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kriticaeconomica

Smith e Marx sono davvero così diversi?

di Alessandro Guerriero

Questo articolo vuole evidenziare le similitudini presenti tra l’analisi di Smith e quella di Marx sull’origine del profitto, due autori spesso ritenuti molto distanti tra loro e dunque raramente confrontati

Smith and Marx 1 min 696x365Nei passi delle loro due opere principali, ovvero “La Ricchezza delle Nazioni” di Adam Smith e “Il Capitale” di Karl Marx, è possibile invece trovare delle somiglianze. Questo alla luce del fatto che Marx si basa sulla teoria del valore-lavoro, che è presente già in Smith circa cento anni prima.

Una delle possibili similitudini attiene al profitto: Marx nel primo libro del capitale vuole svelare quello che gli economisti classici (leggi Smith e Ricardo) non avevano spiegato, ossia quale sia l’origine del profitto.

Secondo Marx la risposta si trova nel fatto che in una società capitalistica, poiché i mezzi di produzione sono nelle mani dei capitalisti, il lavoratore deve vendere la propria forza lavoro per avere in cambio un salario. Quest’ultima dunque si trasforma in una merce che si scambia sul mercato (per forza lavoro si intende la capacità astratta di ogni persona nel lavorare).

Semplificando, nella società moderna ogni lavoratore è obbligato a lavorare per avere un salario e quindi vende la sua forza-lavoro, che diventa infine una merce scambiata al suo prezzo naturale, ovvero il salario.

Per esempio, una merce comune potrebbe essere un orologio: generalizzando, l’orologiaio vende la sua merce, ovvero l’orologio, a 100 euro. La stessa cosa fa il lavoratore, che vende la sua merce, ovvero la forza lavoro, ad una cifra pari al suo salario.

Marx nota che il capitalista acquista la forza-lavoro del lavoratore al suo costo di produzione, che sarebbe il saggio del salario naturale, e la immette nel processo produttivo ottenendo una quantità maggiore del costo di produzione della forza-lavoro.

Esiste dunque uno “scambio di equivalenti nella sfera della circolazione”, nel senso che la forza lavoro viene remunerata con il saggio del salario naturale; ma c’è uno “scambio di non equivalenti nella sfera della produzione”, ossia il lavoro erogato è maggiore rispetto al costo di produzione della forza lavoro, e quindi non è equivalente lo scambio.

Questo vuol dire che il lavoratore viene impiegato per un tempo maggiore rispetto a quello che sarebbe sufficiente a riprodurre il suo saggio del salario. La differenza è proprio il profitto. In altri termini, il lavoro erogato nella produzione è maggiore rispetto al lavoro incorporato nel salario dato.

Facciamo un esempio: un salariato potrebbe lavorare in una fabbrica che produce automobili per 30 giorni e riceverebbe un salario al saggio naturale per quei giorni in cui ha prestato la sua forza-lavoro. Il fatto è che, se avesse avuto la proprietà dei mezzi di produzione, avrebbe potuto lavorare meno di 30 giorni, per esempio 20, e produrre direttamente il suo salario percepito lavorando in fabbrica. Si noti che bisogna considerare il salario non in termini monetari, ma in termini merceologici. Immaginiamo per semplificare quindi che il salario del lavoratore sia composto dalla sua sussistenza biologica, ovvero l’insieme di beni che gli permettono di sopravvivere.

Il lavoratore di una fabbrica lavora più tempo rispetto a quello che gli consentirebbe di produrre il suo salario, questo vuol dire che il lavoratore in parte lavora per il suo salario e per la restante parte lavora per i profitti, o come dice Marx, genera plusvalore.

Il lavoro incorporato all’interno del salario (20 giorni di lavoro) è minore del lavoro prestato in termini di forza-lavoro (30 giorni di lavoro).

Quindi, l’origine del profitto risiede nel fatto che i lavoratori nella società capitalistica non hanno la proprietà dei mezzi di produzione, e quindi sono costretti a prestare la loro forza lavoro (in termini moderni, sono obbligati a lavorare per altri, ovvero coloro che detengono i mezzi di produzione, i capitalisti).

