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Spettri della Comune

di Enzo Traverso*

Come spiegare la longevità e la freschezza del ricordo della Comune? La risposta si trova nella sua straordinaria dimensione simbolica. Il suo lascito è stato difeso o condannato, ma nessuno ha potuto sminuirne l’impatto

comune parigi jacobin italia 1320x481C’è una contraddizione paradossale tra l’ascesa e la caduta fulminea della Comune di Parigi, un’esperienza straordinariamente effimera la cui vita non superò i settantadue giorni, e la sua presenza durevole nella nostra coscienza storica.

Visto attraverso la lente di quella che gli studiosi chiamano convenzionalmente «storia globale», ciò che accadde a Parigi tra il 18 marzo e il 28 maggio 1871 è quasi insignificante. I lavori più recenti sulla storia del XIX secolo – si pensi alle opere di studiosi come Christopher Bayly e Jürgen Osterhammel – la evocano soltanto come un dettaglio minore della guerra franco-prussiana. Se l’Ottocento fu il secolo del decollo del capitalismo industriale e finanziario, dell’urbanizzazione e della modernizzazione, del consolidamento degli imperi coloniali e della persistenza dell’Antico Regime in un continente già dominato dalla borghesia, la Comune di Parigi non significa quasi nulla.

La Comune, infatti, non ebbe un ruolo decisivo neppure nella guerra franco-prussiana, poiché arrivò sette mesi dopo la capitolazione di Napoleone III e la proclamazione della Repubblica, e due mesi dopo la firma dell’armistizio che trasferì l’Alsazia-Lorena alla sovranità tedesca. All’inizio di marzo, l’esercito prussiano vittorioso aveva già sfilato sugli Champs-Élysées, previamente isolati dal resto della città con un «cordone sanitario».

Come spiegare, allora, la longevità e la freschezza del ricordo di un evento così fugace? La risposta, evidente e in fondo banale, si trova nella straordinaria dimensione simbolica della Comune. Il suo lascito è stato difeso o condannato, ma nessuno ha potuto ignorarne o sminuirne l’impatto. Molti osservatori ne hanno commemorato il martirio e l’hanno definita, quasi immediatamente, al contempo come un tramonto e un’alba: la fine della sequenza delle rivoluzioni democratiche ottocentesche e l’inizio di una nuova era di rivoluzioni socialiste.

 

Portare la torcia

Anarchici come Peter Kropotkin e Mikhail Bakunin descrissero la Comune come l’annuncio del futuro e Karl Marx sottolineò le potenzialità comuniste dell’esperimento di Parigi: «Era essenzialmente un governo operaio, il prodotto della lotta dei produttori contro la classe appropriatrice, la forma politica finalmente scoperta sotto la quale elaborare l’emancipazione economica del lavoro». Come ha indicato con acume lo storico Georges Haupt, la Comune di Parigi diventò rapidamente sia un simbolo che un esempio: un simbolo del socialismo come futuro possibile e desiderabile; un esempio da integrare nella memoria socialista e da elaborare criticamente in vista delle lotte future.

Nel XX secolo, l’eredità della Comune di Parigi fu ampiamente appropriata e reinterpretata alla luce della Rivoluzione russa. Durante l’anno cruciale 1917, e in seguito durante la guerra civile russa, la Comune di Parigi fu ossessivamente presente nella mente dei bolscevichi fungendo alternativamente da monito e da modello. Ottobre 1917 aveva rafforzato il simbolo: l’annuncio di una nuova era socialista non era un’illusione. Ma aveva anche assimilato le lezioni della tragica sconfitta del 1871: i bolscevichi non dovevano ripetere i ritardi, le esitazioni e le debolezze dei comunardi. In Russia, le Guardie Bianche furono sconfitte da un Terrore rivoluzionario più forte e spietato di quello messo in atto dai comunardi.

