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manifesto

La potenza inafferrabile del lavoro

Toni Negri

Il potere esercitato dalla finanza si accompagna alla cancellazione della distinzione tra tempo di lavoro e di vita. Un saggio di Andrea Fumagalli sul capitalismo cognitivo

apocalypse horsemenEcco un libro di critica di economia politica che si può leggere da principio alla fine (non è cosa da poco): è Bioeconomia e capitalismo cognitivo di Andrea Fumagalli (Carocci, pp. 240, euro 20,30). Parrebbe, questo libro, l'avvio iniziale (e tuttavia abbozzo maturo) di un trattato di economia politica: si va infatti dalla teoria dell'accumulazione (suddivisa in quattro parti: modi di finanziamento, attività ed evoluzione delle forme di accumulazione, forme dell'impresa, realizzazione monetaria) ad una nuova teoria della prestazione lavorativa (anch'essa articolata in tre parti: come dispositivo di sussunzione totale della vita, come figura cangiante della forza-lavoro nel capitalismo cognitivo, ed infine nello sfruttamento-alienazione delle nuove soggettività al lavoro), fino a una teoria complessiva del capitalismo cognitivo che insiste sugli elementi di contraddizione (il «comune» contro/oltre il pubblico ed il privato) e su un programma postsocialista («reddito di esistenza» e «welfare del comune»).
 

La natura dell'alienazione

Si diceva: sembra che questo libro sia un trattato, ma non è affatto così. Questo libro, infatti, deborda l'economia politica: «l'aspetto economico che viene trattato è quello del potere e della soggettività delle figure sociali che agiscono o subiscono tale potere».

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posse

La città e la metropoli

 di Giorgio Agamben

metropoliPermettetemi di cominciare con qualche ovvia considerazione sul termine “metropoli”. Esso significa in greco “città-madre” e si riferisce al rapporto fra la polis e le sue colonie. I cittadini di una polis che partivano per fondare una colonia erano, come si diceva, in apoikia – letteralmente in “allontanamento dalla casa”- rispetto alla città, che, nella sua relazione alla colonia, veniva allora chiamata metropolis , città-madre. Questo significato del termine è rimasto fino ai nostri giorni per esprimere il rapporto fra il territorio della patria, definito appunto metropolitano, e quello delle colonie.

Il termine metropoli implica quindi la massima dis-locazione territoriale e, in ogni caso, un’essenziale disomogeneità spaziale e politica, qual è appunto quella che definisce il rapporto città-colonie. Ciò fa nascere ben più di un dubbio sull’idea corrente di metropoli come tessuto urbano continuo e relativamente omogeneo. L’isonomia spaziale e politica che definisce la polis è, almeno in via di principio, estranea all’idea di metropoli.

In questa comunicazione mi servirò, pertanto, del termine “metropoli” per designare qualcosa di sostanzialmente eterogeneo rispetto a ciò che siamo abituati a chiamare chiamiamo città. Vi propongo, cioè, di riservare il termine metropoli al nuovo tessuto urbano che si viene formando parallelamente ai processi di trasformazione che Michel Foucault ha definito come passaggio dal potere territoriale dell’ Ancien régime al biopotere moderno, che è, nella sua essenza, un potere governamentale.

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 giap

Prefazione a Cultura convergente di Henry Jenkins

di Wu Ming (*)

[Da tempo vi parliamo di Henry Jenkins, docente al Massachusetts Institute of Technology e autore di alcuni dei più importanti saggi degli ultimi dieci-quindici anni sull'odierna cultura pop, soprattutto nei suoi aspetti di partecipazione e creazione di comunità. Abbiamo fatto talmente tanti riferimenti al suo lavoro che, in occasione di alcune presentazioni di Manituana, i preseninformaticati ci hanno fatto domande sui suoi libri (finora mai tradotti in italiano) anziché sui nostri!

