotitolo “Rivista della III Internazionale”, sulla quale pubblica i documenti principali del I Congresso e gli interventi di Lenin e dei maggiori dirigenti dell’Internazionale.

 

“Il Soviet” e “L’Ordine Nuovo” durante il Biennio Rosso italiano 1919-1920.

Nel dicembre 1918 Amadeo Bordiga fonda a Napoli il settimanale “Il Soviet”, che diventerà punto di riferimento di operai e giovani socialisti “intransigenti” ben al di là dei confini regionali. Bordiga, a cui Gramsci, a lui legato da una profonda amicizia che resisterà alle future divergenze politiche, riconosce grandi capacità intellettuali e organizzative, forza di volontà e tenacia, è indubbiamente la personalità di maggiore spicco nell’ambito dell’ala rivoluzionaria del PSI. Il suo carisma si estende, almeno in un primo momento, anche allo stesso Gramsci e al gruppo riunito a Torino intorno a “L’Ordine Nuovo”, che si definisce “rassegna settimanale di cultura socialista”, fondato da Antonio Gramsci, Angelo Tasca, Palmiro Togliatti e Umberto Terracini il 1° maggio del 1919. I due settimanali, sia pure nelle sostanziali differenze di approcci tattici e, in alcuni casi, di visioni strategiche, contribuiranno in modo determinante al processo di unificazione dei rivoluzionari all’interno del PSI che darà vita al PCdI.

I “comunisti astensionisti” si costituiscono ufficialmente in frazione subito dopo il XVI° Congresso del PSI, raggruppandosi intorno alla rivista “Il Soviet”, che ora reca il sottotitolo “organo della frazione comunista astensionista del PSI”, con l’intento dichiarato di attuare una scissione non solo dai riformisti turatiani, ma anche dal centrismo massimalista che fa capo a Serrati, per costituire “un partito puramente comunista”. La frazione ricerca immediatamente un contatto diretto con la III Internazionale inviando una lettera al CEIC, nella quale, oltre ad esporre le motivazioni dell’astensionismo come momento di totale rottura con le istituzioni borghesi, delinea la scissione e rivendica la propria unicità come raggruppamento veramente comunista in Italia, marcando le differenze con le altre formazioni socialiste di sinistra. Ne emerge una visione settaria che respinge qualsiasi collaborazione con le componenti non comuniste del movimento operaio e una contrarietà alla tattica del gruppo ordinovista torinese, incentrata sullo sviluppo dell’istituto del Consiglio di Fabbrica e del sistema dei commissari di reparto. In essa Bordiga vede il rischio di un possibile slittamento su posizioni sindacaliste e riformiste che farebbe venire meno la funzione politica dei Consigli e le contrappone una tattica basata sullo sviluppo di “Soviet municipali elettivi”, a carattere territoriale. Costituzione del partito e conquista del potere sono gli obiettivi che Bordiga fissa rigidamente, senza però chiarire come raggiungerli. La questione della conquista della maggioranza del proletariato e della costruzione del necessario legame organico con la classe restano fuori dal suo schema.

Sono temi che, invece, rivestono importanza cruciale per Lenin e l’Internazionale Comunista, con la quale, nelle tesi bordighiste, l’unico punto in comune è la contrapposizione del soviet, che esprime il potere operaio, ai meccanismi e agli istituti della democrazia borghese. Come detto, Bordiga non specifica, tuttavia, “come” costruire i soviet: con un’impostazione in cui la tensione finalistica oscura il percorso tattico da seguire, ben diversa da quella di Lenin, egli trascura e prescinde da qualsiasi seria analisi della situazione politica ed economica generale.

L’enunciazione quasi ossessiva dell’obiettivo, in funzione della lotta interna al partito, è altrettanto sterile quanto il rivoluzionarismo verbale massimalista, dal momento che si accompagna ad una sostanziale inazione pratica nel perseguire l’obiettivo annunciato. Nulla, ad esempio, viene fatto per creare i Consigli elettivi territoriali.

Con schematica precisione, invece, i termini temporali della scissione vengono programmati in relazione alle elezioni amministrative di luglio (poi rinviate a novembre). Al convegno dell’opposizione interna socialista di Firenze dell’8 maggio 1920, l’Internazionale Comunista invia un messaggio in cui, invece, esorta a mantenere unite le componenti rivoluzionarie del PSI senza far pesare la discriminante astensionista e a rallentare i tempi della scissione, in modo da conquistare all’IC e al futuro partito comunista tutte le forze sane e più rivoluzionarie del proletariato italiano.

Da segnalare la posizione della gioventù socialista, in larghissima parte conquistata dalle posizioni di Bordiga in forza di un afflato rivoluzionario, antiparlamentare e terzinternazionalista già in precedenza radicatosi nell’organizzazione giovanile anche per motivi di carattere generazionale.

Nell’estate del 1920, una parte consistente della FGSI promuoverà un’azione per la sua trasformazione immediata in Federazione Giovanile Comunista Astensionista e il suo ritiro dal PSI. La FGSI presenta, tuttavia, una minore rigidità rispetto a Bordiga, dal momento che il giornale “L’Avanguardia” fa circolare tra i giovani sia materiali de “Il Soviet”, sia le posizioni de “L’Ordine Nuovo” e del movimento torinese dei Consigli, spesso facendole proprie e diventando il luogo di un intenso dibattito.

Se la primogenitura nel processo di formazione del Partito Comunista d’Italia spetta a Bordiga e ai comunisti astensionisti, un ruolo via via crescente vi assumerà la seconda grande componente, quella degli intellettuali e degli operai, riuniti a Torino intorno a “L’Ordine Nuovo”. L’approccio del periodico non è astratto come quello de “Il Soviet”, ma è profondamente intriso di una concretezza derivante dallo stretto rapporto con la classe operaia torinese e con la realtà della lotta di classe, che ne modifica l’iniziale impostazione intellettualistica e antologica, voluta da Angelo Tasca, di « rassegna di cultura astratta, di informazione astratta…, il prodotto di un mediocre intellettualismo, che (disordinatamente) cercava un approdo reale e una via per l’azione»[11], trasformandolo in uno strumento di analisi teorica e organizzazione pratica della lotta di classe che trova il proprio fulcro nel concetto, centrale in tutta l’elaborazione gramsciana, del Consiglio di Fabbrica, come risultato della trasformazione della vecchia Commissione Interna in un organismo di autogoverno operaio che costituisca il nucleo istituzionale di base del futuro stato socialista a partire dall’unità produttiva. È un concetto teorico che corrisponde ad una prassi, purtroppo limitata quasi solamente alla classe operaia torinese, improntata al più sincero antisettarismo e rivolta alle masse del movimento reale nel senso più largo del termine, che vuole coinvolgere tutti i lavoratori, sindacalmente organizzati o non organizzati, socialisti o anarchici (anche se L’Ordine Nuovo non ha nessuna simpatia, né fa nessuna concessione all’anarchismo sul piano dei principi), nella costruzione di questo organismo del potere proletario e nell’impegno rivoluzionario.

«Il problema dello sviluppo della Commissione Interna divenne problema centrale, divenne l’idea dell’Ordine Nuovo; esso era posto come problema fondamentale della rivoluzione operaia; era il problema della libertà proletaria. L’Ordine Nuovo divenne, per noi e per quanti ci seguivano, il giornale dei Consigli di Fabbrica»[12].

La rivista torinese diventa così l’organo di direzione, politica e organizzativa, del movimento dei Consigli e delle lotte nelle fabbriche torinesi. L’attenzione è concentrata sul conflitto di classe e sull’allargamento della sua base con il coinvolgimento dei contadini poveri e dei reduci di guerra. Sono posizioni estremamente vicine, per non dire coincidenti, con quelle di Lenin, soprattutto per quanto riguarda il carattere di massa della rivoluzione e le alleanze sociali della classe operaia, che porteranno Gramsci ad avviare contatti e intraprendere azioni propagandistiche anche nell’esercito regio e tra gli ex-legionari dannunziani. Non c’è, invece, grande interesse per le diatribe tra le correnti interne al partito.

Nel PSI la posizione ordinovista è invisa un po’ a tutte le componenti. I riformisti la criticano perché vedono in essa un revival dell’anarco-sindacalismo, i massimalisti di Serrati perché ritengono improponibile il coinvolgimento dei lavoratori non organizzati alla pari con quelli organizzati, Bordiga perché ritiene che l’idea stessa dei consigli di fabbrica, così come concepita da Gramsci e da “L’Ordine Nuovo”, presenti il rischio di degenerazioni corporative e di offuscamento dell’obiettivo della presa del potere politico.

Questa generale ostilità è una delle cause della scarsa diffusione del movimento consiliare al di fuori dell’area industriale torinese, del suo isolamento e della sconfitta delle sue lotte.

Non è compito di questo articolo l’esposizione cronologica delle vicende del Biennio Rosso, tuttavia serve analizzarne la conclusione per le conseguenze che essa avrà sia sull’accelerazione del processo costitutivo del PCdI, sia sull’evoluzione delle posizioni della III Internazionale.

Durante il biennio 1919-1920, il Partito Socialista si dimostra incapace di elaborare una tattica efficace che sia in grado di combinare con successo, secondo le indicazioni di Lenin e Gramsci, il successo elettorale con la dilagante, radicale protesta operaia e popolare per guidarla ad uno sbocco rivoluzionario. La maggioranza massimalista si produce in un rivoluzionarismo parolaio, inneggiante alla Rivoluzione d’Ottobre e alla conquista violenta del potere, ma è totalmente priva di linee tattiche e di visione strategica e non è in grado di coordinare le lotte, lasciando sostanzialmente scollegati e isolati i più importanti focolai del conflitto di classe. L’insurrezione, predicata a parole, non è supportata da un’adeguata organizzazione militare, i reparti di Guardie Rosse, costituiti durante il periodo di occupazione delle fabbriche, sono male e poco armati, impreparati a questa forma di lotta e privi di una direzione militarmente competente.

La minoranza riformista, che controlla la dirigenza della CGL, quella delle cooperative e il gruppo parlamentare, è ostile a qualsiasi azione rivoluzionaria, collabora apertamente col governo borghese e il nemico di classe, frena e boicotta le lotte.

Le strutture organizzative del PSI, benché territorialmente diffuse, si rivelano essere idonee alla sola attività legale, mentre sono incapaci, né vogliono gestire la lotta armata. Il Partito Socialista ne risulta praticamente paralizzato, oscillando tra la predica sterile della rivoluzione a parole della sua maggioranza e la pratica esiziale della collaborazione di classe e del “cretinismo parlamentare”[13] della sua minoranza, mentre, invece, il nemico di classe, gli industriali e gli agrari, che percepiscono chiaramente la debolezza dell’avversario e possono contare sulla forza dello Stato, sul terrorismo fascista e sulla collaborazione dei riformisti e dei vertici sindacali, sono compatti e non solo decisi a non cedere, ma vogliono una resa dei conti che chiuda definitivamente ogni ipotesi di riscossa proletaria. Anche se si combatte sul terreno sindacale, la battaglia in realtà è tutta politica.