Nel 1891, Friedrich Engels aveva definito la Comune di Parigi come un paradigma: essa aveva indicato cosa fosse la «dittatura del proletariato». Dopo il 1917, la Comune divenne una prefigurazione della rivoluzione bolscevica: venne inserita in una sequenza che rappresentava la marcia ascendente e irresistibile del socialismo dall’infanzia del 1789 al trionfo del 1917, passando per il 1830, il 1848 e, appunto, il 1871. Dopo la seconda guerra mondiale, quest’immagine fu ulteriormente rafforzata aggiungendo nuove tappe all’inarrestabile progresso verso il socialismo: la Cina nel 1949, Cuba nel 1958, e così via. La Comune – una rottura improvvisa, inaspettata e creativa del continuum storico – era diventata l’anello di una lunga catena, momento di un’evoluzione lineare teorizzata con le categorie dello storicismo marxista. I comunardi erano diventati eroici precursori dei bolscevichi. Egemone per un secolo, questa narrazione eclissò tutte le altre, compresa quella della storiografia francese, che dipingeva i bolscevichi stessi come epigoni dei giacobini, trasformandoli così in esecutori del messaggio liberatore del 1789 (Albert Mathiez), o delle sue pulsioni totalitarie (François Furet).

Il tentativo di iscrivere la Comune di Parigi in un Pantheon comunista è certamente discutibile, ma dovrebbe essere compreso criticamente anziché rifiutato con disprezzo. Senza dubbio, i bolscevichi erano ossessionati dalle «leggi della storia», che credevano di dominare e nelle quali coglievano la giustezza delle loro scelte politiche. Quando Leon Trotsky scrisse Terrorismo e comunismo (1920) dal suo treno blindato, nel mezzo di una sanguinosa guerra civile, il potere sovietico stava lottando per la propria sopravvivenza. Nella sua mente, i fantasmi della Comune non erano figure retoriche; risuonavano fortemente nel presente come avvertimenti drammatici. Questa non era né propaganda né mitologia: era piuttosto un momento di straordinaria empatia con i vinti, quando il passato riaffiora nel presente e chiede di essere riscattato. Resta il fatto che attraverso la sua rivisitazione bolscevica, la Comune venne interamente racchiusa dentro un prisma militare.

 

72 giorni di «utopia concreta»

Quella dei bolscevichi, tuttavia, era una visione retrospettiva. I comunardi non si consideravano attori o precursori di una rivoluzione comunista. Fu la propaganda di Versailles che, sottolineando la presenza significativa dei seguaci di Louis Auguste Blanqui tra i suoi protagonisti, denunciò la Comune come una forma pericolosa di comunismo ateo, vandalico e barbaro. Nei suoi giornali e nei suoi dibattiti pubblici, come pure in molte testimonianze dell’epoca, la Comune veniva di solito descritta come un modello di «Repubblica universale» o, più pragmaticamente, come un’esperienza di «Repubblica democratica e sociale». Infatti, con pochissime eccezioni, i suoi attori non volevano applicare ideologie o misure prestabilite; inventarono una nuova forma di potere sociale e politico, forse anche nuove «forme di vita», nelle circostanze straordinarie della guerra e della guerra civile, in una città assediata e impoverita.

In una riflessione retrospettiva, Élisée Reclus, il geografo anarchico che ne fu uno dei protagonisti, descrisse la Comune come

una nuova società in cui non ci sono padroni per nascita, titolo o ricchezza, e non ci sono schiavi per origine, casta o stipendio. Ovunque la parola ‘comune’ è stata intesa nel senso più ampio, come riferito a una nuova umanità, fatta di compagni liberi e uguali, dimentichi dell’esistenza di vecchie frontiere, che si aiutano vicendevolmente e pacificamente da un capo all’altro del mondo.

Inizialmente, la Comune voleva essere una nuova levée en masse, ispirata all’esempio del 1792, contro il nemico tedesco che aveva invaso il paese e contro il governo francese che voleva smantellare la difesa della città. La rivolta nacque dal rifiuto di rimuovere i cannoni di Belleville e Montmartre controllati dalla Guardia Nazionale. In altre parole, questo patriottismo rivoluzionario era diretto sia contro un nemico esterno che contro la minaccia interna rappresentata da Adolphe Thiers, capo di un esecutivo a maggioranza conservatrice e monarchica eletto a pochi mesi dalla sconfitta di Sedan e dalla proclamazione della Repubblica.