Ebbene, finalmente il più importante libro di Jenkins, Convergence Culture, è stato tradotto nella lingua di Petrarca (cioè, più o meno), ed esce in questi giorni per le edizioni Apogeo. La prefazione l'abbiamo scritta noi. Eccola.]

Nel migliore dei mondi possibili, la pubblicazione di questo libro scuoterebbe come un terremoto il dibattito italiano su Internet e le nuove tecnologie di comunicazione. Se non produrrà nemmeno uno scarto, significa che quel dibattere è una parvenza di vita, finestre sbattute dal vento in una villa disabitata, mortorio al cui confronto un poltergeist è il Carnevale di Rio.

Cultura Convergente è un saggio rivoluzionario per molte ragioni. La prima è un marchio di fabbrica anglo-sassone: l'essere comprensibile, appassionante, farcito di prove ed esempi. Nel testo si fa spesso riferimento ad autori europei, capaci di brillanti costruzioni teoriche, ma molto meno dotati nel tradurle in un linguaggio immediato e in pratiche sociali osservabili.

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manifesto

Pagine partigiane per indagare il nuovo capitalismo

Benedetto Vecchi

Che fare? Una radicale innovazione è l'unico strumento per salvaguardare l'autorevolezza

jolly culturaLa lettera di Marcello Cini a proposito delle pagine culturali (sul manifesto di ieri) pone problemi di grande rilevanza. Cini scrive che c'è stato un cambiamento di rotta della sezione «cultura» di questo giornale. Ha ragione. Proverò a spiegare come questo cambiamento sia dovuto a un principio di realtà e non a un esecrabile mutamento genetico. Rispetto al periodo cui Cini fa riferimento il mondo è cambiato e gli elementi di discontinuità prevalgono nettamente su quelli di continuità. Questa trasformazione aveva bisogno di essere analizzata e compresa, ed è quanto le pagine culturali del manifesto hanno cercato di fare, partendo dalla convinzione che i paradigmi acquisiti erano diventati armi spuntate. Chi ha lavorato alle pagine culturali ha infatti spesso puntato con caparbietà a creare uno spazio pubblico di discussione dove la posta in gioco non fosse la flebile difesa di un punto di vista che mostrava i tratti di una vuota ripetizione del già noto. Semmai, l'obiettivo, talvolta tacito, spesso esplicitato, era di contribuire a formare un forte punto di vista sul presente. La necessità di una radicale innovazione teorica è stata considerata l'unico strumento per salvaguardare l'autorevolezza del manifesto. In questo le nostre sono state e sono pagine «partigiane».

Questo è stato il clima che ho respirato da quando, nel 1988, ho cominciato a lavorare a queste pagine. In quasi venti anni, insieme a tanti altri abbiamo parlato dei cambiamenti del mondo del lavoro, della produzione e circolazione del sapere, del rapporto tra scienza e società, delle caratteristiche della «rivoluzione del silicio», del profilarsi all'orizzonte, e poi dell'affermarsi, della riproduzione tecnica della vita. Senza dimenticare che una sezione «cultura» deve registrare e selezionare quanto propone il contesto culturale, dagli scrittori che emergono nel panorama editoriale ai saggi che vengono a mano a mano pubblicati.

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manifesto

Memoria a rischio sulle pagine etichettate «cultura»

Marcello Cini

Pericoli - Il rischio di un ritorno a concezioni tradizionali non può giovare all'apertura alle sfide del XXI secolo Recinti Non più un'esplorazione dei campi del sapere ma una loro delimitazione rigida entro confini disciplinari tradizionali

culturaCari compagni, questa lettera nasce dal mio bisogno di rendere pubblico il crescente disagio che provoca in me, collaboratore del manifesto fin dalla sua fondazione, la lettura delle sue attuali pagine culturali. Metto le mani avanti: non intendo dare voti a nessuno. Soltanto mettere in evidenza la radicalità del cambiamento intervenuto negli ultimi tempi rispetto al loro ruolo tradizionale all'interno della linea del giornale. Non posso fare a meno, a questo proposito, di prendere come riferimento gli anni in cui se ne occupava un grande amico scomparso, Michelangelo Notarianni.

