Ricardo, Marx, Sraffa e i comunisti
di Ascanio Bernardeschi
Nella Sezione "Scuola Quadri" di "Cumpanis" è stato pubblicato, lo scorso 29 aprile, un intervento del professore di Economia e Diritto, e collaboratore del nostro giornale, Federico Fioranelli. Un articolo relativo al pensiero del grande economista comunista Piero Sraffa. In relazione a questo articolo ci ha inviato una propria riflessione il compagno Ascanio Bernardeschi, del giornale comunista on-line "La Città Futura". Bernardeschi è un compagno ed un intellettuale marxista che molto stimiamo e che ringraziamo per la sua attenzione al nostro giornale. Pubblichiamo l'interlocuzione di Bernardeschi, alla quale seguirà una replica del compagno Fioranelli
Il 29 aprile, su Cumpanis, Federico Fioranelli propone un buon sunto del contributo di Piero Sraffa all’economia politica volto a rivalutare la teoria degli economisti classici e in particolare quella di David Ricardo, di cui l’illustre economista era un profondo conoscitore, e a porre le basi per una critica della teoria economica marginalista.
La parte dell’articolo che riferisce i contributi precedenti a Produzione di merci a mezzo di merci espone succintamente alcune critiche assai penetranti di quella teoria la quale, per puri motivi ideologici, rappresentava all’epoca di quelli scritti, che dista quasi un secolo dall’oggi, l’ortodossia sciorinata in tutte le salse ai malcapitati studenti dei corsi di economia politica, o economics, come si ama dire oggi dopo aver sbianchettato la parola “politica”. Purtroppo, nonostante quelle critiche, questa ortodossia sopravvive tuttora. Credo che comunque, averne lucidamente evidenziato le falle, sia stato un grande merito di Sraffa, forse il suo maggiore, nonostante sia poco conosciuto. È cosa assai apprezzabile quindi che sia stato messo a conoscenza del lettore di Cumpanis.
Il contributo successivo dell’economista amico di Gramsci, molto più gettonato – e le ragioni potranno essere intuite proseguendo nella lettura -, pubblicato negli anni 60, ha dato luogo invece a una serie interminabile di commenti e dispute. Come afferma con una qualche dose di ragione Fioranelli, questo lavoro recupera le fondamenta della scuola classica. Sono invece meno convinto dell’altra sua asserzione secondo cui recupererebbe anche la teoria marxista.
Cercherò di spiegarne i motivi ma preliminarmente vorrei affrontare una questione terminologica e tuttavia non del tutto irrilevante. L’Autore, in compagnia con la quasi totalità dei commentatori, tra cui lo stesso Lenin, usa l’espressione, riferendosi a Marx, “teoria del valore-lavoro” che, come ha rilevato l’attendibile studioso Roberto Fineschi, il diretto interessato non ha mai usato. Questa dizione è stata invece introdotta per la prima volta dal marginalista austriaco Eugen Ritter von Böhm-Bawerk (Fineschi 2012), protagonista, secondo me, della più goffa critica alla teoria marxiana del valore avendo rivelato una presunta contraddizione fra il primo e il terzo libro del Capitale, quando invece lo scopo di Marx fu quello di dimostrare che i prezzi di produzione derivano dalla trasformazione dei valori per effetto della concorrenza fra capitali e che quindi i valori sono necessari per tale derivazione. Sarebbe una questione di ecologia comunicativa non chiamare una teoria, cui l’Autore parrebbe fondamentalmente aderire, nonostante ne denunci alcune (presunte) imperfezioni, con i termini usati da un feroce e poco documentato critico di tale teoria.