Nella riunione del Consiglio Nazionale del PSI, che si tiene a Milano il 20 e 21 aprile, la classe operaia torinese viene, di fatto, tradita e abbandonata a sé stessa dai suoi dirigenti nazionali in quella che Gramsci definirà “scissione d’aprile” e, fatto salvo l’impegno del gruppo ordinovista, neppure la frazione comunista astensionista fa granché per sostenerla, vuoi per fragilità organizzativa, vuoi per avversione alla concezione teorica dei consigli di fabbrica. La Direzione della CGL è contraria all’estensione della lotta e considera il comportamento dei torinesi come un atto di insubordinazione disciplinare. La maggioranza massimalista temporeggia, agitando frasi roboanti sulla “preparazione della forza armata proletaria” in attesa di un’occasione migliore. Gli stessi ordinovisti sono divisi: Tasca è per lo sciopero generale, Terracini per la preparazione di una situazione insurrezionale, ma, alla fine, confluiscono entrambi nella mozione di maggioranza per timore di una prematura rottura irreparabile; Misiano ( vicino a Bordiga ma non-astensionista) presenta un ordine del giorno di minoranza, che esorta ad abbandonare ogni preoccupazione di mantenere l’unità, dal quale, però, i comunisti ritirano la firma all’ultimo momento; Bordiga e i suoi si astengono.

La grande ondata di scioperi a Torino e in Piemonte si conclude così con una sconfitta sotto la minaccia d’intervento di 50.000 soldati, inviati ad affiancare Guardia Regia, Carabinieri e Polizia per reprimere le agitazioni.

Gramsci, che incomincia a rendersi conto del fatto che l’iniziativa, che nel 1919 apparteneva alla classe operaia, è ormai passata al nemico di classe, commenta così l’insuccesso:

«La classe operaia torinese è stata sconfitta e non poteva che essere sconfitta. La classe operaia torinese è stata trascinata nella lotta; essa non aveva libertà di scelta, non poteva rimandare il giorno del conflitto perché l’iniziativa della guerra delle classi appartiene ancora ai capitalisti e al potere dello Stato borghese … La vasta offensiva capitalistica fu minuziosamente preparata senza che lo “stato maggiore” della classe operaia organizzata se ne accorgesse, se ne preoccupasse: e questa assenza delle centrali dell’organizzazione divenne una condizione della lotta, un’arma tremenda in mano agli industriali e al potere di Stato, una fonte di debolezza per i dirigenti locali della sezione metallurgica. Gli industriali condussero l’azione con estrema abilità. Gli industriali sono divisi tra loro per il profitto, sono divisi tra loro per la concorrenza economica e politica, ma di fronte alla classe operaia essi sono un blocco d’acciaio …»[14].

È una constatazione fredda, che non si abbandona a emozioni pessimistiche. L’iniziativa è passata di mano, ma l’idea di un possibile riflusso, di un logoramento della conflittualità degli operai torinesi è del tutto assente e comparirà in Gramsci solo successivamente. Al contrario, il seguito dello stesso articolo è un manifesto di lotta e di impegno politico:

«La classe operaia torinese ha già dimostrato di non essere uscita dalla lotta con la volontà spezzata, con la coscienza disfatta. Continuerà nella lotta: su due fronti. Lotta per la conquista del potere di Stato e del potere industriale; lotta per la conquista delle organizzazioni sindacali e per l’unità proletaria… Bisogna coordinare Torino con le forze sindacali rivoluzionarie di tutta Italia, per impostare un piano organico di rinnovazione dell’apparato sindacale che permetta alla volontà delle masse di esprimersi e spinga i sindacati nel campo di lotta della III Internazionale Comunista»[15].

Se questi sono i termini con cui Gramsci si riferisce alla classe operaia torinese, in rapporto al proletariato italiano nel suo complesso svolge ben altre riflessioni, sottolineando

“la mancanza di coesione rivoluzionaria dell’intero proletariato, che non riesce a esprimere dal suo seno, organicamente e disciplinatamente, una gerarchia sindacale che sia un riflesso dei suoi interessi e del suo spirito rivoluzionario. … È certo, insomma, che la classe operaia torinese è stata sconfitta perché in Italia non esistono, non sono ancora maturate le condizioni necessarie e sufficienti per un organico e disciplinato movimento di insieme della classe operaia e contadina[16].

Un movimento di questo tipo va costruito con un lavoro politico di lunga lena, ma i tempi dell’offensiva del nemico di classe non aspettano e impongono di fare presto. Gramsci vede nel partito di tipo leninista, disciplinato e coeso, inquadrato nell’Internazionale Comunista, in stretto rapporto dialettico con la classe e il movimento che essa esprime, lo strumento per raccogliere le forze proletarie e avanzare verso la rivoluzione o fare fronte alla reazione. Pur condividendo la generale convinzione che la fase rivoluzionaria continui, Gramsci è cosciente della contraddizione che si sta aprendo:

La fase attuale della lotta di classe in Italia è la fase che prevede: o la conquista del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario per il passaggio a nuovi modi di produzione e di distribuzione che permettano una ripresa della produttività; o una tremenda reazione da parte della classe proprietaria e della casta governativa. Nessuna violenza sarà trascurata per soggiogare il proletariato industriale e agricolo a un lavoro servile: si cercherà di spezzare inesorabilmente gli organismi di lotta politica della classe operaia (Partito socialista) e di incorporare gli organismi di resistenza economica (i sindacati e le cooperative) negli ingranaggi dello Stato borghese[17].

Più oltre, Gramsci rileva anche lo scarso impegno internazionale e internazionalista del PSI:

Il Partito è stato assente dal movimento internazionale. La lotta di classe va assumendo in tutti i paesi del mondo forme gigantesche; i proletari sono spinti da per tutto a rinnovare i metodi di lotta, e spesso, come in Germania dopo il colpo di forza militarista, a insorgere con le armi in pugno. Il Partito non si cura di spiegare al popolo lavoratore italiano questi avvenimenti, di giustificarli alla luce della concezione della Internazionale comunista … L’Avanti!, come organo del Partito, dovrebbe essere organo della III Internazionale … invece l’Avanti! mette in valore manifestazioni del pensiero opportunista … Scritti di compagni russi, indispensabili per comprendere la rivoluzione bolscevica, sono stati tradotti in Svizzera, in Inghilterra, in Germania e sono ignorati in Italia: valga per tutti il volume di Lenin Stato e Rivoluzione; gli opuscoli tradotti sono poi tradotti pessimamente, spesso incomprensibili per le storture grammaticali e di senso comune[18].

Un’ulteriore conferma di quanto sia puramente formale l’adesione del PSI alla III Internazionale.

È alla luce di queste considerazioni sull’atteggiamento del Partito Socialista nei confronti delle lotte operaie e dell’Internazionale Comunista che Gramsci cerca un avvicinamento a Bordiga, proponendo, in occasione del già citato convegno di Firenze, la creazione di un’unica frazione comunista che rinunci all’astensionismo, limitativo del proselitismo nel partito e nel movimento di classe e non condiviso da Lenin e dall’Internazionale Comunista. La risposta negativa di Bordiga contribuisce ad approfondire l’isolamento di Gramsci anche all’interno dello stesso gruppo ordinovista, che si presenta tutt’altro che omogeneo. Togliatti e Terracini, pur non abbandonando la linea di sviluppo dei Consigli di Fabbrica, si avvicinano alla direzione massimalista in nome dell’unità dei “sinceri comunisti” anche in vista della campagna per le elezioni amministrative (da qui la denominazione di “comunisti elezionisti”), ma non condividono l’idea di unità con i bordighisti, mentre Tasca propende per una linea di continuità con le forme organizzative tradizionali del movimento operaio e sindacale italiano in luogo dei Consigli. Nella sezione torinese, dopo le dimissioni da segretario dell’astensionista Boero, gli elezionisti conquistano la maggioranza con una mozione in opposizione sia a Gramsci che ai bordighisti. Gramsci rimane così pressoché solo, con alcuni fedelissimi, a condurre il tentativo di ricostruire l’unità del proletariato e le lotte ripartendo dalle unità produttive, attraverso la costituzione di “gruppi di educazione comunista” che difendano gli istituti dei Commissari di reparto e dei Consigli di Fabbrica anche in contrapposizione al sindacato tradizionale, ma soprattutto come organismi politici di organizzazione autonoma delle masse. Se a Gramsci si può rimproverare di avere una visione eccessivamente atomistica della costruzione del potere operaio, non sembra sostenibile che egli abbia una visione della rivoluzione come processo che parte esclusivamente dal basso, in contrasto con la concezione leniniana del ruolo che il partito deve avere come avanguardia e forza motrice della rivoluzione, né si può affermare che egli ne sottovaluti la funzione. Piuttosto, Gramsci coglie e valorizza il nesso che deve esistere tra partito e masse. Se Bordiga concepisce il partito come una élite che si pone al di sopra della classe, Gramsci lo vede come elemento organico alla classe e situato nella classe, che dirige e da cui, al tempo stesso, trae esperienza e linfa vitale. “Il movimento proletario, nella sua fase attuale, tende ad attuare una rivoluzione nell’organizzazione delle cose materiali e delle forze fisiche; … i tratti caratteristici della rivoluzione proletaria possono essere ricercati solo nel partito della classe operaia, nel Partito comunista, che esiste e si sviluppa in quanto è l’organizzazione disciplinata della volontà di fondare uno Stato, della volontà di dare una sistemazione proletaria all’ordinamento delle forze fisiche esistenti e di gettare le basi della libertà popolare. … Il Partito comunista è lo strumento e la forma storica del processo di intima liberazione per cui l’operaio da esecutore diviene iniziatore, da massa diviene capo e guida, da braccio diviene cervello e volontà; …[19]. Affermazioni che non possono certo essere definite movimentiste. Altrettanto chiara è la convinzione della necessità di costituire il più rapidamente possibile il nuovo partito: “… la frazione comunista si costituisca con un apparecchio direttivo organico e fortemente centralizzato, con proprie articolazioni disciplinate in tutti gli ambienti dove lavora, si riunisce e lotta la classe operaia, con un complesso di servizi e di strumenti per il controllo, per l’azione, per la propaganda che la pongano in condizione di funzionare e di svilupparsi fin da oggi come un vero e proprio partito[20].

 

Il II Congresso dell’Internazionale Comunista

Dal 19 luglio al 7 agosto 1920 si tiene il II Congresso dell’IC, a cui il PSI partecipa con una folta delegazione, rappresentativa di pressoché tutte le sue componenti, che vede, tra gli altri suoi membri, Serrati per la direzione massimalista del partito, Graziadei e Bombacci per il gruppo parlamentare, il riformista D’Aragona per la CGL e Amadeo Bordiga che, insieme a Serrati, diventerà il protagonista del dibattito sulla situazione e sul partito italiani. Nessuno ha una delega ufficiale a rappresentare il PSI e questo contribuisce a inasprire le polemiche e le reciproche recriminazioni all’interno della delegazione italiana. La delega a Serrati arriverà solo a congresso iniziato con un telegramma inviato da Gennari, allora segretario del partito.

La fiducia personale che Lenin ha in Serrati e l’accoglienza calorosa, riservata alla delegazione italiana, non impediscono che, fin dal suo arrivo, la questione dell’espulsione dei riformisti e del cambiamento di nome in Partito Comunista venga posta in tutta franchezza e in toni ormai ultimativi, sia in sede di dibattito generale, che durante gli incontri bilaterali con Lenin e sulla stampa. Testimoni riferiscono (la frase non è stata verbalizzata) che in uno di questi colloqui Lenin avrebbe consigliato a Serrati: “Cacciate Turati e poi alleatevi con lui“. Che sia vera o meno, essa riflette la lucida distinzione di Lenin tra unità e alleanza. Per Lenin, nessun legame organico è possibile con i riformisti, ma questo non deve escludere la possibilità di convergenze temporanee su specifiche questioni, se queste sono conformi alle circostanze reali e vantaggiose per la rivoluzione. È la manifestazione della duttilità tattica che Lenin manterrà sempre, sia nell’Internazionale che alla guida del giovane stato sovietico e che, anni dopo, nelle mutate condizioni, si esprimerà nella tattica del fronte unico.