Sono andato a scorrere la raccolta dei suoi articoli pubblicata tre anni fa da manifestolibri con il titolo (malauguratamente profetico) La memoria a rischio, per confrontarla con alcuni dei contributi apparsi negli ultimi mesi sulle pagine etichettate «cultura». La differenza che salta agli occhi è la rigorosa coerenza degli interventi di Michelangelo con un disegno di fondo che li illumina, nonostante la varietà degli argomenti affrontati. Che, tanto per citarne alcuni, spaziavano dalle questioni ambientali (quando l'ambiente era una parolaccia anche per l'estrema sinistra) a Leopardi, dal capitalismo italiano straccione e truffaldino ai personaggi più significativi della storia italiana remota e recente, dalla rivoluzione basagliana della psichiatria alle tesi di Hans Jonas sul rapporto fra etica e tecnica.

Per contrasto a me pare evidente che il termine «cultura» non denota più, nel giornale attuale, una esplorazione dei campi del sapere illuminata da criteri comuni di visione della realtà sociale, ma una loro delimitazione rigida entro confini disciplinari tradizionali. Per dirla tutta sembra che per il manifesto di oggi la «vera» cultura sia tornata ad essere appannaggio dei filosofi e dei letterati. Per esempio, separare i temi della rivoluzione digitale per collocarli dentro un contenitore distinto, come fosse roba per addetti ai lavori, non giova certo all'apertura della cultura alle sfide del XXI secolo. Anche se non sarebbe giusto non riconoscere che alcuni articoli di Benedetto Vecchi in favore dell'open source e del free software sono stati un utile anello di congiunzione fra i due contenitori.

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L'enigma democratico

Mario Tronti

La democrazia reale non è il potere dei più ma il potere di tutti, in cui, nell'omologazione di pensieri, sentimenti, gusti e comportamenti, la singolarità è concessa nel privato ma non nel pubblico

Credo sia proprio venuto il momento di passare a una critica della democrazia. Questi momenti arrivano sempre, arrivano quando le condizioni oggettive del tema s'incontrano con le disposizioni soggettive di chi lo guarda, lo analizza. È maturato su questo terreno un percorso di pensiero, che mi pare arrivi oggi a cogliere la crisi di tutto un apparato pratico-concettuale. Perché quando diciamo democrazia diciamo questo: istituzione più teoria; costituzione e dottrina. E qui, su questi termini, si instaura un intreccio molto forte, un nodo anzi. Un nodo che non lega soltanto strutture politico-sociali e tradizioni forti di pensiero - quelle della democrazia sono sempre tradizioni di pensiero forti, anche se la deriva della pratica di democrazia indica oggi un terreno debole; ma si stringe anche all'interno delle une e delle altre, delle strutture pratiche e delle tradizioni di pensiero.

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manifesto

La frontiera scientifica della società in rete

«Tecnologia e democrazia» di Luciano Gallino. Una importante raccolta di saggi sulla diffusione del sapere tecnico-scientifico

Franco Carlini

scienzaIl Fest, Fiera dell'editoria scientifica di Trieste, da pochi giorni si è chiuso, e con un buon successo. Dove «editoria» andava intesa come tutto quello che viene messo in pubblico - «pubblicato» appunto, in qualsivoglia formato e su qualsiasi supporto. Non solo libri e riviste, dunque, ma siti web, radio, filmati, Dvd. Ha confermato, una volta ancora, che di scienza ben narrata c'è fame in Italia, forse a colmare un ritardo storico, culturale e sociale. E infatti un po' ovunque per la penisola si sono moltiplicati convegni, festival della scienza (il più noto è quello autunnale di Genova), nonché master in Comunicazione della Scienza (il più rinomato è quello presso la Sissa di Trieste). Il genovese Vittorio Bo, che già fu alla direzione dell'Einaudi e che poi ha dato vita a Codice Cultura, è uno dei pochi che ha avuto il coraggio di rischiare prestigio (e capitali) nel campo storicamente abbandonato dell'editoria scientifica italiana per svecchiarla e sprovincializzarla, anche a costo di proposte assai specialistiche.

