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effimera

Crescita economica e movimenti pro-Pal: che c’azzecca?

di Riccardo Leoncini

propal.jpg1. Il concetto di crescita economica è fondato su un modello lineare, anche se utilizza strumenti matematici non lineari. Ed è indubbio che l’utilizzo di modelli lineari permette l’avverarsi della logica cartesiana che ci invita a ridurre un problema complicato a una serie di problemi semplici, a risolverli e poi a rimettere insieme le soluzioni ottenute, come in un puzzle.

Fra le implicazioni di questo modello lineare ce n’è una assai importante, sia dal punto di vista matematico, ma soprattutto dal punto di vista logico. E cioè che la crescita è (non solo potenzialmente) infinita. Un modello di crescita lineare non incontra limiti, neanche negli input necessari a farlo funzionare, poiché anche questi a loro volta saranno soggetti a un modello di crescita infinita, che quindi garantirà il sostentamento del modello ad libitum. La sola variazione dei prezzi relativi regolerà la scarsità relativa che di volta in volta alcuni di questi elementi incontreranno.

Questo modello è il sostrato dell’ideologia dominante, dell’ortodossia che, in economia ma anche in politica per la verità, si sostanzia nell’ideologia TINA (There Is No Alternative): il modello dominante è così penetrato nella nostra logica, potrei persino dire nei nostri più reconditi processi neanche soltanto mentali, ma addirittura istintivi, che, come è stato detto, è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo.

Il problema con un modello così fatto è che a rifletterci bene, la crescita infinita in condizioni di equilibrio implica, di fatto, che non esiste il futuro. In un modello di questo genere non solo non esiste futuro, ma non esiste il presente del libero arbitrio, delle decisioni fuori contesto, delle invenzioni quindi, in ultima istanza, delle innovazioni. La stessa idea che il modello di crescita non preveda l’idea di imprenditorialità, mina alla base proprio quell’idea di libertà di cui si ammanta l’idea di crescita economica a partire dai contributi di von Hayek. Un modello di crescita lineare non prevede il cambiamento strutturale di tipo qualitativo, prevede il ripetersi continuo di un presente che non diventa mai né passato né futuro.

Il set di equazioni differenziali lineari di cui è costituito il modello è navigabile in entrambi i sensi, il che significa che la freccia del tempo perde senso, che si può andare su e giù per la crescita economica a piacimento, come sulle montagne russe.

Ma cosa significa che in un modello di questo genere non c’è il futuro? Quali sono le implicazioni? Perché a prima vista, l’idea di un sentiero di espansione del reddito che procede ineluttabilmente sempre avanti, in condizioni di equilibrio di stato stazionario, sembra il migliore dei mondi possibili.

Eppure, a pensarci bene, questa idea di crescita senza futuro, ha implicazioni profonde (e che a qualcuno potrebbero sembrare terribili). Tanto per cominciare, l’assenza di futuro rende il modello infinitamente riaggiustabile, cioè infinitamente (globalmente) stabile: esiste sempre (poiché l’orizzonte è infinito) un ulteriore stadio in cui ogni cosa verrà messa (o rimessa) al suo posto. Un equilibrio dinamico come una serie di equilibri di breve periodo che si susseguono senza sosta, e senza apparente soluzione di continuità. Ogni cosa al posto giusto nel momento giusto non può che produrre la soddisfazione massima per agenti economici razionali.

 

2. L’esperienza socioeconomica si riduce quindi a una serie di presenti, scollegati fra di loro, ma fra di loro legati da un unico trend lineare (crescente?). Una situazione questa, che ricorda la schizofrenia: una volta rimosso il significante, l’esperienza di uno schizofrenico si trasforma, e diventa un continuo presente, anzi un continuo di presenti scollegati fra di loro che quindi non possono generare accrescimento, ma solo transizione da uno all’altro senza alcun accumulo di esperienza, e quindi senza crescita. Secondo questa logica, la malattia mentale sarebbe quindi generata solo ed esclusivamente all’interno del nostro corpo (cioè avrebbe origine solo ed esclusivamente chimica e/o biologica), non avrebbe (non potrebbe avere) alcuna scaturigine esterna, soprattutto non sarebbe mai e poi mai di origine politica.