Se i lavoratori disponessero dei mezzi di produzione potrebbero scegliere di non vendere la forza-lavoro (andare a lavorare in fabbrica) ma potrebbero produrre la propria sussistenza da soli, e quindi il prodotto del loro lavoro rimarrebbe nelle loro mani, come succede nella società naturale di Smith, Locke e Rousseau.

Qui risiede il collegamento fra Karl Marx e Adam Smith: nella Ricchezza delle Nazioni l’autore scozzese non vuole svelare l’origine del profitto, ma leggendo alcuni suoi passaggi si può intravedere che implicitamente giunge a conclusioni simili a quelle che circa cento anni dopo formulò Marx.

Smith analizza inizialmente una società in cui non c’è “accumulazione del capitale” o la proprietà privata della terra:

“Nello stato primitivo e incivile della società che precedeva l’accumulazione del capitale e l’appropriazione della terra, la proporzione tra le quantità di lavoro necessario per ottenere diversi oggetti sembra sia la sola circostanza che possa offrire qualche regola per scambiarli l’uno con l’altro. Se ad esempio tra un popolo di cacciatori per uccidere un castoro occorre doppio lavoro per uccidere un cervo, un castoro dovrebbe naturalmente scambiarsi contro due cervi. È naturale che ciò che è normalmente il prodotto di due giorni o di due ore di lavoro debba essere il doppio di ciò che è normalmente il prodotto del lavoro di un giorno e di un’ora. “ (La Ricchezza delle Nazioni, Libro 1, capitolo 6).

Quindi, il valore di scambio delle merci può essere misurato in valore incorporato nello stato primitivo e rozzo della società. Per lavoro incorporato si intende quante unità di lavoro sono presenti “all’interno” del bene: nel passo di Smith viene ipotizzato che un castoro viene cacciato in due giorni. Se consideriamo come unità di lavoro il giorno, allora il lavoro incorporato nel castoro sarà uguale a due, poiché il cacciatore impiega due giorni di lavoro per uccidere il castoro.

Inoltre, nell’analisi di Smith l’intero prodotto del lavoro rimane nelle mani del lavoratore.

Prima di passare ad uno stato moderno della società, bisogna introdurre il concetto di lavoro comandato per misurare il valore delle merci, ossia quanto lavoro può essere acquistato (comandato) da una merce. Questo vuol dire che se una persona avesse il castoro dell’esempio precedente, potrebbe chiedere ad un lavoratore di lavorare per lui. Il primo potrebbe offrire il castoro (con il lavoro incorporato uguale a due) e il lavoratore dovrebbe lavorare per lui due giorni. Quindi un castoro comanda due giorni di lavoro. In questo caso, ovvero nello stato primitivo e rozzo, il lavoro comandato e quello incorporato coincidono, ma questo non succede nella trattazione successiva di Smith.

Quando si abbandona lo stato primitivo:

“non appena il capitale si è accumulato nelle mani di determinate persone, talune di esse vorranno naturalmente impiegarlo facendo lavorare gente industriosa, cui forniranno materiali e sussistenza per trarre un profitto dalla vendita della loro opera o da ciò che il loro lavoro aggiunge al valore dei materiali. Scambiando il prodotto finito contro moneta o contro lavoro o contro altri beni, oltre a ciò che può bastare a pagare il prezzo dei materiali e i salari degli operai, deve essere dato qualcosa per i profitti dell’imprenditore che rischia il suo capitale nell’impresa. Il valore che gli operai aggiungono ai materiali si compone quindi in questo caso di due parti, una delle quali paga i loro salari e l’altra i profitti del loro datore sull’insieme dei materiali e dei salari che egli ha anticipato…” (La Ricchezza delle Nazioni, Libro 1, capitolo 6).

Cosa significa? Riprendiamo l’esempio del castoro. Se un lavoratore impiega due giorni di lavoro per cacciare un castoro, prima avrebbe avuto l’intero castoro, il prodotto del lavoro sarebbe andato interamente a lui. Ora invece si ipotizza che la metà del castoro vada a remunerare il profitto del capitalista: il lavoratore lavora due giorni per avere mezzo castoro, cioè dovrebbe lavorare quattro giorni per avere un castoro intero.

Quindi, se una persona avesse un castoro potrebbe comandare quattro giorni di lavoro, vediamo le implicazioni di questo ragionamento.

La prima implicazione è che il lavoro comandato (quattro giorni) sarà maggiore del lavoro incorporato (due giorni).