Tutto ciò certo aiuta a recuperare un divario rispetto ad altri paesi, specialmente Francia e Inghilterra, dove la scienza è da sempre considerata un costituente essenziale della cultura civica e delle politiche dei governi. Tanto rinnovato entusiasmo, che corrisponde anche a un discreto fatturato in eventi e convegni, è consolante. Ma ci basta? La domanda emerge, implicita, dalla lettura del recente libro di Luciano Gallino, lo studioso torinese da anni dedito alla sociologia del lavoro e dell'industria. Tecnologia e democrazia (Einaudi, pp. 296, euro 22) ripropone alcuni dei suoi molti saggi, dedicati alla ragione tecnologica, ai decisori, alle scienze dell'informazione. Tutti densi e importanti, ma qui sia lecito concentrarsi sul filo rosso che li cuce, che si concentra sul tema dell'ignoranza, quella dei singoli scienziati e quella sociale.

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multitudes(1)

Conversazione sul bioreddito e sulla risocializzazione della moneta

par  Antonella Corsani, Christian Marazzi

multitudesAntonella Corsani : Cosa diresti se affermassi alla lettura del tuo saggio “Ammortamento del corpo-macchina” che la socializzazione dei mezzi di produzione è consubstancielle alla natura del capitale fisso come capitale umano nel senso in cui tu declini, o piuttosto deformi, questo concetto dopo averlo strappato al pensiero neo-liberale et ibridato con il concetto marxiano di lavoro vivo ?

Christian Marazzi : Sulla socializzazione dei mezzi di produzione hai colto nel segno : la separazione tra capitale e lavoro di tipo fordista era mediata da processi di produzione “macchinici”, che assicuravano (sebbene parzialmente) al bioreddito di essere una variabile dipendente dal capitale. Cioè : di impedire che la riproduzione si autonomizzasse dal capitale. Nel modello antropogenetico (o biopolitico che dir si voglia), i processi di produzione sono umani, per cui la socializzazione dei mezzi di produzione non è mediata dal capitale macchinico, ma dal corpo della forza-lavoro. Forse sono proprio le nuove patologie legate al lavoro che svelano (in negativo) la nuova forma della regolazione capitalistica di questa socializzazione. Come dire che il reddito sociale ha oggi una dimensione “invalidante” e escludente, serve a medicalizzare le patologie del mercato del lavoro, invece di liberare energie vitali. “Business Week” ha recentemente dedicato un dossier al settore sanitario americano che, negli ultimi 5 anni, è stato l’unico in assoluto a creare occupazione (1,800 milioni di nuovi posti di lavoro) ! A conferma sia della natura antropogenetica/biopolitica del capitale cognitivo, sia della declinazione patologizzante del welfare state emergente (in cui malattia e guerra - tanatopolitica ? - “regolano” i processi di socializzazione).


Antonella Corsani
 : Tu affermi che il welfare ha assicurato la continuità del circuito del capitale (“D-M-D’”), questo reddito d’esistenza ha riprodotto la separazione tra capitale e lavoro e con essa la divisione sociale del lavoro. Come potrebbe essere assicurata questa differenza di ruolo del bioreddito che tu prefiguri ora come investimento nell’autonomia oltre il capitale ? Voglio dire, se il welfare è stato funzionale all’accumulazione capitalista assicurando la continuità del circuito del capitale, come potrebbe oggi il bioreddito non avere questo stesso ruolo, riproducendo nuove divisioni del lavoro dentro e fuori l’Europa ? Mi chiedo dunque quali siano le condizioni perché il bioreddito o reddito garantito nella sua forma monetaria non entri nel circuito del capitale.

