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sinistra

Appunti per un rinnovato assalto al cielo. II

Ancora una volta su forma merce, valore d’uso e valore di scambio

di Paolo Selmi

Citare il barbone di Treviri non è più di moda, me ne rendo conto, ma una critica al modo di produzione capitalistico senza appoggiarsi, senza partire dal contributo marxiano, non avrebbe alcun senso: chi lo ha fatto negli ultimi trent’anni di fine della storia, ha solo perso del gran tempo. Proviamo però a fargli fare un viaggio nel tempo, fino ai giorni nostri. Marx non si occupava di fotografia, né faceva radiografie, ma queste due lastre le avrebbe trovate alquanto interessanti:

Radiografia di una reflex meccanica a pellicola totalmente manuale:

reflex1

Radiografia di una reflex digitale professionale:

reflex2

Nel mezzo, forse neanche mezzo secolo e ben pochi mutamenti nel cosiddetto “valore d’uso” (Gebrauchswert, nella sua lingua) dell’apparecchio fotografico: parlando di un fotografo famoso che è passato dalla prima alla seconda, belle foto uscivano dalla mano di Salgado sia quando usava la sua prima Spotmatic, sia ora che è passato al digitale. Nel primo caso, dal punto di vista del valore d’uso, una macchina ergonomicamente studiata per regolare, con la mano sinistra, angolo di ripresa, messa a fuoco e ghiera dei diaframmi e, con la mano destra, ghiera dei tempi, pulsante di scatto e leva di avanzamento fotogramma, non ha fotograficamente nulla di meno da offrire del secondo modello, anzi: ci sono decisamente molte più probabilità che, nel primo caso, sia il fotografo a “scrivere con la luce” il proprio racconto fotografico assai più consapevolmente del secondo, dove a decidere, assai più spesso, per comodità o semplice pigrizia, è un “cervello elettronico” che pensa secondo programmi prefatti. E questo, specialmente nella scrittura in bianco e nero, è elemento fondamentale. Dal punto di vista poi del peso (quasi un kg di differenza fra la prima e la seconda), della portabilità (dimensioni molto più ridotte), della robustezza (meno componenti, meno possibilità di rottura), del ciclo di vita del prodotto finito (nel primo caso, macchine che passano dai nonni ai nipoti, a differenza del secondo), della durata dei materiali (quasi tutto metallo contro quasi tutta plastica), della manutenzione, della riparabilità (elettromeccanica contro schede elettroniche e motorini elettrici irriparabili ma solo intercambiabili), dell’autonomia (anni nel primo caso, laddove una pila serve solamente ad attivare un’elettrocalamita o un diodo; ore nel secondo) e, non ultimo, del prezzo, il paragone non si pone neppure: oggi è possibile con un centinaio di euro ben spese fra lente e corpo macchina, oltre che con un uso sapiente di filtri colorati e tutto quanto l’esperienza fotografica di un secolo ha messo a disposizione alla creatività del fotoamatore, impressionare su una pellicola pancromatica una superficie di sali d’argento di dimensioni 24x36 mm con una gamma di bianchi, di neri e di passaggi tonali fra gli stessi, che per essere minimamente emulata da un sensore digitale occorrono migliaia di euro. A che pro?

Certo, un matrimonio o un servizio professionale risultano economicamente più vantaggiosi se l’operatore può scattare migliaia di foto senza spendere una lira in celluloide, senza pensare troppo e vedendo subito su uno schermo il risultato delle sue fatiche. Peccato che la stragrande maggioranza dei fotografi non sia professionale, ma amatoriale, non tragga nessun vantaggio da un motorino elettrico per la messa a fuoco, collegato con un sensore che la determini automaticamente in base ad algoritmi e trasmette i dati a una centralina che assegna la tanto attesa accoppiata tempi-diaframmi secondo “programmi” dettati da un senso dell’estetica standardizzato e omologante, e lasciando all’operatore il solo disturbo di puntare e scattare (point and shoot).