Ma passiamo alla sostanza. Una sostanza rispetto alla quale le opinioni sono molto divergenti, per cui mi accingo a illustrare la tesi che ritengo più convincente, diversa da quella di Fioranelli. Sono infatti del parere che questa ricostruzione sraffiana poco conservi del lascito marxiano. È vero che Sraffa, come del resto già Ricardo, dimostra gli interessi contrapposti fra capitalisti e lavoratori. Ma mi pare che a Ricardo torni e in Ricardo resti. Forse con qualcosa di meno. Infatti, se il grande economista classico poteva sostenere che il profitto non è che una sottrazione dal valore prodotto dai lavoratori, con il modello di Sraffa, in cui avviene la sostituzione della merce tipo al lavoro, non si riesce a chiarire se il capitalista sfrutti il lavoratore, appropriandosi di una parte del “sovrappiù” (trattandosi di merci non si può impiegare il termine “plusvalore”, né tanto meno pluslavoro) o se sia il lavoratore, qualora si impossessi di una parte di questo sovrappiù, che sfrutta il capitalista, come aveva già evidenziato a suo tempo Claudio Napoleoni. Il motivo essenziale lo indica involontariamente Fioranelli: “anziché misurare le merci in lavoro, come fanno Marx e Ricardo, Sraffa misura il lavoro in merci” e quindi scompare il lavoro come unica fonte e misura intrinseca del valore. Ma, ammesso pure che sia effettivamente salvaguardata l’importante intuizione ricardiana, fermarsi qui fa perdere di vista la cesura che Marx opera rispetto all’economia classica. Non a caso l’altro economista di Cambridge, amico di Sraffa e importante studioso di Marx, di cui aveva curato l’edizione italiana del libro I del Capitale per gli Editori Riuniti, Maurice Dobb, ebbe a dire che il lavoro del suo amico era rigoroso sul piano formale ma muto sul piano storico.
I dettagli sono sempre noiosi, ma spesso necessari. Chiedo perciò un po’ di pazienza per gli argomenti che seguono.
Il modello di Produzione di merci a mezzo di merci correttamente sintetizzato dall’Autore, consente di determinare simultaneamente i prezzi e una variabile distributiva (il saggio del profitto o il salario) purché si conosca l’altra. In tal modo si è ritenuto sia stata lanciata un’altra freccia contro la teoria marginalista. Se infatti i prezzi – quelli delle merci prodotte coincidenti con quelli delle merci impiegate nella produzione – debbono essere così determinati, non ha senso parlare di costo marginale – e produttività marginale – del capitale e del lavoro, in quanto tale costo può essere conosciuto solo a posteriori. In altri termini i marginalisti per determinare i prezzi utilizzano il costo marginale, ma per conoscere quest’ultimo dovrebbero conoscere i prezzi, e quindi il ragionamento sarebbe circolare e senza via di uscita.
Diversi economisti hanno però rilevato che questa critica si può applicare nella sostanza anche all’impostazione marxiana. Infatti, se il prezzo dei mezzi di produzione e dei mezzi di sussistenza dei lavoratori (in termini marxiani degli elementi del capitale costante e del capitale variabile) debbono essere determinati simultaneamente a quelli del prodotto, allora anche il procedimento marxiano di trasformazione dei valori in prezzi di produzione è fallace, perché presuppone come noti il valore del capitale costante e del capitale variabile che invece sono determinabili solo a posteriori. In alternativa o in aggiunta a tale lettura i più ritengono che Marx, non disponendo di questi prezzi, sia partito direttamente dai valori non trasformati, ritenendoli una buona approssimazione ai prezzi, ma compiendo così un errore sistematico che avrebbe sottovalutato. È stato infatti dimostrato che il risultato di tale procedimento diverge da quello del sistema sraffiano, considerato l’unico corretto.
Molti marxisti sono caduti in questa trappola e per decenni, dopo aver cercato di separare il bambino dall’acqua sporca, apportando rettifiche all’impianto marxiano – fra i tentativi più noti c’è quello di Ladislaus von Bortkiewicz (Bortkiewicz 1952) –, a seguito di puntuali obiezioni, hanno dovuto ammettere che anche il bambino è mal messo e hanno abbandonato la teoria marxiana del valore, approdando a un ricardo-sraffa-keynesismo che piace tanto anche a una certa sinistra di alternativa.