Una situazione questa, che induce a pensare alla differenza fra informazione e conoscenza: vivere, come viviamo oggi, in uno stato di sovreccitazione dovuta all’overload informativo, tipicamente impedisce qualunque approfondimento che vada oltre 200 caratteri. La mancanza di conoscenza significa fondamentalmente assenza di memoria a lungo termine, e implica l’idea che ogni informazione abbia un’importanza nello spettro di trasformazione delle nostre percezioni istantanee, a cui spesso e volentieri soccombiamo. Naturalmente, il corollario è costituito dalla controllabilità da parte di strumenti esogeni: sarà poi vero che una “spinta gentile” sia sempre e comunque in grado di indirizzarci verso la direzione migliore e non verso la peggiore?

E poi, vivere in un contesto di continui giorni della marmotta, non è la giustificazione migliore e più sensata al grado di precarietà in cui viviamo immersi? Dai rapporti di lavoro ai rapporti umani, dall’ultima moda sulla dieta alimentare alla scelta della musica, che altri fanno per noi nei nonluoghi che sempre di più sono la nostra immanente realtà quotidiana, nonluoghi che occorrerebbe aggiungere alla lista dell’obliterazione della storia e del contesto, per trasformare la nostra esperienza in un evento sempre uguale, sempre lineare, tranquillizzante, fatto di equilibri stabili senza sorprese, ripetibili ad libitum: assenza totale di sviluppo, cioè del cambiamento strutturale, o di evoluzione, cioè dell’irrompere dell’inatteso, sacrificato sull’altare della crescita economica di equilibrio, lineare e infinita.

In un mondo di questo genere, l’individualismo metodologico è portato al suo limite asintotico, e le perturbazioni esogene sono ridotte al limite a zero. La parola stessa nonluogo assume un significato pregnante, come un ambiente costante e prevedibile che azzera qualunque incertezza sia nelle transazioni presenti che in quelle future. In un mondo di questo genere, il merito è unicamente basato sul successo personale e quindi l’agente economico è l’unico responsabile sia del successo che del fallimento. Nessuna interazione sociale e nessun vincolo psicologico possono impedire a un agente razionale di contribuire al massimo livello possibile alla crescita della torta (economica) di cui reclamerà la fetta equivalente alla propria produttività marginale. Qualora non riuscisse a contribuire, allora la propria fetta sarebbe inferiore, o addirittura nulla, ma nessuno Stato dovrebbe intervenire a correggere questo accadimento, poiché quell’intervento modificherebbe gli incentivi, e quindi le relazioni economiche fra agenti verrebbero distorte producendo inefficienza.

Quindi, nessun futuro significa che non occorre preoccuparsi della distribuzione delle risorse. Se qualcuno oggi è meno ricco di qualcun altro, potrà sempre rifarsi al prossimo turno. Avrà sempre un altro giro di giostra per cercare di migliorarsi e progredire nella scala distributiva. Quindi, non solo nessun intervento esterno è desiderabile (anzi come abbiamo visto peggiora decisamente le cose), ma nessuna forma di com-passione per gli ultimi è lecita, poiché è soltanto loro demerito se non hanno i beni materiali che abbiamo noi grazie al nostro elevato investimento in capitale umano.

 

3. Ma l’idea di nessun futuro significa anche nessuna preoccupazione per l’ambiente: la funzione di produzione flessibile ed efficiente è in grado di trovare sempre una combinazione ottimale di input che col tempo siano in grado di preservare l’ambiente, adattandosi al fatto che più un fattore di produzione diventa scarso più sarà costoso, e quindi maggiori saranno gli incentivi alla sua sostituzione con un altro meno costoso (in termini ovviamente di costo diretto, ma il modello permette anche di considerare il costo opportunità del suo impatto ambientale). Oppure, facendo ricorso allo sterminato ventaglio di possibilità che il cambiamento tecnologico (esogeno) è in grado di mettere a disposizione di una singola e sperduta funzione di produzione.

Ma nessun futuro significa nessuna pace. Nessuna pace è possibile fra nemici che sanno che si potranno incontrare ancora una volta, e ancora una volta, e così via. Come trovare una tregua se questa implica cedere alcune delle proprie rivendicazioni, facendo del risultato finale qualcosa di non ottimale e non efficiente? Come mettere due agenti intorno a un tavolo, se si sa fin dall’inizio che un accordo efficiente non è possibile? Come spiegare che l’unico accordo che si può fare col nemico parte dal riconoscimento della sua esistenza e dei suoi diritti, ed è endogenamente inefficiente in partenza?