I successi militari dell’Armata Rossa, i moti di simpatia per la Russia Sovietica da parte dei lavoratori dell’Europa Occidentale e le crescenti adesioni all’IC di partiti e gruppi socialisti contribuiscono a consolidare la convinzione che la rivoluzione mondiale sia ormai inarrestabile. Da qui l’insistenza dell’Internazionale, rivolta a tutti i partiti socialisti, non solo a quello italiano, ad affrettare i tempi della separazione dagli opportunisti che ancora si annidano nelle loro file per poter sfruttare con successo la situazione rivoluzionaria. L’idea, ancora per il momento, è quella di una scissione a destra che escluda gli opportunisti, basata sulla convinzione, successivamente dimostratasi errata, che gli elementi rivoluzionari costituiscano la maggioranza del corpo militante dei partiti.

Le linee d’indirizzo programmatico del I Congresso sono confermate: l’Internazionale Comunista è il partito mondiale del proletariato, si batte per la creazione di una repubblica internazionale sovietica, fondata sulla dittatura proletaria come primo passo verso la definitiva dissoluzione dello Stato. Viene definita la linea del “fronte generale”, cioè di un’alleanza di blocco che costituisca la base sociale della dittatura proletaria, composta non solo dal proletariato industriale e agricolo, ma anche da strati “semi-proletari” (i piccoli contadini proprietari) e, più in generale, da tutti gli sfruttati. Sul piano sindacale, benché si ribadisca la necessità di rottura con l’Internazionale Sindacale riformista di Amsterdam e di creazione di un’Internazionale Sindacale rossa, viene stabilito che i comunisti adottino una tattica di penetrazione e di lavoro all’interno di qualsiasi sindacato, indipendentemente dal suo indirizzo politico, al fine di estendere il legame con le masse.

L’approvazione dello Statuto (relatore il bulgaro Kabakčev) colma il vuoto normativo lasciato dal I Congresso. Organismo dirigente tra un congresso mondiale e l’altro viene confermato il Comitato Esecutivo (CEIC). L’organizzazione è fortemente centralizzata: l’art. 13 stabilisce che “i contatti politici tra i singoli partiti … saranno attuati attraverso il CEIC. In caso d’urgenza i contatti possono essere diretti, ma il CEIC dovrà esserne informato contemporaneamente[21]. Lo Statuto stabilisce che tutti i partiti aderenti costituiscano l’organizzazione clandestina, svolgano lavoro politico nell’esercito e i loro organi di stampa siano tenuti a pubblicare e diffondere i materiali prodotti dall’IC. Sull’attuazione e sul rispetto delle norme statutarie deve vigilare il CEIC. Inoltre, lo Statuto prevede la costituzione di una sezione sindacale, di una sezione femminile e dell’Internazionale Giovanile Comunista, tutte subordinate all’Internazionale Comunista e al CEIC. L’estrema centralizzazione non chiude, però, al confronto politico con altre tendenze che, pur non aderendo all’IC, simpatizzino per essa o le siano politicamente vicine, prevedendo, all’art. 10, la facoltà del CEIC di cooptarne, con funzioni consultive, i rappresentanti. Al II Congresso è invitato, infatti, anche l’anarchico Armando Borghi, segretario dell’Unione Sindacale Italiana.

Vengono discusse e approvate (relatori il russo Zinoviev e il tedesco Meyer) le condizioni, elaborate da Lenin e redatte in 21 punti, per l’adesione all’IC. Le regole sono stringenti e non ammettono deroghe, concepite come un baluardo contro il centrismo e la permanenza degli elementi riformisti e opportunisti. Tra le 21 condizioni, quelle che suscitano l’accanita obiezione di Serrati sono, in particolare, i punti 2, 7 e 17.

«Ogni organizzazione che desideri far parte del Comintern, è tenuta ad eliminare, in modo sistematico e pianificato, da qualsiasi incarico di benché minima responsabilità nel movimento operaio (organizzazioni di partito, redazioni, sindacati, gruppi parlamentari, cooperative, comuni, ecc.) i riformisti e i “centristi”, sostituendoli con comunisti fidati, senza avere paura che all’inizio, talvolta, occorra sostituire funzionari “esperti” con semplici operai»[22]. E ancora: «I partiti che desiderano far parte dell’Internazionale Comunista sono tenuti a riconoscere la necessità di una totale e assoluta rottura con il riformismo e la politica del “centro”, propagandando questa rottura nei più ampi ambiti dei membri del partito. In mancanza di ciò, una politica comunista coerente è impossibile. L’Internazionale Comunista esige, incondizionatamente e ultimativamente, che questa rottura si compia nel più breve tempo possibile. L’Internazionale Comunista non può acconsentire a che noti riformisti, come, per esempio, Turati, Modigliani, ecc., abbiano il diritto di considerarsi membri della Terza Internazionale. Un tale ordine delle cose porterebbe la Terza Internazionale a diventare, in forte misura, come la defunta Seconda Internazionale»[23]. Infine: «… tutti i partiti che vogliono aderire all’Internazionale Comunista devono cambiare nome. Ogni partito che voglia aderire all’Internazionale Comunista deve chiamarsi: Partito Comunista del tale paese (sezione dell’Internazionale Comunista) …»[24].

I membri che respingono o non accettano le tesi e le condizioni dell’IC devono essere incondizionatamente espulsi (punto 21). Tutti i partiti che hanno aderito precedentemente sono tenuti a convocare un congresso straordinario entro 4 mesi per cambiare nome ed espellere i contrari.

Le obiezioni di Serrati sono contraddittorie. Da un lato condivide l’opinione generale che l’Italia, tra tutti i paesi occidentali, sia quello che presenta la situazione più rivoluzionaria, suffragata dalle notizie (vere) che giungono dall’Italia sulla caduta del governo Nitti e sull’insurrezione dell’11° Reggimento Bersaglieri di Ancona e dalle fanfaronate (false) del vicesegretario Bombacci, che sostiene che il futuro Partito Comunista si porterà dietro almeno l’80% degli iscritti al PSI. Dall’altro lato difende l’unità con i riformisti come presupposto di una più efficace resistenza al possibile scatenamento della reazione, segnale della scarsa fiducia che i massimalisti, in questo assai vicini ai riformisti, nutrono nei confronti del successo delle lotte e dell’ineluttabilità della rivoluzione, al di là delle loro dichiarazioni verbali. Inoltre, accusa i bolscevichi di voler imporre il loro modello, maturato nella specificità della Russia, a paesi dove non può essere applicato in forza della diversità di condizioni “ambientali”, storiche e culturali. Questo appello alla preminenza delle specificità nazionali e all’autonomia dei partiti esprime una tendenza a sovrapporre il particolare al generale per giustificare in realtà una deviazione dalla via rivoluzionaria che, successivamente, si ritroverà anche tra i partiti comunisti, con la teorizzazione delle vie nazionali al socialismo e troverà massima espressione proprio nel PCI e nell’eurocomunismo. Serrati chiede tempo e, difendendo Turati e suoi per le loro presunte qualità morali, si dice favorevole ad una “epurazione” del partito, nei tempi che questo deciderà autonomamente, ma contrario all’espulsione in blocco dei riformisti.

Lenin risponde con un’argomentazione che esprime sostegno alla linea de “L’Ordine Nuovo”:

«Non vogliamo dire che proprio in questo o quel giorno preciso siano obbligati a espellere Turati. Questa questione è già stata trattata dal Comitato Esecutivo e Serrati ci ha detto: “Niente espulsioni, ma un’epurazione nel partito”. Dobbiamo soltanto dire ai compagni italiani che all’indirizzo dell’Internazionale Comunista corrisponde l’indirizzo dei membri de “L’Ordine Nuovo” e non quello dell’attuale maggioranza dei dirigenti del partito socialista e del suo gruppo parlamentare»[25].

La posizione in appoggio alla linea del gruppo ordinovista è espressa con chiarezza da Lenin anche nelle sue “Tesi per il II Congresso dell’Internazionale Comunista”, approvate dall’assemblea:

In relazione al PSI, il II Congresso della III Internazionale trova fondamentalmente giusta la critica al partito e le indicazioni pratiche, esposte in forma di proposte al Consiglio Nazionale del PSI, a nome della sezione torinese del partito, dalla rivista «L’Ordine Nuovo» dell’ 8 maggio 1920, le quali corrispondono pienamente a tutti i principi fondamentali della III Internazionale. Perciò, il II Congresso della III Internazionale chiede al PSI di convocare un congresso straordinario per discutere sia queste proposte, che tutte le decisioni di entrambi i congressi dell’Internazionale Comunista, al fine di correggere la linea del partito e di ripulire il partito e, soprattutto, il suo gruppo parlamentare dagli elementi non comunisti[26].

Il riferimento è all’articolo “Per un rinnovamento del Partito Socialista“, in cui Gramsci sostiene la necessità di coordinare e concentrare le masse proletarie sotto la guida di un partito libero dai condizionamenti dei “non comunisti” che bloccano le lotte e dotato di un programma di governo rivoluzionario che risponda ai problemi reali dei lavoratori.

Lenin e l’IC sostengono, dunque, le posizioni di Gramsci, degli ordinovisti e del movimento torinese dei Consigli di Fabbrica, mentre respingono decisamente quelle anticonsiliari e antiparlamentari di Bordiga.

L’Internazionale sostiene addirittura la necessità di convocare un congresso dei Consigli per discutere di un loro inserimento nell’Internazionale stessa. Un’analoga affinità col pensiero gramsciano si può riscontrare anche nel già citato atteggiamento da tenere nei confronti di componenti non comuniste, ma vicine, del movimento, al fine di consolidarne la base sociale.

A proposito, per esempio, del rapporto con gli anarchici, osteggiato sia da Serrati che da Bordiga, Zinoviev si esprime così: “Malatesta, in tempo di rivoluzione, è meglio di D’Aragona. Fanno delle sciocchezze, eppure sono elementi rivoluzionari. … In tempo di rivoluzione occorrono rivoluzionari. Bisogna avvicinarsi ad essi e formare con loro un blocco in tempo di rivoluzione…”[27].

Il II Congresso segna la sconfitta delle posizioni astensioniste di Bordiga. La sua controrelazione, in cui ne enuncia le ragioni, è confutata da Lenin in sede di dibattito con le argomentazioni già contenute nella sua nota opera “L’Estremismo, malattia infantile del comunismo” e viene respinta a grande maggioranza. In seguito, Bordiga rinuncerà alla pregiudiziale astensionista per consentire le necessarie convergenze delle altre componenti nel processo di formazione del PCdI. Della questione dell’atteggiamento dei comunisti nei confronti del parlamento e delle istituzioni borghesi tratteremo dettagliatamente nel capitolo seguente.

In sede di votazione finale sulle risoluzioni, la delegazione italiana si divide. Serrati, Bombacci e Bordiga si astengono dal votare le risoluzioni sulla questione agraria, quella nazionale e quella sindacale, criticandole da sinistra e sostenendo che vi fossero troppe concessioni agli strati non proletari. Serrati viene comunque eletto membro del CEIC.