Gli insorti volevano instaurare un potere popolare basato sui principi di libertà, democrazia orizzontale, autogoverno, uguaglianza e giustizia sociale, senza sapere molto bene come questi obiettivi avrebbero potuto essere messi in pratica. Rivendicavano inoltre il ripristino delle libertà e delle prerogative municipali confiscate da un regime autoritario. Chiamarono «comunalismo» questa concezione federalista della democrazia e dell’autogestione, una concezione alla quale erano fortemente legati (e che diventerà una delle loro maggiori debolezze agli occhi di Vladimir Lenin e Lev Trotsky). La loro esperienza, dunque, non consisteva nell’applicare modelli preesistenti, secondo la tradizione del socialismo utopico francese; essi cercarono piuttosto di inventare una nuova utopia. Crearono qualcosa che prima non esisteva, con la spinta di quelle che Ernst Bloch ha definito le «correnti calde» dell’utopia, un’utopia che improvvisamente sembrava diventare «concreta e possibile».

La Comune di Parigi non mise in discussione il principio di proprietà, ma lo sottopose alle priorità dei bisogni collettivi. Invece di essere una fonte di disuguaglianze, la proprietà doveva essere «giusta ed equa». Abolì i debiti ai banchi dei pegni, fissò salari dignitosi e istituì l’autogestione delle fabbriche abbandonate dai proprietari, dopo che una parte significativa della borghesia aveva abbandonato la città insorta. Abolì i turni di notte nelle panetterie e introdusse ovunque il principio della rappresentazione elettiva dei lavoratori. Venne sospeso il pagamento degli affitti e furono requisiti gli alloggi vacanti. Non si impadronì della Banca di Francia, convinta ch’essa appartenesse all’intera nazione e non alla sola capitale, e lasciando così ai suoi nemici un’arma potente (altro sintomo di debolezza, secondo Marx e i bolscevichi). Parigi era soltanto una città – all’epoca la terza città più grande del mondo – in cui il potere era stato conquistato dalle classi lavoratrici.

Tra le sue conquiste giuridiche e politiche, la Comune stabilì la completa separazione tra lo stato e la Chiesa cattolica, che era stata un pilastro del conservatorismo e del regime di Napoleone III. La laicità venne estesa all’istruzione, e le insegnanti donne ottennero lo stesso salario dei loro colleghi uomini. La concezione reazionaria della famiglia venne superata con il riconoscimento delle coppie di conviventi e la concessione di pari diritti ai loro membri; la prostituzione fu assimilata a una forma di schiavitù e abolita. La Comune non estese il diritto di voto alle donne – è significativo che né Marx né Lenin ricordarono questo fatto come uno dei suoi limiti o errori – ma diede loro una nuova posizione nella società. La presenza delle donne nella Comune fu così rilevante da diventare un tema ossessivo della propaganda di Versailles, che inventò il mito delle pétroleuses: streghe, arpie, ninfomani, corpi isterici, femmine degenerate che distruggevano la famiglia e tutti i valori tradizionali, avevano abbandonato i loro figli e appiccavano il fuoco in riti estatici. Questa visione che riesumava una leggenda antica avrebbe caratterizzato per alcuni decenni l’immaginario reazionario di tutto il mondo.

Queste misure emancipatrici furono proclamate e cominciarono a essere applicate durante i settantadue giorni di vita della Comune. Al di là di queste riforme sociali e politiche, tuttavia, l’intera città sembrava sussultare in preda a una straordinaria effervescenza, coinvolta in un processo di trasformazione sociale dal basso. Artisti e intellettuali – Parigi era la capitale della bohème letteraria europea – crearono le proprie associazioni. I giornali popolari e le arti grafiche per due mesi fiorirono in un paese la cui cultura ufficiale era radicalmente ostile alle classi subalterne, solitamente raffigurate come una «plebaglia» spregevole. L’anticlericalismo e l’iconoclastia rivoluzionaria terrorizzarono le classi dirigenti dell’intero continente. La demolizione della Colonna Vendôme, descritta dai comunardi come simbolo del militarismo, dell’imperialismo, della «falsa gloria» e «un insulto dei vincitori ai vinti», divenne una prova del «vandalismo» della Comune, che Gustave Courbet, il famoso pittore chiamato a dirigere la Federazione degli Artisti, avrebbe pagato con la prigionia e l’esilio.

Nata come espressione di patriottismo rivoluzionario, la Comune era profondamente internazionalista. Proclamò che «qualsiasi città dovrebbe essere autorizzata a conferire la cittadinanza agli stranieri che la servono» e diede un significato concreto al suo principio di «Repubblica universale» integrando migliaia di immigrati, esuli e rifugiati che vivevano nella capitale francese. Gli archivi registrano 1.725 comunardi stranieri, che in molti casi assunsero importanti responsabilità: due eserciti comunali su tre erano guidati da comandanti polacchi e la Guardia Nazionale comprendeva una legione italiana. Molti stranieri facevano parte del suo consiglio, come Léo Frankel, un ebreo ungherese membro dell’Associazione internazionale dei lavoratori, che svolse le funzioni di ministro del lavoro.