Infine, nessun futuro costituisce la più evidente negazione di un ruolo ai giovani. Il mondo così comeè stato costruito durerà in eterno e come tale non ha bisogno dei giovani, o meglio non ha bisogno della gioventù, cioè delle novità belle o brutte, intelligenti o balzane, di qualcuno che sta scoprendo il mondo e che pensa (anzi è convinto) che quel mondo lo cambierà. Quelle novità (che potremmo chiamare innovazioni) non servono, anzi costituiscono un problema, poiché portano il sistema fuori dell’equilibrio. Per “fortuna”, però, questo disequilibrio sarà poco più che un’increspatura dal momento che, essendo il sistema intrinsecamente stabile, il disequilibrio sarà riportato in tempi (relativamente) rapidi all’equilibrio stabile (che è anche quello ottimale). E dopotutto, se qualcuno ha beneficiato delle opportunità di speculazione offerte dal temporaneo disequilibrio, in fin dei conti non avrà fatto altro che mettere alla prova (con successo) la propria alertness kirzneriana.

Tuttavia, e lo stiamo vedendo nel nostro perpetuo presente, non esiste niente di meglio dell’assenza di futuro per produrre nelle nuove generazioni alienazione e depressione. I disturbi dell’apprendimento, in un quadro di questo genere hanno la loro giustificazione naturale, visto che non c’è nessuna conoscenza da apprendere. Ma questa chimera della conoscenza che risulta irraggiungibile cozza con l’idea del merito, che abbiamo visto è un fattore individuale, così come il fallimento. La responsabilità sta sempre e soltanto in capo all’individuo, sia che trionfi sia che cada nella polvere.

Questa idea fa a pugni con quella opposta che di fronte a un giovane ci sia un futuro nascosto che occorre svelare un poco alla volta, gustandosi ogni novità (anche quelle indesiderate). Uno sviluppo, e non una crescita, che implica la possibilità che sull’edge of chaos si generi la novità, l’innovazione.

Un sentiero il cui equilibrio dinamico è molto delicato e molto instabile, ma che si arricchisce con ogni escursione nel territorio del disequilibrio, dove l’incertezza e il cambiamento continuo sono prodromici alla produzione di nuova conoscenza, che a sua volta induce un cambiamento di stato strutturale, che modifica i rapporti dal punto di vista qualitativo.

Ecco, quindi, che in una situazione di questo genere, non possiamo che applaudire il tentativo da parte del segmento più giovane della nostra società di riappropriarsi della propria volontà. Di riprendere il loro dialogo, cioè il loro ragionare attraverso, connettendo temi interdisciplinari che scompaginano il prezioso equilibrio dinamico di steady state così faticosamente raggiunto. L’idea che la Palestina sia al centro di rivendicazioni che si allargano, fra confronto di significati, esercizio della libera critica, richiesta di diritti, e sana incazzatura, mi sembra un elemento che tende alla riappropriazione del senso smarrito. Lo stupore per la mobilitazione per Gaza, così globale e così denso, ci interroga ancora, per fortuna, sulla necessità di uscire dagli schemi del sistema, di uscire dalla matrice che forma i nostri pensieri subliminali, che … sì, insomma, ma non staranno/staremo esagerando… e il rischio della violenza poi… e poi, in fin dei conti, se non c’è alternativa, a cosa serve tutto questo affannarsi? Tutto questo urlare al cielo?

Credo invece che questo modo anche scomposto di ragionare ci indichi proprio il posto dove sta, sotterrato sotto metri di teoremi e corollari, il senso smarrito di cui si esige la riappropriazione.  Riappropriazione quanto mai necessaria per uscire dalla schizofrenia e dall’autismo con cui noi vecchi (fuori e dentro) abbiamo imparato a fare i conti, abbassando la cresta per il tozzo di pane di concetti vecchi ridipinti di nuovi colori sgargianti, che abbiamo fatto nostri e che ci siamo fatti piacere a furia di analizzare, dissezionare e condannare l’avvento del riflusso.

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