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La MMT spiega la crisi dell’Eurozona ed il ruolo della moneta?

Un commento a Bonetti e Paesani

di Angelantonio Viscione

1365403412 mnb srequestmanagerqaaNell’articolo “La MMT dalla teoria alla prova dell’Eurozona”, Alessandro Bonetti e Paolo Paesani ripercorrono sul Menabò i cardini della Teoria della Moneta Moderna per offrire una chiave di lettura ed alcuni spunti di riflessione riguardo la recente storia della crisi dei debiti sovrani dell’Eurozona. Bonetti e Paesani, infatti, nella parte finale del proprio contributo confrontano brevemente l’interpretazione dell’eurocrisi avanzata dai teorici MMT con quelle di altri filoni di ricerca, allo scopo di stimolare un dibattito che immerga la teoria economica nell’esperienza dell’eurocrisi e viceversa. Partendo proprio da dove si conclude il contributo dei due autori, questo articolo evidenzia più da vicino alcuni caratteri peculiari della crisi dei debiti sovrani, per poi offrire un ulteriore spunto di riflessione di tipo teorico.

Innanzitutto, la crisi che ha colpito le economie europee tra il 2008 ed il 2009 ha riguardato i debiti sovrani, generalmente, solo in seguito ai piani di salvataggio adottati dagli Stati dell’Unione monetaria. Lo riconosceva lo stesso ex vice-presidente della Banca centrale europea, Vítor Constâncio, in un ormai celebre discorso tenuto ad Atene nel 2013 in cui sosteneva che, contrariamente ai debiti pubblici, è stato il livello complessivo del debito privato ad aumentare di ben il 27% durante i primi sette anni dell’Ume ed, in modo particolare, in Paesi che successivamente sarebbero stati sotto forte pressione come Grecia (+217%), Irlanda (+101%), Spagna (+75,2%) e Portogallo (+49%), mentre la crescita ripida del debito pubblico sarebbe iniziata solo dopo – e non prima – lo scoppio della crisi finanziaria.

Se i debiti privati crescono tanto nei primi anni dell’Unione monetaria è anche grazie al fatto che il sistema bancario dei Paesi centrali finanziava famiglie ed imprese dei Paesi periferici. Come vedremo, si tratta di processi resi possibili soprattutto dal surplus commerciale di cui godono le economie più forti dell’Eurozona nei confronti di quelle più deboli e dall’impianto “neoliberista” di un’Unione che pone ben pochi vincoli al mercato unico. L’architettura istituzionale dell’area euro permetteva infatti a Paesi in sistematico avanzo commerciale, come la Germania, di crescere grazie al continuo e facile indebitamento di Paesi in disavanzo (come i Paesi citati poc’anzi, conosciuti anche sotto lo spiacevole acronomico “PIGS”), creando una situazione insostenibile nel lungo periodo. Si tratta di una tesi ormai più che condivisa a livello istituzionale, come dimostrano all’indomani dell’eurocrisi le posizioni verso il surplus tedesco del Tesoro degli Stati Uniti, le raccomandazioni del Fondo Monetario Internazionale e, persino, i documenti della stessa Commissione europea.