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L’ammortamento del corpo-macchina

par  Christian Marazzi

corpoUna delle caratteristiche del nuovo capitalismo è la perdita di importanza del capitale fisso, della macchina nella sua forma fisica, quale fattore di produzione di ricchezza.

Las materializzazione del capitale fisso e dei prodotti-servizio ha quale suo corrispettivo concreto la “messa al lavoro” delle facoltà umane quali la capacità linguistico-comunicativa e relazionale, le competenze e le conoscenze acquisite in ambito lavorativo e, soprattutto, quelle accumulate in ambito extra-lavorativo (saperi, sentimenti, versatilità, reattività, ecc.), insomma l’insieme delle facoltà umane che, interagendo con sistemi produttivi automatizzati e informatizzati, sono direttamente produttive di valore aggiunto.

La dematerializzazione del capitale fisso e il trasferimento delle sue funzioni produttive e organizzative nel corpo vivo della forza-lavoro, è all’origine di uno dei paradossi del nuovo capitalismo, ossia la contraddizione tra l’aumento d’importanza del lavoro cognitivo, produttivo di conoscenza, quale leva della ricchezza e, contemporaneamente, la sua svalorizzazione in termini salariali e occupazionali.

Le difficoltà in cui ci si imbatte in tutte le analisi delle tendenze del mercato del lavoro confermano indirettamente che il modello emergente nei paesi economicamente sviluppati è di tipo antropogenetico, un modello cioè di “produzione dell’uomo attraverso l’uomo” in cui la possibilità della crescita endogena e cumulativa è data soprattutto dallo sviluppo del settore educativo (investimento nel capitale umano), del settore della sanità (evoluzione demografica, biotecnologie) e di quello della cultura (innovazione, comunicazione e creatività). Un modello in cui i fattori di crescita sono di fatto imputabili direttamente all’attività umana, alla sua capacità comunicativa, relazionale, innovativa e creativa. E’ la capacità di innovazione, di “produzione di forme di vita”, e quindi di creazione di valore aggiunto, che definisce la natura dell’attività umana, non il fatto che appartenga a questo o quel settore occupazionale.

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manifesto

Appunti dal terremoto del divenire

Roberto Ciccarelli

«Conversazioni» di Gilles Deleuze e Claire Parnet (ombre corte). Un dialogo sulla crisi della modernità che prende le distanze dai cultori del frammento a favore di un'«altra rivoluzione»

deleuzeChiunque legga i Dialogues di Gilles Deleuze e Claire Parnet (Conversazioni, Ombre Corte, pp.174, euro 14) capirà quale grande ingiustizia sia stata quella di affibbiare a Deleuze la patente di «postmoderno». In realtà, quella di postmoderno sarebbe una categoria tutta da ridefinire, proprio dai fondamenti, in un momento in cui testi, proclami e manifestazioni coniugano l'elogio delle virtù divine con la difesa della modernità sgomitando per conquistare i titoli dei giornali. Non esiste nulla di più ironicamente postmoderno, infatti, che la mescolanza degli stili realizzata dagli «atei devoti», o dai teologi politici, che scompaginano il senso comune novecentesco con il colorato patchwork dei loro ibridi ideologici.

 
Il potere del pensiero

Al di là di questi paradossi, il cosiddetto «postmoderno» ha registrato tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, la crisi della fiducia nell'universalità del pensiero. Di quella crisi ne ha fatto la chiave di volta per teorizzare, da un lato, l'impossibilità di ridurre la realtà ad una matrice unica, dall'altro l'apologia della complessità e dell'estetica del frammento e della citazione. Di solito, quando si parla di postmoderno, si preferisce la seconda strada, quella più «debole» e compiaciuta.