La prova concreta che la Comune aveva distrutto l’ordine borghese fu la soppressione dell’esercito e la sua sostituzione con la Guardia Nazionale, che era stata ricostruita durante la guerra come milizia popolare. Poco dopo la «settimana di sangue» di maggio, Marx evidenziò due tratti distintivi della Comune: la rottura con la macchina repressiva statale e la democrazia radicale. Dopo aver conquistato il potere, scrisse Marx ne La guerra civile in Francia, la classe operaia si rese conto che non poteva «semplicemente impossessarsi della macchina statale già pronta e usarla per i propri scopi». La vecchia forza militare statale doveva essere sostituita con «il popolo armato». Allo stesso modo, la classe operaia creò i propri organi di governo:

La Comune era formata dai consiglieri comunali, eletti a suffragio universale nei vari rioni della città, responsabili e revocabili a breve termine. La maggioranza dei suoi membri erano naturalmente lavoratori o rappresentanti riconosciuti della classe operaia. La Comune era un organo operativo, non parlamentare, esecutivo e legislativo allo stesso tempo.

Non sappiamo se questa forma di democrazia radicale e diretta potesse funzionare a lungo termine. In Urss non funzionò mai, se non per pochi mesi, a causa dello scoppio della guerra civile e ben presto lasciò il posto a una dittatura di partito. Il carattere orizzontale della democrazia sotto la Comune era probabilmente rafforzato dalla mancanza di leader carismatici nelle sue assemblee e istituzioni. Le personalità di rilievo erano numerose ma non c’era nessuna figura travolgente come Robespierre, Zapata, Lenin o Trotsky. Anche questo dipese da una curiosa coincidenza: Bakunin era a Lione e non poteva raggiungere Parigi assediata; Auguste Blanqui era stato arrestato nel sud della Francia un giorno prima della rivolta del 18 marzo. Pertanto, democratici e repubblicani radicali, anarchici, proudhoniani, socialisti, blanquisti e persino marxisti (alcuni comunardi avevano una corrispondenza regolare con l’autore del Manifesto comunista che viveva a Londra) collaborarono senza instaurare una leadership partigiana. In molti casi, come durante lo scrutinio cruciale per la creazione del Comitato di salute pubblica, i blanquisti e i membri dell’Associazione internazionale dei lavoratori non votarono all’unanimità. Questa pluralità di opinioni condusse a un’esperienza feconda di deliberazione collettiva.

La Comune fu al contempo un potere «destituente» che aveva distrutto la vecchia macchina statale e un potere «costituente» che aveva stabilito una nuova sovranità opposta al governo di Versailles. Fu plasmata dalle tensioni e dai conflitti che caratterizzano ogni processo rivoluzionario: da un lato, l’entusiasmo per la libertà conquistata e l’entusiasmo, lo slancio emotivo che accompagnano la costruzione del futuro; dall’altro, la necessità di creare nuovi organi di comando in grado di resistere all’inevitabile reazione dei vecchi governanti. Il “comunalismo” democratico coesisteva con una dittatura latente nel bel mezzo di una guerra civile. Le misure autoritarie rivendicate da Raoul Rigault, il capo blanquista della sicurezza della Comune, facevano eco al terrore giacobino e prefiguravano la Ceka sovietica. Nei momenti più drammatici della sua effimera esistenza, dopo che Versailles rifiutò la liberazione di Blanqui e uno scambio di prigionieri, la Comune decise di giustiziare i suoi ostaggi.