All’origine di una simile performance da record di una bilancia commerciale vi sono, ovviamente, una molteplicità di fattori, sia quantitativi che qualitativi, ma un ruolo centrale viene rivestito certamente da due di essi: il tasso di crescita del costo del lavoro ed il tasso di cambio. Per quanto riguarda il primo fattore, la Germania ha conosciuto sin dall’introduzione dell’euro un’importante contrazione relativa del costo del lavoro per unità di prodotto rispetto al resto d’Europa. In altre parole, come dimostrato in più occasioni anche da Riccardo Realfonzo, i salari nominali tedeschi sono cresciuti sistematicamente ad un ritmo inferiore rispetto alla media dell’area euro, favorendo quindi la contrazione della domanda interna (e dell’import) e l’incremento delle esportazioni. Si tratta del risultato delle importanti politiche di deflazione salariale adottate: riforme come il Piano Hartz dei primi anni 2000 hanno aumentato il grado di flessibilità del mercato del lavoro tedesco e, di conseguenza, moderato le rivendicazioni dei lavoratori. Limitazioni ai sussidi di disoccupazione, l’introduzione di contratti di lavoro con orari ridotti e paghe inferiori, licenziamenti più facili e tutte le prescrizioni che rientrano nel quadro della liberalizzazione del mercato del lavoro hanno contribuito a frenare la crescita delle retribuzioni. Il secondo fattore determinante, il tasso di cambio, è riferito alla moneta unica. Il cambio dell’euro, infatti, risulta certamente più debole rispetto a quello che sarebbe stato il cambio del marco tedesco con simili performance della bilancia commerciale. Condividendo la stessa moneta con le altre economie dell’Unione monetaria, un’economia forte come la Germania riesce ad aumentare le proprie esportazioni nette (il saldo tra esportazioni ed importazioni) senza conoscere forti apprezzamenti della propria valuta e, quindi, senza equivalenti perdite di competitività sui mercati internazionali. È chiaro, dunque, che la perdita che subiscono negli anni i salari aggregati dei lavoratori in Germania si traduce in maggiori profitti per il sistema delle imprese.

A questo punto, è necessario aggiungere un ultimo importante tassello al nostro quadro: l’impiego del capitale accumulato. I maggiori profitti delle imprese tedesche, in gran parte, non vengono reinvestiti in un’economia con domanda interna debole. Secondo il database Ameco della Commissione europea, infatti, dall’introduzione dell’euro nel 1999 fino alla vigilia della crisi nel 2007, gli investimenti delle imprese in Germania sono cresciuti solo del 18% rispetto al +35% della Grecia, al +106% della Spagna o al +37% del Portogallo. A causa del ristagno degli investimenti in patria, le istituzioni finanziarie dove vengono depositati i maggiori profitti impiegano i capitali all’estero e soprattutto nei Paesi periferici dell’Eurozona, dove i tassi d’interesse sono più convenienti. È questo afflusso di capitali che va a gonfiare la bolla del debito privato: un fiume di denaro a buon mercato arriva ai PIGS ed è a disposizione di famiglie ed imprese che, avendo davanti a loro bassi tassi d’interesse e buone prospettive di crescita, decidono di indebitarsi e investire. Ricordiamo, infatti, che dal 1999 al 2007 erano i Paesi periferici (Grecia, Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda) a registrare i ritmi di crescita più elevati (+22%, a fronte del +17% del resto dell’Unione monetaria). Quando poi questa bolla finanziaria scoppia, ossia quando, in seguito al famoso crack di Lehman Brothers, i capitali cominciano a fuggire da questi Paesi ritenuti poco affidabili per approdare verso lidi più sicuri, il credito a famiglie e imprese diventa più difficile e costoso e, di conseguenza, cominciano le bancarotte. A questo punto, la crisi viene pagata soprattutto dai lavoratori, afflitti da una disoccupazione senza precedenti.

Questa breve ricostruzione delle tappe principali della crisi dei debiti sovrani ci ricorda alcuni aspetti peculiari delle dinamiche che guidano le economie capitalistiche. Dalla compressione del costo del lavoro fino all’espansione della bolla finanziaria, emerge infatti il movente del regime capitalistico: il desiderio di accumulazione. Per dirla con una formula tanto celebre quanto cristallina, il motore della produzione capitalistica risiede nel marxiano D-M-D’ (Denaro, Merce, Denaro con D’>D), per cui i processi produttivi si innescano proprio per l’aspettativa di ottenere un maggior profitto monetario. Un aspetto, tra l’altro, riconosciuto espressamente anche dallo stesso John Maynard Keynes che, in particolare in saggi come A Monetary Theory of Production e nei Tilton papers, riprende la formula di Karl Marx e riconosce come il filosofo di Treviri sia riuscito a mettere in luce la vera natura della produzione nel mondo reale dove, a differenza delle economie cooperative, gli imprenditori aumentano il suo livello solo se si aspettano di accrescere il denaro di cui entreranno in possesso.