Quando i delegati italiani partono per rientrare in Italia, viene loro consegnata una lettera, firmata da Zinoviev, Bukharin e Lenin a nome del CEIC, rivolta alla dirigenza e ai membri del PSI. In essa, il CEIC contrasta le posizioni attendiste che temono un intervento controrivoluzionario delle truppe dell’Intesa e aspettano che la rivoluzione si compia in altri paesi prima di passare all’azione. Pur esprimendo la propria contrarietà ai putsch artificialmente preparati e ad azioni avventate, ma anche alla trasformazione del partito proletario in un pompiere che spegne l’incendio rivoluzionario, il CEIC ribadisce che la situazione in Italia è matura per la rivoluzione, ma

in molti casi il partito sta in disparte, senza sforzarsi di generalizzare il movimento, dargli delle parole d’ordine, dargli un carattere più sistematico e organizzato, trasformarlo in offensiva decisiva contro lo stato borghese… La causa fondamentale di ciò è la contaminazione degli elementi riformisti e liberal-borghesi che al momento della guerra civile diventano a tutti gli effetti agenti della controrivoluzione, nemici di classe del proletariato. È infantile e sciocco confondere l’onestà e la rispettabilità soggettive di costoro con il loro pericoloso ruolo oggettivo… per essi non ci può essere posto nel partito del proletariato comunista… Il Comitato Esecutivo reputa necessario precisare di essere costretto a porre in forma di ultimatum la questione dell’epurazione del partito e tutte le altre condizioni d’ammissione… Non abbiamo bisogno di gente qualsiasi purché numerosa, non vogliamo delle palle al piede, non ammetteremo dei riformisti nelle nostre file…[28].

Il problema dell’espulsione dei riformisti, cioè della scissione a destra, resta dunque aperto anche dopo il II Congresso, ma i termini posti dall’IC sono ormai ultimativi nella sostanza e nei tempi d’attuazione e l’ambiguità serratiana vede i propri margini sempre più ridotti.

Intanto, la delegazione italiana, al suo rientro, si troverà a dover affrontare la gestione dell’occupazione delle fabbriche e della nuova, drammatica situazione, nella quale si trova il proletariato italiano.

 

La questione del parlamentarismo

Il II Congresso dell’IC, 19 luglio-7 agosto 1920, è in larga parte occupato dal dibattito sulla tattica rivoluzionaria e segnato dalla battaglia ideologica condotta da Lenin contro le posizioni estremiste presenti in alcuni partiti comunisti o correnti comuniste nei partiti socialisti.

Se all’interno della frazione comunista italiana, soprattutto tra la gioventù, è largamente predominante la posizione astensionista di Bordiga, Gramsci e L’Ordine Nuovo guardano al parlamentarismo in modo più consonante con il pensiero di Lenin e dell’Internazionale Comunista. Gramsci, infatti, così chiarisce la posizione ordinovista in relazione al successo elettorale del PSI nel 1919 e alla partecipazione al parlamento:

«La rivoluzione comunista non può essere realizzata con un colpo di mano … è necessario che l’avanguardia rivoluzionaria susciti, coi suoi mezzi e i suoi sistemi, le condizioni materiali e spirituali in cui la classe proprietaria non riesca più a governare pacificamente le grandi masse di uomini, ma sia costretta, per la intransigenza dei deputati socialisti controllati e disciplinati dal partito, a interrorire le grandi masse, a colpire ciecamente e a farle rivoltare. Un fine di tal genere può solo essere perseguito oggi attraverso l’azione parlamentare, intesa come azione che tende a immobilizzare il Parlamento, a strappare la maschera democratica dalla faccia equivoca della dittatura borghese e farla vedere in tutto il suo orrore e la sua bruttezza ripugnante»[29].

Gramsci concepisce la partecipazione alle istituzioni elettive borghesi, quindi, in un modo che impedisca che le masse proletarie

«siano illuse, che si faccia loro credere che sia possibile superare la crisi attuale con l’azione parlamentare, con l’azione riformistica. È necessario incrudire il distacco delle classi, è necessario che la borghesia dimostri la sua assoluta incapacità a soddisfare i bisogni delle moltitudini, è necessario che queste si persuadano sperimentalmente[30] che sussiste un dilemma netto e crudo: o la morte per fame, … o uno sforzo eroico, uno sforzo sovrumano degli operai e contadini italiani per creare un ordine proletario … Solo per questi motivi rivoluzionari l’avanguardia cosciente del proletariato italiano è scesa nella lizza elettorale, si è solidamente piantata nella fiera parlamentare. Non per un’illusione democratica, non per un intenerimento riformista: per creare le condizioni del trionfo del proletariato, per assicurare la buona riuscita dello sforzo rivoluzionario che è diretto a instaurare la dittatura proletaria incarnantesi nel sistema dei Consigli, fuori e contro il Parlamento»[31].

È impossibile non vedere la consonanza del pensiero di Gramsci con quanto Lenin scriverà un anno dopo, in aperta polemica con la “sinistra comunista”, rappresentata in Italia da Bordiga e in Germania dal KAPD (Partito Comunista Operaio di Germania, nato da una scissione dal KPD nel 1920):

«Il parlamento è un prodotto dello sviluppo storico che non possiamo cancellare dalla vita finché non saremo abbastanza forti da sciogliere il parlamento borghese. Solo facendo parte del parlamento borghese è possibile, partendo dalle condizioni storiche date, lottare contro la società borghese e il parlamentarismo. Quello stesso mezzo che la borghesia usa nella lotta deve essere usato anche dal proletariato, certamente con fini completamente diversi … Una parte della piccola borghesia proletarizzata, gli operai più arretrati, i piccoli contadini, sono tutti elementi che pensano effettivamente che in parlamento siano rappresentati i loro interessi; contro tutto ciò occorre battersi con il lavoro in parlamento e mostrare nei fatti la verità alle masse. Le masse arretrate non le convinci con la teoria, a loro serve l’esperienza[32] … Occorre sapere come distruggere il parlamento … ciò è impossibile senza una preparazione abbastanza lunga … nella maggior parte dei paesi non è ancora possibile distruggere il parlamento in un colpo solo. Siamo costretti a lottare in parlamento per distruggere il parlamento»[33].

Nell’astensionismo e nel rifiuto dell’attività parlamentare, Lenin vede un segno di debolezza, organizzativa e ideologica, del partito proletario: «Se non preparerete gli operai alla formazione di un partito realmente disciplinato, che obblighi tutti i suoi membri a sottomettersi alla sua disciplina, non preparerete mai la dittatura del proletariato. Io penso che sia per questo che non volete riconoscere che è proprio la debolezza di molti nuovi partiti comunisti a portarli a negare il lavoro parlamentare»[34].

È interessante notare come sia Lenin che Gramsci insistano entrambi sul fatto che le sole argomentazioni teoriche da sole non sono sufficienti a combattere il parlamentarismo.

La finzione parlamentare, che sottende un democratismo fintamente universale, ma in realtà ad uso della sola classe dominante, può essere smascherata unicamente da un’azione rivoluzionaria, anche, ma non solo, sul terreno parlamentare, che dimostri empiricamente alle masse il carattere ingannevole dell’istituzione e di tutta democrazia borghese e ne vinca i pregiudizi e le illusioni in tal senso. In generale, in tutto il pensiero di Lenin è espressa con chiarezza la giusta convinzione che, al di là della natura in sé di questo o quel fenomeno, di questa o quella istituzione, è importante l’uso che il partito proletario deve farne per perseguire le proprie finalità rivoluzionarie. Non è tatticismo pragmatico, in quanto la questione travalica la tattica per assumere consistenza strategica nella necessaria corrispondenza ai principi rivoluzionari, a partire da quello, centrale, della dittatura proletaria e dell’assoggettamento ad essa di tutte le sfere delle relazioni e delle attività sociali. Pur sottolineando la giustezza della richiesta di Bordiga di espellere Turati e trasformare il PSI in un partito comunista di nome e di fatto, Lenin rileva:

Il compagno Bordiga e i suoi amici di “sinistra” traggono dalle loro corrette critiche ai signori Turati e soci la conclusione sbagliata che la partecipazione al parlamento in generale sia dannosa. La “sinistra” italiana non può portare neppure l’ombra di argomenti seri a difesa di questo punto di vista. Semplicemente non conoscono (o cercano di dimenticare) esempi internazionali di uso veramente rivoluzionario e comunista dei parlamenti borghesi, indiscutibilmente utili per preparare la rivoluzione proletaria. Semplicemente non immaginano un “nuovo” uso e strillano, ripetendosi all’infinito, sull’uso “vecchio”, non bolscevico, del parlamentarismo. Questo è il loro errore fondamentale. Non solo in campo parlamentare, ma in tutti i campi di attività, il comunismo deve introdurre (e senza un lavoro lungo, persistente e ostinato non sarà in grado di farlo) qualcosa di fondamentalmente nuovo, di rottura radicale con le tradizioni della Seconda Internazionale (mantenendo e sviluppando ciò che essa ha dato di positivo). … L’infantilismo della “negazione” della partecipazione al parlamentarismo consiste espressamente nel fatto che in un modo così “semplice”, “facile”, apparentemente rivoluzionario, pensano di “risolvere” il difficile compito di combattere le influenze democratico-borghesi all’interno del movimento operaio, ma in realtà stanno solo fuggendo dalla propria ombra, stanno solo chiudendo gli occhi davanti alla difficoltà e se ne liberano solo a parole. Ma tutte queste “difficoltà” sono assolutamente infantili in confronto a compiti esattamente dello stesso genere, che il proletariato dovrà inevitabilmente risolvere per la sua vittoria sia durante la rivoluzione proletaria che dopo la presa del potere. Rispetto a questi compiti veramente giganteschi, quando in condizioni di dittatura del proletariato sarà necessario rieducare milioni di contadini e piccoli proprietari, centinaia di migliaia di impiegati, funzionari, intellettuali borghesi, subordinarli tutti allo stato proletario e alla direzione proletaria, sconfiggere le loro abitudini e tradizioni borghesi, rispetto a questi compiti giganteschi, creare, sotto il governo della borghesia, in un parlamento borghese, un gruppo parlamentare veramente comunista di un vero partito proletario è un gioco da bambini[35].

Tuttavia, la questione della lotta all’opportunismo e al riformismo è considerata da Lenin prioritaria e più difficile rispetto a quella contro l’antiparlamentarismo astensionista che – non va dimenticato – è una tendenza internazionale della sinistra comunista di cui Bordiga è esponente di primo piano.

L’opportunismo è il nostro principale nemico. L’opportunismo al vertice del movimento operaio non è socialismo proletario, ma socialismo borghese. È stato praticamente dimostrato che gli esponenti all’interno del movimento operaio che appartengono alla corrente opportunista sono difensori della borghesia migliori della borghesia stessa. … e dobbiamo vincere questo nemico. Dobbiamo uscire dal Congresso con la ferma decisione di condurre fino in fondo questa lotta in tutte i partiti. Questo è il compito principale. Rispetto a questo compito, correggere gli errori della tendenza “di sinistra” nel comunismo sarà un compito facile … In tutta una serie di paesi vediamo l’antiparlamentarismo, che non è portato tanto da elementi della piccola borghesia, quanto sostenuto da alcuni reparti avanzati del proletariato, per odio del vecchio parlamentarismo, per odio legittimo, giusto, necessario del comportamento degli esponenti parlamentari … la lotta contro questi errori del movimento proletario, contro questi difetti, sarà mille volte più facile della lotta contro la borghesia, che, sotto le spoglie dei riformisti, entra nei vecchi partiti della II Internazionale e dirige tutto il loro lavoro non in uno spirito proletario, ma in uno spirito borghese[36].

Da queste e da altre affermazioni, si intuisce la diversa percezione che Lenin ha dell’opportunismo e dell’estremismo. Sono entrambe deviazioni dal marxismo, ma, mentre l’opportunismo è visto come un cancro incurabile da estirpare, un corpo per sua natura estraneo al movimento operaio, l’estremismo è considerato come una malattia esantematica infantile che bisogna combattere, ma si può curare.

Gli estremisti sono quella parte del movimento operaio che sbaglia, ma che è recuperabile, mentre gli opportunisti sono agenti della borghesia, quindi nemici irrecuperabili.