 

Nemici della Comune

Tra la settimana di sangue del maggio 1871 e la Rivoluzione russa, la memoria della Comune fu censurata ed esorcizzata. Per un decennio fu silenziosamente preservata dai vinti e trasmessa criticamente dagli esuli. In Francia, la Comune divenne un evento innominabile, sempre evocato da spaventose allegorie come una catastrofe naturale. I suoi attori e le sue realizzazioni furono oggetto di una damnatio memoriae che li cancellava semplicemente dalla sfera pubblica. In cima alla collina di Montmartre, dove era iniziata la rivolta, fu costruita la basilica del Sacro Cuore «per espiare i crimini della Comune», che aveva giustiziato l’arcivescovo di Parigi. Subito dopo la repressione, le fotoincisioni che mostrano le gesta empie dei comunardi – dall’esecuzione di sacerdoti e l’incendio di chiese alla distruzione di edifici pubblici – inondarono l’intero paese, raccolte sotto il titolo Il Sabba rosso. Negli anni successivi l’aggettivo «rosso» fu bandito dai documenti ufficiali. Pur attraendo scrittori e artisti socialisti, anarchici, bohémien e anticonformisti – basti pensare a pittori come Courbet, Honoré Daumier, Jean-Baptiste-Camille Corot e Édouard Manet, o scrittori come Jules Vallès e il giovane poeta Arthur Rimbaud – la Comune venne stigmatizzata dalla stragrande maggioranza degli intellettuali francesi. Gustave Flaubert, Victor Hugo, Edgar Quinet, George Sand ed Émile Zola la consideravano uno scoppio di violenza cieca, anche se alcuni di loro chiesero l’amnistia dopo la settimana di sangue.

Per l’establishment intellettuale francese, la Comune non era il risultato di una guerra civile; rappresentava la terribile espressione di una malattia collettiva, di una pandemia che minacciava il corpo nazionale e doveva essere schiacciata. Come ha sottolineato Jean-Paul Sartre, la caratteristica più significativa della letteratura contro la Comune era il suo «biologismo sociale», che consisteva nell’assimilare i conflitti di classe a patologie naturali. Nel suo romanzo dedicato alla guerra franco-prussiana, La Disfatta (1892), Zola descrisse la Comune come «un’epidemia dilagante» e uno «stordimento cronico» provocati dalla fame, dall’alcol e dalla sifilide nelle condizioni di una città assediata. In Le origini della Francia contemporanea (1878), lo storico Hippolyte Taine la analizzò come «un germe patologico che, penetrato nel sangue di una società sofferente e gravemente malata, produsse febbre, delirio e convulsioni rivoluzionarie».

Secondo Maxime Du Camp, «praticamente tutti quegli sfortunati che hanno combattuto per la Comune erano ciò che l’alienismo chiama ‘malati’». Cesare Lombroso, il fondatore italiano dell’antropologia criminale, sottopose la Comune all’indiscutibile prova «scientifica» dell’antropometria e, dopo aver analizzato i cranî di decine di comunardi, concluse che la maggior parte di essi rivelava i tratti tipici del «criminale nato». Molti commentatori privilegiavano il linguaggio della zoologia, cogliendo tra i comunardi i sintomi della bestialità e della licantropia, una forma di «regressione barbara» in seno a un mondo civilizzato. Nell’ottobre 1871, il critico letterario Théophile Gautier paragonò i comunardi agli animali di uno zoo che erano improvvisamente fuggiti dalle loro gabbie e terrorizzavano la città:

bestie feroci, animali puzzolenti, creature velenose, tutte le perversità refrattarie che la civiltà non ha saputo domare, quelli che amano il sangue, quelli che si divertono con gli incendi dolosi come i fuochi d’artificio, quelli per i quali il furto è una delizia, quelli per i quali lo stupro rappresenta l’amore, tutti i mostri del cuore, tutti gli storpi d’animo; popolazione immonda, sconosciuta alla luce del giorno, sinistramente brulicante nelle profondità delle tenebre sotterranee. Un giorno, capita che il domatore distratto dimentichi le chiavi nella porta del serraglio, e gli animali feroci si disperdono nella città spaventata lanciando urla selvagge. Dalle gabbie aperte, si lanciano le iene del ’93 e i gorilla della Comune.

Questa prosa non era esclusivamente francese. Negli Stati uniti, il Chicago Tribune paragonò la Comune di Parigi a una rivolta degli indiani Comanche. A Buenos Aires, La Nación deplorò i crimini dei comunardi e puntò il dito contro l’ispiratore dei loro attacchi contro la civiltà: Marx, «un vero Lucifero», le cui lettere da Londra erano state ritrovate negli archivi del blanquista Raoul Rigault, il capo del Comitato di salute pubblica. Il mito di una cospirazione «cosmopolita» dietro le gesta dei lavoratori parigini si concentrò sull’Associazione internazionale dei lavoratori, che presto diventò una sorta di incubo satanico per la reazione europea e, parallelamente, secondo Friedrich Engels, una «forza morale» per il movimento operaio in tutto il mondo.