Perché anche keynesismo? Perché una volta abbandonata la teoria marxiana del valore la legge della caduta tendenziale del saggio del profitto rimane indimostrabile. Addirittura, sulla base di una modello di impianto sraffiano, il giapponese Nobuo Okishio (Okisho 1961) ha dimostrato un famoso teorema secondo cui un miglioramento tecnologico che aumenta il profitto per l’impresa innovatrice non può che aumentare anche quello medio del sistema quando tale miglioramento viene adottato in maniera generalizzata. Ma se non vale la legge della caduta del saggio del profitto, rimane un’unica spiegazione della crisi di sovrapproduzione, quella da domanda. Ecco dunque l’approdo a Keynes, con le necessarie conseguenze anche sul piano delle strategie politiche. Non che Marx non si fosse posto la questione della domanda, ma la considerava solo una delle cause, neppure la principale, della crisi essendo l’altra la caduta tendenziale del saggio del profitto. Approdare a Keynes significa rinunciare almeno a una metà della spiegazione marxiana della crisi e cadere nell’illusione che se ne possa uscire con politiche di sostegno della domanda, politiche che invece deprimono il saggio del profitto e per questo sono oggi rigettate nelle economie mature. Su questo aspetto mi permetto di rinviare a un mio saggio (http://www.dialetticaefilosofia.it/public/pdf/5bernardeschi_marx_crisi.pdf).
Più che “risolvere la questione rimasta insoluta” da Marx, al di là delle migliori intenzioni di Sraffa, questo approccio ha portato acqua al mulino dei suoi detrattori, oppure ha determinato “correzioni” di cui si è fatto beffa anche il premio Nobel Paul Samuelson: “(1) scriviamo le relazioni di valore; (2) prendiamo una gomma e cancelliamole; (3) infine scriviamo le relazioni di prezzo, completando così il cosiddetto processo di trasformazione” (Samuelson 1979).
In effetti la critica marxiana dell’economia politica, riscritta secondo il vangelo degli economisti di scuola sraffiana, si riduce a ben poca cosa a ben poca cosa.
Ma veramente Marx aveva sottovalutato il problema della formazione dei prezzi in regime di concorrenza fra capitali e ritenuto i valori una buona approssimazione ai prezzi, utilizzandoli perciò nel suo procedimento di trasformazione al posto dei prezzi dei fattori produttivi? Ho seri dubbi in proposito. Pur nel carattere di incompletezza e di abbozzo del terzo libro del Capitale, in cui viene affrontato il problema, la trattazione non è così naif come molti suppongono. Infatti in questa sede Marx non parte dal lavoro contenuto nelle merci che costituiscono il capitale ma dai prezzi di costo. Quindi il valore del capitale impiegato è un valore già trasformato in prezzo perché si riferisce a merci prodotte in un precedente processo produttivo, non in quello in cui vengono impiegate, e acquistate al loro prezzo che non è perciò ricavabile simultaneamente a quello del prodotto. È sorprendente che pochissimi commentatori si siano interrogati sul significato dell’espressione “prezzo di costo”.
La metamorfosi del Capitale, come è noto, assume la forma D-M-D’. All’inizio c’è quindi una quantità di denaro che viene messa in circolazione per acquistare i fattori produttivi al loro costo. Il valore del capitale è quindi corrispondente al lavoro astratto rappresentato da quella somma di denaro investita e non al lavoro speso per la produzione delle merci (mezzi di produzione e mezzi di consumo dei lavoratori) che sono impiegate come capitale. È quella somma di denaro che il capitalista intende valorizzare e a quella somma si deve rapportare il plusvalore realizzato per determinare il saggio del profitto. Ed è un valore noto, conseguente agli esiti di precedenti processi produttivi e dell’azione della concorrenza all’atto di acquisto che, ripeto, precede il loro impiego nella produzione. Sraffa, ipotizzando invece una simultaneità, e con ciò l’equilibrio generale, mutua un aspetto della teoria del noto marginalista Leon Walkras.