Quanto detto non deve lasciare intendere che Lenin e l’Internazionale Comunista ritengano il parlamentarismo un’istituzione accettabile e compatibile con il comunismo, né che concepiscano il lavoro parlamentare come assolutamente imprescindibile in qualsiasi situazione o, peggio, come sostitutivo del lavoro illegale e dell’insurrezione armata. È l’uso combinato di tutte le forme di lotta possibili, di lavoro legale e illegale, di azione parlamentare e di sovversione armata, valutato nella sua convenienza in base a una rigorosa analisi scientifica della concreta situazione reale, che permette la vittoria della rivoluzione. Nelle “Tesi sui partiti comunisti e il parlamento“, redatte da Bukharin e approvate dal II Congresso, la posizione del Komintern è chiarissima a questo proposito. Il parlamento borghese è solo apparentemente espressione di una “volontà popolare” che prescinde dalle classi, ma in realtà è uno degli strumenti d’oppressione controllato dal capitale; il parlamentarismo è una forma particolare dell’ordinamento statale e, come tale, è incompatibile sia con il comunismo, in quanto in esso non vi sono né classi, né potere statale, sia con il periodo di transizione al comunismo, la dittatura proletaria, in quanto in esso le vecchie classi dominanti sono escluse dal potere statale e non vi è più necessità della finzione della “volontà popolare”; poiché il parlamento è un importante ingranaggio dello stato borghese, come quest’ultimo non può essere conquistato, ma deve essere distrutto e sostituito. “Ne deriva che il comunismo può interessarsi solo di sfruttare le istituzioni dello stato borghese allo scopo di distruggerle[37]. Chiarito che la lotta di massa deve consistere in un’escalation dell’azione che porti all’insurrezione e alla guerra civile, le Tesi sottolineano la necessità per il partito proletario di assicurarsi tutte le posizioni legali ancora praticabili, utilizzandole come centri ausiliari – dunque non primari – dell’attività rivoluzionaria e la tribuna parlamentare è una di questi, ma non ha un ruolo preminente, poiché la lotta per il potere si svolge principalmente al di fuori del parlamento. L’attività elettorale e parlamentare, quindi, non deve essere prevalente, ma complementare alle forme extraparlamentari di lotta deve essere concepita come strumento di coinvolgimento di quei settori di classe operaia ancora distanti dalla politica. L’antiparlamentarismo di principio, cioè il rifiuto categorico e assoluto di partecipare alle elezioni e all’attività parlamentare rivoluzionaria viene definito “semplicistico e infantile“, ma dall’ammissibilità teorica della lotta parlamentare “non consegue affatto che sia assolutamente necessario partecipare in ogni caso a determinate elezioni o sessioni parlamentari. Questo dipende da tutta una serie di condizioni specifiche. In certi casi può essere utile uscire dal parlamento … In certi casi può essere necessario boicottare le elezioni e scalzare con la forza tanto l’intero apparato statale borghese, quanto la cricca parlamentare borghese, oppure può essere necessario partecipare alle elezioni pur boicottando il parlamento stesso, ecc.[38]. Il documento sottolinea come il boicottaggio delle elezioni o del parlamento sia appropriato quando sussistano le condizioni per un passaggio immediato alla lotta armata. Poiché, come detto, il centro di gravità politico sta nella lotta per il potere statale e questa si svolge fuori dal parlamento, la questione, in realtà, riveste scarsa importanza e non può essere messa sullo stesso piano della questione della lotta di massa per la dittatura del proletariato. Perciò l’Internazionale Comunista “sottolinea con la massima forza che essa considera un grave errore qualsiasi scissione … su quest’unica questione[39].

 

L’occupazione delle fabbriche

Anche le occupazioni delle fabbriche, attuate in risposta alla serrata nazionale decisa dai padroni, si concludono con una generale sconfitta della classe operaia, questa volta ottenuta non con la repressione, ma con l’inganno. Il Partito Socialista e la CGL si trovano a dovere decidere come e dove condurre un movimento che, nei fatti, dimostra di essere ben più avanzato di coloro che dovrebbero dirigerlo. In base al patto d’unità d’azione tra le due organizzazioni, firmato nel 1918, il partito potrebbe assumere la direzione del movimento al posto della dirigenza sindacale e proclamare lo sciopero generale insurrezionale, ma il Consiglio Nazionale non decide in tal senso, respingendo le ventilate dimissioni dei vertici CGL e demandando al Direttivo Nazionale del sindacato la decisione sugli sbocchi a cui condurre il movimento. La linea delle dimissioni della dirigenza e dello sciopero generale non viene votata neppure da Togliatti e Terracini, in rappresentanza della frazione comunista, per paura che si tratti di una provocazione, messa in atto dai riformisti per screditare i comunisti agli occhi delle masse operaie, additandoli come responsabili dell’insuccesso di un’insurrezione che, in effetti, avrebbe dovuto essere supportata da un’organizzazione ben più solida, anche militarmente, rispetto a quella che essi avevano in quel momento. La decisione del Direttivo CGL è scontata. Grazie all’uso burocratico del meccanismo delle deleghe, i riformisti, minoritari tra i lavoratori, hanno la maggioranza nel Direttivo, che decide di limitare le rivendicazioni ad aumenti salariali e al controllo sindacale in azienda. Piegato il movimento su questa linea di cedimento, grazie alla mediazione del governo Giolitti che lavora di concerto con la CGL, le fabbriche vengono restituite ai proprietari in cambio di qualche spicciolo e della promessa, mai più mantenuta, di una legge che stabilisca il controllo sindacale nelle aziende. Il Biennio Rosso italiano finisce con questa pesante e definitiva sconfitta della classe operaia. Anni più tardi, Gramsci così ricorderà quelle vicende:

«Come classe, gli operai italiani che occuparono le fabbriche si dimostrarono all’altezza dei loro compiti e delle loro funzioni. Tutti i problemi che le necessità del movimento posero loro da risolvere furono brillantemente risolti. Non poterono risolvere i problemi dei rifornimenti e delle comunicazioni perché non furono occupate le ferrovie e la flotta. Non poterono risolvere i problemi finanziari perché non furono occupati gli istituti di credito e le aziende commerciali. Non poterono risolvere i grandi problemi nazionali e internazionali, perché non conquistarono il potere di Stato. Questi problemi avrebbero dovuto essere affrontati dal Partito socialista e dai sindacati che invece capitolarono vergognosamente, pretestando l’immaturità delle masse; in realtà i dirigenti erano immaturi e incapaci, non la classe. Perciò avvenne la rottura di Livorno e si creò un nuovo partito, il Partito comunista»[40].

Le riflessioni sulla sconfitta del movimento di occupazione delle fabbriche danno un impulso ulteriore alla radicalizzazione anticentrista e all’unificazione delle componenti comuniste all’interno del PSI, di portata almeno pari, se non maggiore, a quello impresso dal II Congresso dell’Internazionale, accelerando il processo di avvicinamento dei rispettivi leader e di consolidamento dell’organizzazione.

La scissione non è solo una questione di principio in rapporto all’adesione alla III Internazionale, ma ormai anche una necessità ineluttabile, dettata dal riscontro e dall’analisi delle insufficienze e delle negatività emerse nel Biennio Rosso e, soprattutto, negli eventi legati all’occupazione delle fabbriche, che si è rivelata essere più una tardiva reazione dei dirigenti riformisti della FIOM all’arroganza e alla rigidità padronale che non un autonoma iniziativa rivoluzionaria del proletariato organizzato.

Certamente era mancato un partito rivoluzionario, capace di dirigere e organizzare la classe e il suo movimento, di porre loro concreti obiettivi transitori e di collegarli alla prospettiva della presa del potere e al progetto di costruzione della democrazia sovietica, per cui gli effetti della collaborazione di classe e dell’aperto sabotaggio delle lotte da parte dei riformisti si erano sommati a quelli dovuti all’inconcludenza del rivoluzionarismo verbale massimalista. Questa situazione aveva finito per influire negativamente sulla combattività della classe operaia, logorata da mesi di scioperi senza risultati, ma soprattutto dalla perdita di fiducia nei suoi stessi istituti indipendenti, i Consigli di Fabbrica, lasciati privi di qualsiasi obiettivo di lotta. Alle deficienze della dirigenza socialista si aggiungono così carenze oggettive della stessa classe operaia, cioè localismi, corporativismi, disimpegno politico che, a poco a poco, ne inficiano lo spirito rivoluzionario che aveva nel 1919.

Il Komintern è convinto che l’occupazione delle fabbriche sia l’inizio della rivoluzione, cosa che, quando il movimento si esaurisce, lo induce a considerarla un’occasione mancata per difetto di direzione politica del PSI che non è riuscito a dare al movimento concreti obiettivi e prospettive di lotta, a collegare l’occupazione degli stabilimenti con la presa del potere che, secondo l’Internazionale, sarebbe stata possibile se non fosse intervenuto il tradimento riformista. Nella convinzione che l’Italia permanga in una situazione rivoluzionaria, l’IC preme quindi per accelerare i tempi della scissione.

L’analisi dei comunisti italiani è in parte diversa, anche per una migliore e diretta conoscenza degli eventi. I punti in comune sono le accuse alla dirigenza del PSI e le conclusioni sulla necessità della scissione, ma né Gramsci, né Bordiga considerano l’occupazione delle fabbriche come un’occasione rivoluzionaria mancata.

Piuttosto, Gramsci vi vede il punto massimo della capacità di mobilitazione delle masse in quel dato momento storico, a cui non può che seguire un riflusso.

In lui si fanno strada anche dubbi sulla tenuta che avrebbe potuto avere un’ulteriore escalation delle lotte in senso rivoluzionario di fronte ad una reazione controrivoluzionaria e sono dubbi dettati non dal pessimismo che si usa attribuirgli, ma dalla consapevolezza del tradimento riformista, dell’inerzia massimalista, dell’impreparazione e della fragilità organizzativa della stessa frazione comunista. Questa constatazione rafforza in lui la convinzione che non si possa più rinviare la creazione di un partito rivoluzionario non a parole, ma a fatti, che veramente si ponga l’obiettivo della dittatura proletaria, che sappia agire senza tentennamenti e indecisioni nei momenti cruciali, che abbia un autentico ruolo dirigente delle masse. Gramsci ritiene l’unificazione dei comunisti ormai improcrastinabile e la convergenza con Bordiga imprescindibile. Su questo altare entrambi sacrificheranno alcune delle divergenze precedenti, Bordiga rinunciando alla discriminante astensionista, Gramsci accettando la sua leadership e l’impostazione schematica e dottrinale del partito che ne deriva. Tuttavia, non pochi sono i punti di contatto tra i due rivoluzionari, a partire dall’insistenza di entrambi sul concetto di disciplina, sia interna al partito che esterna, cioè del partito nei confronti dell’Internazionale Comunista. La mancanza di disciplina, di centralizzazione delle decisioni e l’autonomia dei partiti nazionali sono, giustamente, viste come la principale causa dell’egemonia che, di fatto, i riformisti riescono ad esercitare nel partito e nel sindacato, anche se numericamente minoritari. Per questa ragione il PSI continua a rimanere un partito secondinternazionalista che, anche se formalmente aderisce all’Internazionale Comunista, nei fatti non ne accetta i principi.