La colorita retorica dei nemici della Comune appartiene a una ricca tradizione controrivoluzionaria. Dopo la rivoluzione russa, il linguaggio della reazione non era cambiato in modo significativo. Basti pensare ai manifesti delle Guardie Bianche che ritraggono Trotsky come un orco ebreo, o anche a Winston Churchill, che raffigurava i bolscevichi come un’orda di babbuini che saltano su una collina fatta coi teschi delle loro vittime.

La settimana di sangue di maggio 1871 fu, a sua volta, il tramonto delle vecchie controrivoluzioni e l’alba della moderna repressione statale. Combattuta sulle barricate, essa appariva a prima vista come una ripetizione del giugno 1848, ma questa era la facciata, in parte fuorviante. La maggior parte dei comunardi caduti non furono uccisi nei combattimenti di strada ma furono giustiziati, dopo processi sommari, durante massacri metodici e seriali. L’esercito di Versailles non era composto da fanatici bonapartisti né da oscurantisti provinciali che volevano punire una capitale detestata, come la Vandea durante la Rivoluzione francese.

Secondo lo storico Robert Tombs, i soldati che perpetrarono questo massacro pianificato, disciplinato, organizzato e impersonale non avevano la consapevolezza di schiacciare una rivolta politica; pensavano piuttosto di estinguere un incendio criminale e ripulire la città, sanando una pericolosa infezione. Agivano senza emozione, eseguendo una misura di igiene pubblica, una misura «biopolitica» tesa a sanificare l’organismo nazionale. Nel maggio 1871, il generale MacMahon ripeteva i gesti del suo predecessore, Louis-Eugène Cavaignac, responsabile della repressione del giugno 1848, ma i suoi soldati perpetrarono un massacro che, rivisitato nel XXI secolo, annuncia lo sterminio sistematico perpetrato in Polonia dalle Einsatzgruppen durante la seconda guerra mondiale.

L’entità della repressione fu notevole. Gli storici stanno ancora indagando sul numero dei morti, con stime che variano da 5.400 a 20.000. Questo scarto significativo deriva dalla difficoltà di rendere conto dei morti nelle strade, delle vittime delle esecuzioni militari e delle migliaia che morirono nei giorni successivi per le ferite subite. Il rapporto redatto nel 1875 dal generale Raymond Appert dell’esercito di Versailles menziona 38.614 arresti e 50.000 sentenze emesse dal consiglio di guerra, che portarono a più di 10.000 condanne. Altri 3.800 comunardi furono deportati in Nuova Caledonia (dove molti di loro sostennero la ribellione Kanak nel 1878). Quasi 6.000 tra coloro che sfuggirono alla cattura trascorsero il decennio successivo in esilio. Per la maggior parte fuggirono in Inghilterra, Belgio, Svizzera, Spagna e Italia, ma anche negli Stati uniti e in diversi paesi dell’America Latina. Conosciamo i nomi di molti intellettuali in esilio (Gustave Courbet, Leó Frankel, Paul Lafargue, Louise Michel, Élie e Élisée Reclus, Jules Vallès), ma la grande maggioranza degli esuli erano artigiani e lavoratori manuali.

 

Spettri della Comune

I fantasmi della Comune sono riaffiorati nel XXI secolo. Abbiamo colto i loro echi a Oaxaca, in Messico, nel 2006, poi nel 2011, prima in Tunisia e in Egitto, poi a New York, con Occupy Wall Street, e a Puerta del Sol, Madrid, con il movimento 15M. Qualche anno dopo sono tornati in Francia, con la Nuit debout della primavera 2017 a Parigi e le Zad («zone da difendere») della Bretagna. I combattenti curdi del Rojava rivendicano l’eredità della Comune creando un’incredibile esperienza di democrazia diretta armata, egualitaria, femminista in un Medio Oriente devastato da guerre neocoloniali, fasciste e fondamentaliste. Per tutti loro, la Comune è un’esperienza significativa, tutto il contrario di un luogo della memoria archiviato e sepolto.