Le merci impiegate come capitale non sono le stesse merci che escono dal processo produttivo, sono merci già prodotte in precedenza. Spesso non sono neppure lo stesso tipo di merce, come per esempio un computer di nuova concezione prodotto utilizzando computer di precedente concezione. Il nuovo computer non può rientrare come capitale costante fra i mezzi di produzione, se non in un successivo processo produttivo. Ugualmente un nuovo mezzo di consumo, per esempio un muovo modello di cellulare, prodotto da lavoratori che ancora non possono acquistarlo perché non disponibile all’atto della sua produzione, non rientra nei beni di consumo dei lavoratori che lo producono e conseguentemente nel capitale variabile.
Torniamo a Marx.
“Si era dapprima partiti dalla supposizione che il prezzo di costo di una merce sia uguale al valore delle merci consumate nella produzione di essa […]. Dato che il prezzo di produzione può differire dal valore della merce, anche il prezzo di costo di una merce, in cui è incluso il prezzo di produzione di altre può essere superiore o inferiore [… al] valore dei mezzi di produzione che entrano in quella merce. È necessario tener presente […] quindi che un errore è sempre possibile quando […] il prezzo di costo viene identificato col valore dei mezzi di produzione” (K. Marx, Il capitale, libro III, Ed. Riuniti, 1989, pp.205-206).
Marx, introducendo i prezzi di costo, non compie questo errore di identificazione!
Non è questa la sede per ulteriori approfondimenti. Il lettore interessato può documentarsi attingendo alla vasta letteratura sulla Temporal Single System Interpretation (TSSI), facilmente reperibile in rete in cui si produce un sistema generale coerente con l’impostazione marxiana e compatibile sia con un saggio uniforme del profitto, sia con un ventaglio di saggi differenziati in ragione di situazioni caratterizzate da un certo grado di monopolio. Una raccolta di contributi è disponibile qui (http://pombo.free.fr/freemancarchedi.pdf). In lingua italiana, oltre all’esilarante Pala 1988, consigliamo la raccolta di saggi a cura di Luciano Vasapollo (Vasapollo 2002).
Si potrebbe aggiungere che una serie di studi econometrici effettuati elaborando dati statistici delle maggiori economie mondiali in molteplici annualità concordano nell’asserire che i prezzi di produzione calcolati alla maniera di Marx approssimano non meno di quelli di Sraffa i prezzi reali. Riguardo al ritorno delle tecniche, di cui riferisce l’Autore, tali studi appurano che nell’economia reale il ritorno delle tecniche non si verifica in quanto l’andamento delle rispettive curve è fortemente approssimato da segmenti di retta. In italiano è possibile consultare Ochoa 1989.
Sempre a proposito di studi quantitativi, è stato verificato anche che la diminuzione del saggio del profitto (fenomeno storico incontrovertibile) normalmente precede e non segue la riduzione degli investimenti che determinano la contrazione della domanda aggregata (Carchedi 2018). Quindi la caduta del saggio del profitto parrebbe una spiegazione della sovrapproduzione non meno importante del deficit della domanda.
Ho cercato di riferire, forse con troppa sinteticità di contributi su un tema che è ancora dibattuto e che non vede concordi gli studiosi. Mi auguro che gli articoli preparati per la sezione “Scuola Quadri” di Cumpanis possano consentire di far conoscere, ai lettori in generale e ai compagni in formazione in particolare, un panorama più completo delle varie posizioni al riguardo. Questo mio contributo spero serva da stimolo per questa più completa rappresentazione dello stato dell’arte.
Tuttavia anche in una società socialista e comunista deve realizzarsi una generazione e accumulazione di surplus, ma in un quadro di rapporti valoriali e sociali di produzione e configurazione spirituale, che supera la miseria infernale filosofica e reale del capitalismo.
concreta dell'accoglienza dello spirito.
Tranne che la "naturlatità completata" (fine della Storia) non è totalmente compresa, dagli stessi marxisti (controrivoluzionari).