Dall’esperienza dell’occupazione delle fabbriche, dunque, i marxisti rivoluzionari italiani traggono importanti conclusioni di principio. La rottura totale con l’opportunismo e il riformismo della socialdemocrazia, che frenano e sabotano la rivoluzione proletaria, è condizione necessaria per la vittoria della rivoluzione stessa, ma non sufficiente: occorre anche che l’avanguardia di classe si organizzi in un partito di tipo nuovo, diverso dai vecchi partiti operai, un partito fortemente centralizzato, reso compatto da una ferrea disciplina, liberamente e coscientemente condivisa e da una verticalità di tipo militare, un partito di quadri rivoluzionari di professione che abbia, però, un forte collegamento con le masse e sappia agire in modo propositivo, con una tattica conforme alle linee strategiche del proprio programma politico generale.

 

Da frazione a partito: il Congresso di Livorno e la scissione.

Il 29 settembre 1920 si riunisce la Direzione del PSI, nella quale l’ordine del giorno di Terracini, che prevede l’approvazione dei 21 punti e delle tesi del II Congresso del Komintern, nonché l’espulsione dei riformisti, prevale a maggioranza sia sull’ordine del giorno dei massimalisti “centristi” Serrati e Baratono, che da qui in poi si definiranno “comunisti unitari” e sostengono l’unita e l’autonomia del partito, sia su quello dei riformisti di Turati, organizzati nella frazione “Concentrazione socialista”. Il fatto è di cruciale importanza, perché segna il punto di frattura definitiva con Serrati e i suoi che muterà radicalmente il carattere della scissione. Se fino ad ora questa è stata concepita, sia dagli italiani che dall’Internazionale, come scissione a destra, cioè come espulsione dei riformisti dal partito, è in questa occasione che incomincia a delinearsi l’eventualità, non ancora l’ipotesi, di una scissione a sinistra.

Il 15 ottobre 1920, a Milano, si unifica ufficialmente la frazione comunista, dopo che Bordiga ha rinunciato alla pregiudiziale astensionista e accettato la richiesta di Gramsci di stendere una piattaforma comune, con la pubblicazione di un manifesto-programma. La frazione raggruppa la componente bordighista, maggioritaria, la variegata componente ordinovista torinese, cioè i gramsciani dei “centri di educazione comunista” e i “comunisti elezionisti” (Togliatti, Terracini, ecc.), quella “social-comunista” di Anselmo Marabini[41] e quella operaista radicale milanese che fa capo a Fortichiari e Repossi. Nel manifesto-programma, che è sostanzialmente la traduzione dei deliberati del II Congresso del Komintern, si sottolineano i concetti di disciplina, subordinazione al Comitato Centrale e centralismo, epurato però dell’aggettivo “democratico”, cioè dell’elezione degli organismi dirigenti da parte della base (è il concetto bordighiano di “centralismo organico”), senza dire nulla circa i rapporti del partito con la classe e le masse, i Consigli e la democrazia consiliare come istituti basilari della dittatura proletaria, l’organizzazione per cellule nei luoghi di lavoro (raccomandate dall’Internazionale Comunista, non verranno mai costituite, a conferma della diffidenza, da parte di Bordiga, verso l’organizzazione per unità produttiva). Anche se le sue posizioni estremiste e la sua rigidità dottrinaria erano state ampiamente criticate da Lenin e respinte dal II Congresso del Komintern, è Bordiga il leader, l’ispiratore e l’organizzatore della frazione, ruolo che anche Gramsci gli riconosce. La Federazione Giovanile è con lui, la propaganda è nelle sue mani, ma è l’azione metodica e costante degli ordinovisti nelle fabbriche che porterà al futuro partito i primi nuclei operai militanti che costituiranno la base del PCdI.

Il Komintern sostiene pienamente e unicamente la frazione comunista, ma continua a rivolgersi a Serrati, affinché questi vi aderisca, se davvero vuole costruire un partito comunista in Italia. Non c’è nessuna doppiezza o ambiguità in questo, ma la preoccupazione che la scissione avvenga a destra, per assicurare ai comunisti l’acquisizione della maggioranza reale del partito, in piena coerenza con le tesi leniniane. La questione si sta rivelando essenziale, anche se non evolverà nella direzione auspicata dall’IC. Infatti, le scissioni a destra che avvengono nel Partito Socialdemocratico Indipendente di Germania (che nello stesso anno si fonderà con il KPD, dando breve vita al Partito Comunista Unificato di Germania, o VKPD) e nel Partito Socialista Francese portano all’Internazionale la maggioranza dei delegati, ma non la maggioranza degli iscritti, che continua a rimanere nei vecchi partiti. Tuttavia, la preoccupazione dell’IC per la conquista della maggioranza dei lavoratori socialisti alle posizioni comuniste spiega e giustifica la sua perdurante interlocuzione con Serrati nonostante il riconoscimento incondizionato della frazione comunista.

Le cose stanno diversamente per i comunisti italiani, delle cui aspre critiche Serrati è ormai il principale bersaglio. Bordiga considera ormai il “centrismo” come una particolare forma di opportunismo, ancora più subdola e pericolosa dell’opportunismo riformista e, a questo punto, il carattere della scissione, da destra o da sinistra, perde per lui qualsiasi significato. La scissione deve avvenire tanto dalla destra riformista, quanto dal centro massimalista: poco contano i rapporti di forza interni al partito, la scissione è una questione di principio che travalica le considerazioni tattiche e politiche del Komintern. È una posizione condivisa da quasi tutta la frazione comunista, Gramsci compreso, che successivamente porterà Togliatti a riconoscere che “La scissione di Livorno fu, essenzialmente e in prevalenza, un atto di lotta contro il centrismo … Noi combattevamo a fondo Turati e Modigliani, ma Serrati noi lo odiavamo … L’ostacolo principale non erano i riformisti, era il centrismo massimalista[42]. La polemica con il PSI sarà talmente profonda, nei primi anni di vita del nuovo partito, da portare addirittura i massimalisti che confluiranno nel PCdI dal 1922 al 1924 a fare profonda autocritica, rinnegando di fatto il loro stesso passato nel PSI, ritenuto responsabile della sconfitta del “biennio rosso”. Persino Serrati, ormai membro del PCd’I, poco prima di morire definirà la posizione, da lui assunta a Livorno, come “il solo grande errore della vita: quello di avere autorizzato con le capacità e la buona fede un movimento che speravo di unità proletaria rivoluzionaria e che nascondeva di tutto, invece, tranne che del rivoluzionarismo[43]. Il livore nei confronti del centrismo massimalista e di Serrati e la difficoltà a mutare atteggiamento spiegano sia la resistenza dei comunisti italiani all’esortazione di Lenin, solo un anno dopo la scissione, a riunirsi con i massimalisti terzinternazionalisti, sia la difficoltà a “digerire” la tattica del fronte unico. È un dato di fatto, comunque, che l’asprezza e la reiterazione degli attacchi a Serrati e al centro non favoriscono l’adesione dei militanti massimalisti alla piattaforma comunista.

Ciò che fa mutare l’atteggiamento dell’Internazionale Comunista nei confronti di Serrati è il fatto che la sua resistenza all’espulsione dei riformisti e per l’autonomia dei partiti nazionali lo trasforma nella bandiera di tutto il centrismo unitarista e autonomista che confluirà nella cosiddetta “Internazionale 2 e ½”, costituita a Vienna nel 1921, alla quale aderirà anche il PSI dopo la scissione comunista.

Al Convegno di Imola (28 novembre 1920) si giunge immediatamente dopo la conclusione di un’importante assemblea dell’organizzazione torinese del PSI, a cui partecipa anche Serrati, dove si crea la saldatura definitiva tra ordinovisti e bordighisti. Il gruppo de “L’Ordine Nuovo”, Gramsci per primo, ha deciso: senza Bordiga il partito comunista non si può fare e a questa convergenza devono essere subordinate tutte le discussioni sulle differenze tra i due gruppi. La mozione approvata a Torino non sancisce soltanto l’unificazione dei gruppi comunisti della sezione al segno della rottura con il “centrismo”, ma rappresenta lo sbocco, analitico e programmatico, del movimento rivoluzionario nel periodo del “biennio rosso”. Si definisce lo spartiacque tra i comunisti e i socialdemocratici, individuati in “coloro che pensano sia possibile effettuare seriamente il trapasso dal regime capitalistico al regime comunista integrale mediante coalizione con i ceti borghesi e prima, quindi, della conquista del potere politico da parte del proletariato[44], si ribadiscono i Consigli di Fabbrica come istituzione sovietica della classe operaia italiana, si delinea il processo di costruzione del Partito Comunista come un processo di conquista dei lavoratori che, a partire dalle fabbriche, si estenda al sindacato, operando una netta distinzione rispetto agli anarchici, si prospettano i “circoli educativi” come sedi naturali dei gruppi comunisti e dei Commissariati di Zona dei Consigli di Fabbrica. Insomma, la mozione rispecchia il programma de “L’Ordine Nuovo”. Tuttavia, a Imola, di queste linee programmatiche rimane ben poco, a parte l’anti-centrismo. Emerge, comunque, la consapevolezza dell’urgenza della scissione, poiché la sconfitta del “biennio rosso” ha rivelato quanto tempo sia già stato perso prima di riuscire ad organizzare le forze rivoluzionarie. Le divergenze, dove esistono, devono essere accantonate in nome dell’unità con Bordiga, che, peraltro, apprezzerà molto il sostegno offertogli da Gramsci in questa occasione. Che si vada verso un periodo di esperienza socialdemocratica di accordo tra socialisti e partiti borghesi per la gestione della crisi, come erroneamente pensa Bordiga, oppure che la situazione rivoluzionaria possa ulteriormente svilupparsi, come ancora ritengono in molti, oppure ancora verso lo scatenarsi di una tremenda reazione borghese, come la III Internazionale e Gramsci incominciano a intuire, è comunque indispensabile raggruppare le forze rivoluzionarie per dotare il proletariato di quella “unità di combattimento” che era mancata nel “biennio rosso”. D’altronde, questa intuizione è suffragata dal fallimento dei tentativi rivoluzionari in Ungheria, in Baviera e in Germania, oltre che dalla sconfitta dell’Armata Rossa in Polonia.

Il Convegno di Imola decide la pubblicazione del nuovo organo della frazione, “Il Comunista”, elegge il proprio Comitato Centrale, nel quale sono rappresentate tutte le componenti, con preminenza di quella bordighista; ne fa parte anche Polano in rappresentanza della FGSI. La mozione finale non ha lo stesso spessore teorico di quella dell’assemblea di Torino – del resto, il Convegno ha finalità diverse, più organizzative -, ma è importante perché disconosce il patto tra PSI e CGL e sancisce il principio della subordinazione del sindacato al partito. A questo punto, i giochi sono fatti, il nuovo partito comunista è praticamente configurato ancora prima del Congresso di Livorno. In qualcuno resta aperta ancora la speranza di potere ottenere la maggioranza dei voti all’imminente XVII° Congresso del PSI, nella convinzione che le posizioni rivoluzionarie siano maggioritarie sia nel partito che nella classe. Anche l’Internazionale, del resto, è convinta che al prossimo congresso del partito Serrati e la maggioranza massimalista voteranno per la mozione comunista, come risulta dalle affermazioni di Zinoviev nella riunione del CEIC del 9 gennaio 1921. La storia dimostrerà che poi così non sarà, ma questo non cambiava il corso delle cose in quel momento: da destra o da sinistra, di minoranza o di maggioranza, la scissione è ormai un dato di fatto già prima del Congresso.