Dal punto di vista teorico, il quesito dirimente diventa quindi il seguente: fino a che punto la MMT è in grado di cogliere questo aspetto? Ricordiamo che essa si fonda sull’ipotesi cartalista secondo cui sarebbe essenzialmente la politica fiscale a giustificare l’accettazione e la circolazione della moneta. Come hanno notato economisti come Marc Lavoie ed Emiliano Brancaccio, però, l’idea secondo cui la spesa pubblica precede l’imposizione fiscale può risultare ovviamente fuorviante negli attuali assetti delle nostre economie ed, in genere, deriva da una convenzione contabile piuttosto discussa in ambito post-keynesiano: analizzare Banca centrale e Governo come un settore consolidato. Vi è, infatti, chi ritiene la “separazione” tra Banca centrale e Governo solo fittizia perché figlia del velo ideologico che vuole imporre vincoli finanziari al Tesoro e chi, al contrario, da un punto di vista pratico, la ritiene invece la più realistica e puntuale fotografia del presente ai fini dell’analisi economica. In definitiva, lo schema teorico della MMT – così come descritto e criticato ad esempio anche da Michael Roberts – prevede che sia lo Stato ad iniettare moneta nel settore privato (e non più banche rispondenti alla domanda di moneta proveniente da un settore produttivo con aspettative di profitto!), per poi riassorbirla tramite il prelievo fiscale; in questo schema, conseguentemente, un deficit fiscale finanziato dalla Banca centrale creerebbe un surplus che gli agenti economici privati possono usare per investire e far crescere l’economia (ed arrivare, dunque, solo e soltanto in questo modo a quel D’>D!). Come abbiamo visto in precedenza, però, anche la crisi dell’Eurozona è “nata” nel settore privato, nel cuore del conflitto distributivo capitale-lavoro e dell’accumulazione, prima che in qualunque spazio fiscale prerogativa di un’autorità statale. Inoltre, lo schema tradizionale della MMT trascura il fatto che la sua ricetta ideale, fondata sulla centralità delle politiche di pieno impiego e della monetizzazione del debito con annessi bassi tassi di interesse, rischia di alimentare essa stessa ulteriori bolle finanziarie. Vi è in proposito una vivace disputa, sintetizzata in uno dei suoi libri da Gerald Epstein, che vede contrapposte due posizioni: da un lato, coloro i quali credono che, poiché i titoli emessi dal Tesoro di un’economia con sovranità monetaria non esporrebbero al default, un boom guidato da politiche espansive non dovrebbe dar luogo a scenari di instabilità finanziaria alla Minsky; dall’altro lato, invece, vi è chi sostiene che, soprattutto a causa dell’espansione del sistema bancario ombra e dell’utilizzo dei titoli di Stato tra i collaterali di strumenti finanziari come i derivati, anche la ricetta MMT possa diventare potenziale fonte di speculazione ed alimentare bolle del debito nel settore privato. In sintesi, proprio perché inesatta nel cogliere il ruolo della moneta e del credito privato nei sistemi capitalistici, la MMT rischia di trascurare anche gli effetti collaterali delle sue stesse politiche.

Seppur ricca di spunti interessanti, quindi, sotto questo punto di vista la MMT rischia di trascurare proprio quello che avviene al cuore dei processi produttivi e nel settore finanziario privato delle nostre economie. Utili spunti di riflessione in questo senso, sempre provenienti dal campo post-keynesiano richiamato da Bonetti e Paesani, sono ad esempio gli schemi del Circuito Monetario di Augusto Graziani che, condividendo analiticamente sia un impianto neokaleckiano di distribuzione salari-profitti e sia la descrizione dell’economia come una sequenza circolare di flussi monetari keynesiano-marxista, possono fornire altri elementi ad un dibattito come quello aperto sul Menabò e, dunque, offrire coerenti e puntuali indicazioni di policy anche su temi come la gestione del credito, le relazioni industriali e la distribuzione del reddito.

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