La seconda implicazione è che il lavoratore immette nel processo produttivo la sua forza-lavoro, pari a quattro giorni, e riceverà come “salario” un castoro, che ha come lavoro incorporato due giorni di lavoro.

Questo vuol dire che il lavoratore lavora per un tempo maggiore rispetto a quello che sarebbe sufficiente a riprodurre il suo saggio del salario (considerandolo come un castoro). Perciò, per Smith, nello stato primitivo e rozzo della natura, con assenza di accumulazione del capitale, il lavoratore può produrre il suo bene e tenere tutto il prodotto del lavoro. Seguendo l’esempio, il cacciatore lavora solo due giorni e ottiene il castoro.

Con l’accumulazione del capitale questo non è possibile, e una parte del suo lavoro andrà ai profitti (sovrappiù). Infatti, in questo caso il lavoratore in quattro giorni ottiene solo un castoro, poiché l’altro deve andare a remunerare i profitti.

Anche qui, in parte il lavoratore lavora per sé stesso e in parte per creare profitti, come avveniva in Marx. In entrambi è l’accumulazione del capitale e quindi il fatto che il lavoratore non possa più produrre indipendentemente che porta alla nascita del profitto.

Sia Smith che Marx spiegano che i capitalisti utilizzano la forza-lavoro per produrre merci. Smith sottolinea che solo una parte del prodotto del lavoro va ai salari, e che quindi impiegando i lavoratori si potrà ottenere un sovrappiù.

Essenzialmente Marx dice qualcosa di simile: impiegando la forza lavoro (v, ovvero capitale variabile) nella produzione, il capitalista otterrà un plusvalore (s).

In conclusione, Smith vede l’origine del profitto in ciò che Marx chiamerà pluslavoro, ovvero la parte del lavoro che non andrà al lavoratore. La grande differenza sta nel fatto che quello che per Smith è l’espressione di una società naturale, per Marx non lo è affatto.

Il passaggio dalla società naturale alla società moderna, in cui vi è la presenza del capitale, comporta la divisione del lavoro, che in termini più moderni si potrebbe chiamare standardizzazione. Secondo Smith la produttività dei lavoratori sarebbe aumentata se essi avessero compiuto la stessa parte del processo di produzione, di fatto ripetendo la stessa azione all’infinito. L’autore scozzese nella Ricchezza delle Nazioni anticipa il concetto di alienazione di Marx, e a differenza di quanto erroneamente sostenuto, ritiene fondamentale la presenza dello Stato nel settore dell’istruzione. Quindi, il governo deve intervenire proprio per correggere gli effetti distorsivi della società avanzata. Questi due concetti emergono dal seguente passo:

“Con il progredire della divisione del lavoro, l’occupazione della gran parte di coloro che vivono per mezzo del lavoro, cioè di gran parte della popolazione, finisce per essere limitata ad alcune operazioni semplicissime, spesso a una o due. Ma l’intelletto della maggior parte degli uomini è necessariamente formato dalle loro occupazioni ordinarie. Chi passa tutta la sua vita a eseguire alcune semplici operazioni, i cui effetti sono inoltre forse sempre gli stessi o quasi, non ha occasione di esercitare l’intelletto o la sua inventiva nell’escogitare espedienti per superare difficoltà che non si presentano mai. Perciò, egli perde naturalmente l’abitudine di questo esercizio e generalmente diventa tanto stupido e ignorante quanto può diveltarlo una creatura umana… Sembra così che la sua abilità nel suo particolare mestiere venga acquistata a spese delle sue qualità intellettuali, sociali e marziali. Ma in ogni società progredita e civile questo è lo stato in cui i poveri che lavorano, cioè la gran massa del popolo, devono necessariamente cadere a meno che il governo si prenda qualche cura di impedirlo. Le cose stanno diversamente nelle cosiddette società barbare, di cacciatori, pastori e anche di agricoltori in quello stadio primitivo dell’agricoltura che precede il progresso delle manifatture” (La ricchezza delle Nazioni, libro V, capitolo 1, parte terza)

È dunque possibile affermare che le conclusioni a cui giungono Smith e Marx sono simili negli argomenti affrontati. Sta al lettore l’onere di interpretare Smith come anticipatore di Marx, o Marx come smithiano.

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