Al XVII° Congresso del PSI, che si tiene al Teatro Goldoni di Livorno dal 13 al 21 gennaio 1921, lo scontro, soprattutto con i centristi, che pure ribadiscono l’adesione alla III Internazionale e l’accettazione dei 21 punti, rivendicando però autonomia nei tempi e nei modi della loro attuazione in relazione alle particolari condizioni dell’Italia, è durissimo. Nel messaggio di saluto al congresso, il CEIC, a firma di Zinoviev, ribadisce l’ultimatum:

Il congresso del vostro partito sarà di enorme importanza per le sorti della rivoluzione internazionale … Riteniamo necessario dirvi ancora una volta, cari compagni, che l’Internazionale Comunista non ha e non vuole avere nulla in comune con quanti appartengono al campo riformista. Vi diciamo, con fermezza e con chiarezza: dovete scegliere tra Turati, D’Aragona e soci e la Terza Internazionale…[45].

Per il Komintern la questione ha un’importanza che non è limitata al singolo PSI, ma è di rilevanza generale dal punto di vista strategico per la lotta contro l’opportunismo come tendenza internazionale e per la trasformazione dei vecchi partiti in partiti comunisti rivoluzionari.

Nonostante l’appoggio totale e inequivocabile delle tesi comuniste da parte del Komintern e dei suoi rappresentanti, Kabakčev, Rákosi e Balabanova, la mozione centrista, ottiene la maggioranza con 98.028 voti, quella riformista ottiene 14.695 voti, mentre quella comunista ne ottiene 58.783 (si tratta dell’espressione di voto degli iscritti rappresentati dai delegati, non di delegati come persone fisiche). Pur con questi rapporti di forza, Serrati e i suoi preferiscono allearsi con la minoranza riformista piuttosto che con la ben più consistente frazione comunista: una scelta che merita pienamente l’aspra critica di Lenin e del III Congresso dell’Internazionale Comunista e che, alla luce della separazione tra massimalisti e riformisti che avverrà l’anno successivo, appare irragionevole sotto tutti gli aspetti. Peraltro, questo fatto sposta l’asse della “responsabilità” della scissione, ammesso e non concesso che la questione possa essere posta in questi termini, così cari agli storici borghesi e agli opportunisti di oggi.

Quando, il 21 gennaio, vengono resi noti i risultati delle votazioni, Bordiga annuncia la scissione e convoca nel vicino Teatro San Marco la riunione dei delegati comunisti, che abbandonano la sala al canto de “L’Internazionale”. Dopo l’uscita dei comunisti dal Teatro Goldoni, il delegato massimalista Bentivoglio propone una mozione che ribadisce l’adesione del PSI all’Internazionale Comunista, accettandone senza riserva i principi e il metodo e si rivolge “in appello” al suo Comitato Esecutivo come ad un arbitrato, affinché nella sua prossima riunione a Mosca risolva, una volta per tutte e amichevolmente, il contrasto con i comunisti, con l’impegno del PSI di accettarne le decisioni come definitive e inappellabili. Sorprendentemente, la mozione passa all’unanimità, raccogliendo anche i voti dei riformisti e di Turati, che si trovano a dover riconoscere l’autorevolezza del Komintern. Il fatto è indicativo di come nel PSI, in quel momento, prevalga l’intenzione di non rompere con la III Internazionale, al di là delle divergenze che si ritengono componibili, nella già nota convinzione (sbagliata) che qualsiasi divisione indebolisca il movimento operaio. Al Congresso di Livorno, l’adesione del PSI alla III Internazionale viene riconfermata, ma viene anche ribadita la rivendicazione di autonomia del partito nell’interpretazione dei 21 punti, una posizione assolutamente inaccettabile per l’IC in quanto contraria al suo Statuto e ai suoi stessi principi fondativi. Dopo il congresso, il CEIC decreta l’espulsione del PSI dalla Terza Internazionale. La risoluzione del III Congresso dell’Internazionale Comunista, alla fine di giugno 1921, tuttavia, tiene conto della mozione Bentivoglio e stabilisce “… il terzo congresso mondiale dà istruzioni all’Esecutivo perché provveda a che vengano fatti i passi necessari per fondere il PSI, epurato degli elementi riformisti e centristi, con il PCd’I in una sezione unificata dell’Internazionale Comunista[46]. È una posizione che incontrerà una forte contrarietà all’interno del neonato PCdI e non solo da parte di Bordiga, per via dell’asprezza del sofferto processo di separazione dal PSI, appena conclusosi.

Al Teatro San Marco si formalizza la costituzione del Partito Comunista d’Italia, nel cui CC figurano gli esponenti di maggior spicco di tutte le tendenze del comunismo italiano, sia pure con una netta prevalenza bordighista.

Gramsci non prende neppure la parola, a testimonianza di quanta distanza vi sia ancora tra l’autorevolezza e la popolarità di Bordiga rispetto a quella di Gramsci e di Togliatti. Ne esce un gruppo dirigente solo apparentemente coeso, come del resto è tutta la base del partito che, negli anni a venire, si assottiglierà. Il processo di costituzione del nuovo partito si completerà con l’adesione di quasi tutta la FGSI, 35.000 membri su 43.000, schierata anch’essa sulle posizioni di Bordiga. “L’Ordine Nuovo”, ora diretto da Togliatti, diventa l’organo del partito, al quale si affianca, a Trieste, un altro quotidiano comunista, “Il Lavoratore”, diretto prima da Tuntar e poi da Gennari. Lo statuto del partito è imperniato sul concetto di rigorosa disciplina e sulla subordinazione del singolo al collettivo e alle decisioni degli organismi dirigenti; è previsto un periodo di candidatura di sei mesi per i nuovi iscritti, ma tutti i membri sono sottoposti a periodiche revisioni di idoneità; è prevista la radiazione per chiunque sia assente ingiustificato a più di tre assemblee del livello organizzativo di appartenenza; stampa e gioventù sono sotto il controllo del CC, i Comitati Esecutivi locali dipendono direttamente dal Comitato Esecutivo nazionale, organismo collegiale di 5 membri, i segretari delle federazioni locali sono nominati dal CC; organizzazione di base è la sezione territoriale, voluta tale da Bordiga che temeva, sbagliando, che le cellule sui luoghi di lavoro potessero degenerare in entità corporative di tipo sindacale, permeabili ad ideologie non marxiste ancora presenti nel movimento operaio.

Nasce così il Partito Comunista d’Italia. Il nuovo partito, tuttavia, non avrà neppure un giorno da poter dedicare alla pacifica costruzione di consensi e adesioni. L’Italia sta per entrare in una fase di guerra civile, trascinata dalla reazione dei capitalisti e degli agrari, di cui il partito non ha ancora percepito la particolare e durevole natura. Gramsci, nel 1923, difendendo la linea del Komintern del “fronte unico”, porrà in correlazione l’ascesa del fascismo non con la scissione di Livorno in sé, ma con il “modo” in cui essa avvenne.

La scissione fu l’inevitabile prodotto della dinamica, nazionale e internazionale, della storica lotta tra comunismo e socialdemocrazia, ma la consistenza delle forze proletarie che l’azione dei comunisti in quegli anni riesce a portare sul terreno dell’Internazionale Comunista è ancora troppo esigua, insufficiente a fronteggiare la reazione.

Questo è il senso dell’autocritica che Gramsci propone al Partito: riconoscere e rimediare alle insufficienze e ai ritardi, accumulati durante il “biennio rosso” procrastinando troppo a lungo la scissione, con la costruzione di un forte partito comunista e abbandonare l’astrattezza e la dottrinalità dell’impostazione di Bordiga, che limitò la frazione comunista a “battere sulle questioni formali, di pura logica, di pura coerenza e, dopo non seppe, costituito il nuovo partito, continuare nella specifica missione, che era quella di conquistare la maggioranza del proletariato[47]. La drammatica constatazione è però anche motivo di orgoglio:

… travolti dagli avvenimenti, fummo, senza volerlo, un aspetto della dissoluzione generale della società italiana … avevamo una consolazione alla quale ci siamo tenacemente attaccati, che nessuno si salvava, che noi potevamo affermare di aver previsto matematicamente il cataclisma, quando altri si cullavano nella più beata e idiota delle illusioni. Solo questa giustificazione possiamo dare ai nostri atteggiamenti, alla nostra attività dopo la scissione di Livorno: la necessità che si poneva crudamente, nella forma più esasperata, nel dilemma di vita e di morte, cementando le nostre sezioni col sangue dei nostri più devoti militanti; dovemmo trasformare, nell’atto stesso della loro costituzione, del loro arruolamento, i nostri gruppi in distaccamenti per la guerriglia, della più atroce e difficile guerriglia che mai classe operaia abbia dovuto combattere. Si riuscì, tuttavia: il partito fu costituito e fortemente costituito; esso è una falange d’acciaio …[48].

 
Considerazioni conclusive

Molte sono le lezioni che possiamo trarre dall’analisi delle vicende che hanno portato alla nascita del PCdI in particolare e dei partiti comunisti in generale, dal momento che si è trattato di un processo di carattere internazionale. Alcuni sviluppi delle situazioni di allora presentano affinità con quelle odierne che non si devono ignorare, anche se la storia non si ripete mai in modo perfettamente uguale, per ricavarne utile insegnamento. Molte questioni di allora conservano tutt’oggi la loro attualità, poiché sono ancora sostanzialmente aperte, sia pure nelle forme diverse che l’avanzare del tempo e il mutare delle condizioni oggettive determinano.

Occorre innanzitutto sottolineare, come il Komintern e i partiti che ne facevano parte, siano stati fucine di immensa progettualità politica e sedi di confronto e dibattito anche serrato e aspro, ma sempre libero e di altissimo livello.

La disciplina centralistica e quasi di tipo militare non inibiva mai la discussione analitica e il confronto di opinioni che devono precedere qualsiasi decisione e che, soli, garantiscono la composizione della sintesi più rispondente alla realtà e la condivisione della stessa disciplina.

La scissione di Livorno ha rappresentato, appunto, la sintesi nazionale, storicamente necessaria e inevitabile, della lotta internazionale contro l’opportunismo come tendenza all’interno del movimento operaio. Parlare di “responsabilità” soggettive quando si tratta, invece, di un evento direttamente determinato da ragioni e condizioni oggettive, interne ed esterne, è sbagliato, oltre che inutile.

Ugualmente, è da combattere con estrema decisione la posizione di chi accusa i comunisti di avere indebolito il movimento operaio con la scissione e di non avere voluto collaborare con la socialdemocrazia, favorendo così l’ascesa al potere del fascismo. Sono falsità, dettate da malafede politica, che cercano di ribaltare la storia per nascondere i veri, oggettivi genitori del fascismo, cioè il capitalismo e lo stato borghese con la complicità della monarchia e delle gerarchie clericali.

La Seconda Internazionale aveva appoggiato la carneficina della I Guerra Mondiale; i menscevichi avevano combattuto al fianco dei bianchi e degli interventisti contro il proprio proletariato; ancora la socialdemocrazia aveva sabotato la rivoluzione in Ungheria e in Germania, macchiandosi dell’assassinio di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg e del massacro degli operai tedeschi; in Italia, il PSI e la CGL, che già avevano tradito e sabotato i moti operai del Biennio Rosso, il 3 agosto 1921 firmeranno il Patto di Conciliazione con i fascisti. Di fronte a fatti del genere e nelle condizioni date, nessuna unità era più possibile con la socialdemocrazia.

La necessaria separazione dagli opportunisti non ha indebolito, ma rafforzato il movimento operaio, eliminando dal suo interno gli agenti sabotatori della borghesia, dotandolo, a livello internazionale, di quei reparti d’avanguardia del proletariato, come il PCdI, che sono stati l’unica efficace opposizione al fascismo, in grado di operare clandestinamente nei propri paesi e di condurre la Resistenza armata, cosa che sarebbe stata impossibile senza le scissioni comuniste, a destra o a sinistra che fossero attuate.