Ancora una volta, l’eredità della Comune ha conosciuto una metamorfosi inaspettata. Specchio eloquente di questo cambiamento è la memoria di Louise Michel, una delle sue figure più popolari, la cui immagine virtuosa e sacrificale della «vergine rossa» è stata sostituita da quella di una femminista queer. Un cambiamento analogo si è verificato con la dimensione sociale della Comune. I suoi attori erano artigiani, operai, insegnanti, miliziani della Guardia Nazionale, impiegati, artisti e scrittori bohémien; gli operai di fabbrica erano una minoranza relativamente piccola, mentre un gran numero erano lavoratori stagionali o giornalieri.

Il profilo sociale del comunardo medio era molto più vicino a quello di molti giovani contemporanei – lavoratori precari, studenti e intellettuali – che a quello degli operai industriali del XX secolo. La composizione interna eterogenea di questa classe operaia in gran parte preindustriale sembra avere molte affinità, nonostante i loro diversi contesti storici, con il proletariato postindustriale del capitalismo di oggi, nel nostro mondo neoliberista e postfordista. I tratti tipici della Comune, che praticò una rottura radicale, tanto profonda quanto effimera, abbandonando l’idea di un progresso lineare e graduale, sono quelli di molti movimenti alternativi contemporanei. Mentre le sue conquiste sociali e politiche furono rapidamente distrutte – alcune di esse sarebbero state realizzate decenni dopo – la Comune è sopravvissuta per un secolo e mezzo, soprattutto come interruzione della temporalità lineare – «omogenea e vuota» – del capitalismo e come irruzione di una nuova temporalità kairotica, qualitativa, dell’autoemancipazione. Da questo punto di vista, la Comune non è diventata un «futuro passato» – un’utopia ottocentesca – ma rimane la rappresentazione di un possibile futuro che ancora riverbera nel presente.

Liberata dalla teleologia storica del comunismo, la Comune sembra essersi estirpata dalla sequenza delle rivoluzioni sconfitte del Novecento e viene riscoperta come momento di singolare e irriducibile libertà collettiva. Non più vista come prefigurazione eroica ma immatura del bolscevismo, la sua rilevanza e attualità sono colte proprio in quelli che erano stati considerati i suoi limiti principali: la sua mancanza di centralismo, gerarchie o leadership egemonica; il suo federalismo; e la sua ricerca di nuove forme di democrazia orizzontale anziché la messa in atto di una dittatura implacabile. In breve, ciò che si riscopre nella Comune è il suo «comunalismo», che risuona potentemente con i dibattiti attuali sui «beni comuni»: la riappropriazione collettiva della conoscenza e della ricchezza, la difesa della natura come bene comune, contro il processo neoliberista di reificazione e privatizzazione globale. Sulla scia della Comune, le esperienze ricordate sopra non mirano all’applicazione di modelli astratti; sono momenti creativi di invenzione del futuro. In questo senso, esse rievocano la definizione della Comune data da Engels nel 1875 in una lettera ad August Bebel, la cui rilevanza è stata opportunamente segnalata da Kristin Ross. La parola «comune», spiegava Engels, non corrisponde a «comunità» o «municipalità»; è piuttosto l’equivalente della «eccellente vecchia parola tedesca Gemeinwesen», che non designa uno «stato» ma piuttosto «ciò che esiste in comune». In una lettera all’amico Ludwig Kugelmann, scritta nell’aprile 1871, Marx definì la Comune di Parigi con un’immagine lirica, una metafora presa in prestito da Omero: «dare l’assalto al cielo». Come i titani che assalivano l’Olimpo, i comunardi avevano rovesciato l’ordine costituito. L’assalto al cielo evoca al contempo uno slancio verso il futuro e la secolarizzazione di attese messianiche. Questa è forse la chiave per comprendere l’incredibile longevità di quei settantadue giorni della primavera parigina del 1871.


*Enzo Traverso insegna alla Cornell University, è autore tra l’altro di Malinconia di sinistra: Una tradizione nascosta (Feltrinelli, 2016). Questo testo, rivisto e aggiornato dall’autore, è comparso su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.

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romke
Saturday, 05 June 2021 20:30
Chissà perchè si inventano comuni a destra e a manca (popolate di spettri, per giunta!, secondo il nostro autore) e si scorda sempre la Comune di Shanghai del 1967 e strascichi per il decennio successivo nella stessa Shanghai e in molte altre situazioni cinesi. Forse perchè in queste ultime centinaia di migliaia di proletari hanno tentato un passo avanti, rispetto all'Ottobre 1917, nella pratica della dittatura proletaria?
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