La lotta all’opportunismo rimane centrale anche oggi, sia sul piano nazionale che sul piano internazionale, dal momento che questa tendenza è oggi ampiamente diffusa anche nel Movimento Comunista Internazionale (MCI), dopo avere infettato, nel nostro paese, lo stesso PCI e i tutti i partiti che hanno cercato di assumerne l’eredità dopo il suo scioglimento. È difficile dire se una tempestiva scissione delle forze sane, ancora marxiste-leniniste, da quelle opportuniste, revisioniste e riformiste che con le prime convivevano nel PCI, fosse stata attuata nella sua fase eurocomunista anziché attendere la sua autodissoluzione, avrebbe potuto portare ad una situazione migliore, in termini quantitativi e qualitativi, di quella in cui oggi ci troviamo, ad una minore dispersione e debolezza dell’area comunista. Certo è che il confronto tra i dati sugli iscritti e i militanti di quegli anni e quelli di oggi rivela un distacco profondo del proletariato dalla politica attiva, frutto delle disillusioni e della sfiducia create proprio dalle deviazioni opportunistiche dei partiti che asserivano di rappresentarne gli interessi di classe e che, invece, erano solo preoccupati di mantenere i propri funzionari e i propri gruppi parlamentari dopo aver rinunciato alla rivoluzione per seguire la sola via delle elezioni e del parlamento. Come non vedere anche a questo proposito l’attualità del dibattito e delle indicazioni sulla tattica che in quegli anni il Komintern portava avanti?

Non meno importanti sono le riflessioni che le esperienze e le elaborazioni di quegli anni suggeriscono in merito all’unità e alle alleanze. La costruzione del partito comunista, oggi come ieri, non può realizzarsi per semplice sommatoria di gruppi, ma solo sulla base della condivisione dell’ideologia marxista-leninista e di un programma politico rivoluzionario, delle sue finalità e dei principi che lo animano, in uno stretto e fecondo rapporto con la classe operaia e le sue lotte, delle quali deve saper essere elemento di stimolo e avanguardia dirigente, organizzando le masse e ponendo loro chiari obiettivi transitori che consentano uno sviluppo rivoluzionario della lotta di classe. Significa avere la capacità di essere davanti agli eventi, non in coda ad essi. Questo è un altro importante insegnamento che ci viene dalle esperienze di quegli anni ormai lontani e che il nostro partito, il Fronte Comunista, fa proprio.

Se i partiti comunisti hanno saputo resistere e vincere il fascismo è soprattutto grazie al legame che essi avevano con l’Internazionale Comunista. La necessità di un coordinamento internazionale dei partiti comunisti è anch’essa più che mai evidente oggi, soprattutto dopo la temporanea vittoria della controrivoluzione in URSS e nei paesi socialisti. Certamente, oggi non sono ancora mature le condizioni per ripristinare il livello di coordinamento centralizzato e vincolante che aveva la Terza Internazionale: nel MCI manca quell’omogeneità ideologica e di principi che allora esisteva e ne garantiva la coesione prima ancora degli strumenti disciplinari; sono ancora troppo radicate in molti partiti le tendenze all’autonomia da un unico centro, suscitate dalla teoria delle “vie nazionali al socialismo”, sancita dal XX° Congresso del PCUS ed esasperata dall’eurocomunismo, che è servita da veicolo dell’opportunismo a livello internazionale; manca, infine, la base materiale di uno stato proletario che possa sostenere e ospitare un centro di coordinamento internazionale.

Se è vero che tali condizioni per ora non esistono, è altrettanto vero che dobbiamo lavorare attivamente per crearle: questo è il segno dell’impegno e della funzione che il Fronte Comunista intende assumere all’interno del MCI, al fianco di quei partiti che ne costituiscono la parte più avanzata e coerentemente marxista-leninista.


Note
[1]Il Patto di Londra del 1915, contropartita per l’uscita del regno d’Italia dalla Triplice Alleanza, in un primo tempo per la sua neutralità, poi per la sua adesione alla Triplice Intesa e dell’entrata in guerra a fianco di Francia, Inghilterra e Russia. Prevedeva un allargamento dei confini italiani ai danni dell’Impero Austro-Ungarico e della Turchia, oltre al consolidamento della supremazia italiana nel Mare Adriatico. Tipico esempio di diplomazia segreta imperialista, il Patto di Londra, come qualsiasi altro accordo imperialista segreto, fu reso pubblico proprio dal governo bolscevico, nato dalla Rivoluzione d’Ottobre.
[2]V.I. Lenin, La disfatta del proprio governo nelle guerre imperialiste, Opere Complete, v. 26, p. 286-291, Ed. Političeskaya Literatura, Mosca, 1967
[3]Ibidem.
[4] Il termine “socialdemocratici” in questo contesto ha un significato diverso da quello che assumerà dopo la costituzione dell’Internazionale Comunista e si riferisce ai partiti operai
[5]V.I. Lenin, Il Pacifismo e la parola d’ordine della pace, Opere Complete, v. 26, p. 165-166, Ed. Političeskaya Literatura, Mosca, 1967
[6]Nel febbraio del 1919 a Berna si tenne, per tentare di rianimare la II Internazionale, una conferenza dei principali partiti socialdemocratici europei, che fino a poco prima avevano sostenuto i propri stati borghesi, spingendo i proletari a scannarsi da parti opposte delle trincee della I Guerra Mondiale.
[7] Partito Comunista Russo (bolscevico), nome assunto dalla frazione bolscevica del Partito Operaio Socialdemocratico Russo a partire dall’8 marzo 1918
[8]A. Gramsci, L’Opera di Lenin, articolo non firmato, Il Grido del Popolo, n. 738, 14 settembre 1918
[9]A. Gramsci, L’Ordine Nuovo, 1° novembre 1919, I Popolari
[10]V.I. Lenin, I Compiti della III Internazionale, Opere Complete, v. 39, p. 101-102, Ed. Političeskaya Literatura, Mosca, 1967
[11]A. Gramsci, L’Ordine Nuovo, 14 agosto 1920
[12]Ibidem
[13]Il termine fu usato per la prima volta da K. Marx e F. Engels, che lo definirono sarcasticamente come «una malattia incurabile, un morbo, le cui sfortunate vittime sono compenetrate dal solenne convincimento che tutto il mondo, la sua storia e il suo futuro siano governati e indirizzati dalla maggioranza dei voti proprio di quell’organo rappresentativo che ha avuto l’onore di averli in qualità di suoi membri». (K. Marx e F. Engels, Opere Complete, II edizione, vol. 8, pag. 92)
[14]A. Gramsci, Superstizione e realtà, articolo non firmato, “L’Ordine Nuovo”, 8 maggio 1920
[15]Ibidem
[16]Ibidem
[17]A. Gramsci, Per un rinnovamento del Partito Socialista, “L’Ordine Nuovo”, 20 marzo 1920
[18]Ibidem
[19]A. Gramsci, Il Partito comunista, “L’Ordine Nuovo”, 4 settembre 1920
[20]Ibidem
[21]Statuto dell’Internazionale Comunista approvato al II Congresso, Protokoll, II, pag. 599, 4 agosto 1920, citato in: J. Degras, Storia dell’Internazionale Comunista attraverso i documenti ufficiali, vol. 1, p. 177
[22]V.I. Lenin, Tesi per il II° Congresso dell’Internazionale Comunista, Condizioni per l’adesione all’Internazionale Comunista, punto 2, Opere Complete, vol. 41, p. 206, Ed. Političeskaya Literatura, Mosca, 1967
[23]Ibidem, punto 7, p. 207
[24]Ibidem, punto 17, p. 209
[25]V.I. Lenin, Opere Complete, vol. 41, pp. 248—254, Ed. Političeskaya Literatura, Mosca, 1967
[26]V.I. Lenin, Tesi per il II° Congresso dell’Internazionale Comunista, vol. 41, p. 199, Ed. Političeskaya Literatura, Mosca, 1967
[27]Copia del verbale, 10/8, Archivio del Partito Comunista, 1920, 15/2, citato in P. Spriano, Storia del Partito Comunista, vol. 1, p. 77.
[28]Lettera del CEIC al Partito Socialista Italiano, 27 agosto 1920, K.I., 13, col. 2605, citata in: J. Degras, Storia dell’Internazionale Comunista attraverso i documenti ufficiali, vol. 1, p. 204-205. Della bozza di lettera la delegazione italiana ha preso visione il 10 agosto. Il testo pubblicato riporta l’inserimento di alcune modifiche volute da Serrati.
[29] A. Gramsci, I rivoluzionari e le elezioni, “L’Ordine Nuovo”, 15 novembre 1919
[30] Sottolineatura nostra
[31]Ibidem
[32] Sottolineatura nostra
[33]V.I. Lenin, Discorso sul Parlamentarismo, tenuto al II Congresso dell’Internazionale Comunista, agosto 1920, Opere Complete, vol. 41, p. 255-259, Ed. Političeskaya Literatura, Mosca, 1967
[34]Ibidem
[35]V.I. Lenin, Conclusioni sbagliate da giuste premesse, appendice a L’Estremismo, malattia infantile del comunismo, Opere Complete, vol. 41, p. 98-102, Ed. Političeskaya Literatura, Mosca, 1967
[36]V.I. Lenin, Sulla situazione internazionale e sui principali compiti dell’Internazionale Comunista, Rapporto al II Congresso dell’Internazionale Comunista, v. 41, p. 232, Ed. Političeskaya Literatura, Mosca, 1967
[37]Tesi sui partiti comunisti e il parlamento, 2 agosto 1920, Protokoll, II, p. 466, cit. in: J. Degras, Storia dell’Internazionale Comunista attraverso i documenti ufficiali, vol. 1, p. 168
[38]Ibidem, p. 169
[39]Ibidem, p. 170
[40]A. Gramsci, L’Unità, 1º ottobre 1926, Ancora delle capacità organiche della classe operaia
[41]Anselmo Marabini è un dirigente socialista emiliano, protagonista delle lotte contadine. Vicino al massimalismo e preoccupato di non perdere l’adesione di quanti, pur simpatizzando per l’Internazionale Comunista, hanno sempre dimostrato il proprio impegno sincero nelle file del PSI e a questa tradizione sono legati, propone l’adesione piena ai 21 punti dell’IC e il cambiamento di nome del partito in “Partito Socialista Comunista d’Italia”. A sostegno della Circolare Marabini-Graziadei si dichiareranno anche gli operaisti milanesi e diverse sezioni locali del PSI. Nel clima di aspra ostilità nei confronti di Serrati, la sua proposta verrà considerata come un ponte verso i centristi e quindi respinta dalla maggioranza della frazione
[42]P. Togliatti, La Nostra Esperienza, “Lo Stato Operaio”, a. V, n. I, gennaio 1931, p. 6
[43]G. Menotti Serrati, Vane difese massimaliste, “L’Unità”, 25 aprile 1926
[44]La mozione è integralmente riportata in un rapporto del Prefetto di Torino del 28 novembre 1920 (ACS, Ministero Interno, Direzione Generale di PS, G. I, b. 63)
[45]Lettera del CEIC al Congresso del PSI, gennaio 1921, K.I., 16, col. 3805, cit. in: J. Degras, Storia dell’Internazionale Comunista attraverso i documenti ufficiali, vol. 1, p. 227-228
[46]Risoluzione del III Congresso del Komintern sulla relazione del Comitato Esecutivo, 29 giugno 1921, Protokoll, II, p. 408, cit. in: J. Degras, Storia dell’Internazionale Comunista attraverso i documenti ufficiali, vol. 1, p. 247
[47]A. Gramsci, Contro il pessimismo, “L’Ordine Nuovo”, 15 marzo 1924
[48]Ibidem

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