Vi è, inoltre, dell’altro: ammettendo, infatti, e non concedendo una parità di valore d’uso, assistiamo a una progressiva diminuzione del “valore di scambio” (Tauschwert) che, ricordiamo, non necessariamente coincide col “prezzo” (Preis) anzi, è di gran lunga inferiore: il primo si ferma ai costi di produzione e al saggio medio del profitto industriale, il secondo include quell’enorme segmento di profitto commerciale, che poi altro non è che il motore principale della cosiddetta “delocalizzazione”1 : in altre parole, il trucco consiste nel vendere un prodotto qui come se fosse stato prodotto qui pur non essendo stato prodotto qui. Nella patria del “socialismo con caratteristiche cinesi”, e nelle altre officine del mondo site nel continente asiatico, oltre a un saggio di sfruttamento maggiore, dato dalla differenza dei tempi di lavoro e dei salari, la catena di montaggio è gestita da semplici assemblatori di stampi, schede, motorini e ingranaggi monoblocco in un’economia di scala tesa a produrre prodotti di qualità sempre più scadente ancorché, apparentemente, “tecnologicamente avanzata”. Il ciclo di vita del prodotto diminuisce, destinato a divenire rapidamente spazzatura. Paradossalmente, quindi, pur calando il prezzo di produzione, al contempo, aumenta il saggio di profitto sia dello schiavista cinese, indiano, vietnamita, in proprio o al soldo della multinazionale “investitrice”, sia del capitalista nostrano che, con brillanti disegni commerciali, pianifica le stagioni del (breve) ciclo di vita di ogni prodotto. La stessa tecnologia è introdotta con “innovazioni” graduali e periodiche così da rendere ben presto obsoleti i prodotti appena commercializzati. Così, mentre le tasche delle case produttrici e delle grandi firme si riempiono, si svuotano saperi, esperienze, da un’intera catena produttiva e riproduttiva di una forma merce che coinvolgeva figure intermedie oggi quasi sparite del tutto (operai qualificati, fotoriparatori, ecc.) e da un utilizzatore finale sempre più costretto ad acquisti al di sopra di ogni ratio economica e al di fuori di qualsiasi logica di utilizzo del prodotto stesso.

 

Obsolescenza programmata… chi?

Una Contax II, ma anche una Praktica MTL3, una Nikon FM2 ma anche una Zenit E, sono “per sempre”. Chiedo scusa agli amanti dell’economia fatta di numeri e diagrammi se proseguo, prometto ancora per poco, la mia incursione nel mondo della fotografia ma, oltre a conoscerlo abbastanza bene e direttamente2 , devo ammettere che si presta benissimo a questa analisi.

fotocamere

In questo caso, ho volutamente messo insieme il diavolo e l’acqua santa, accostato modelli di diversissima qualità, fasce di prezzo e prodotti da altrettanto diversi modi di produzione, perché la loro costruzione robusta, la loro relativa possibilità di riparazione, la loro grande affidabilità, la loro rispondenza, sempre eguale a sé stessa col passare degli anni, alla loro funzione primaria di “scrivere con la luce” li rendevano e li rendono, per l’appunto, modelli senza tempo, in grado di essere “tramandati” fra appassionati di generazione in generazione, lubrificati più dalla “ginnastica” che compiono durante un costante esercizio, che da manutenzione vera e propria. La differenza fra le prime e le seconde due di ogni accoppiata è di prezzo e di valore d’uso: la teutonica di anteguerra e la giapponese erano destinate a una clientela d’élite, la democratica tedesca e, ancor di più, la sovietica erano destinate a milioni di fotoamatori (la sola Zenit E fu prodotta in 3.334.540 esemplari fra il 1965 e il 19823 ). I due prodotti di alta fascia contenevano il massimo di valore d’uso esistente (il millesimo di secondo della Contax era quanto di più avveniristico si potesse concepire negli anni Trenta, mentre il quattromillesimo totalmente meccanico dell’otturatore in titanio della Nikon FM2, è tutt’oggi qualcosa di insuperato); i due prodotti “proletari”, contenevano il minimo sindacale per scattare a mano libera in condizioni normali di luce, come nel caso della Zenit e, nel caso della Praktica, una maggior gamma di tempi ma in un involucro più pesante, rumoroso, maggiormente sottoposto a vibrazioni. Nel mezzo, una marea di prodotti di scarsa qualità, “macchinette” figlie di logiche consumistiche che li avrebbero predestinate a vita breve: la cosiddetta “obsolescenza programmata” è tipica del modo di produzione capitalistico da ben prima del secondo dopoguerra, non certo dalla scoperta delle batterie “truccate” dei telefonini di una nota marca4 .

Qualcosa quindi accomunava i due opposti, qualcosa che nel modo di produzione capitalistico era riservato a una produzione di nicchia laddove invece, nel modo di produzione socialistico, era un’esigenza primaria: era la costruzione, solida, robusta, rispondente alle condizioni cui l’avrebbe sottoposta un uso prolungato. In altre parole, il modo socialistico di produzione attribuiva, nella produzione di massa, eguale attenzione da un lato al basso costo (motivo per cui la Zenit restò per oltre mezzo secolo, essenzialmente una Leica a tendine dell’anteguerra con, in aggiunta fra l’otturatore e innesto a vite degli obbiettivi, lo spazio riservato allo specchio), alla relativa facilità di costruzione, di manutenzione, di messa a punto e riparazione e, dall’altro, a una durabilità che li obbligava, nella scelta dei materiali, dall’alluminio al vetro ottico, a non badare a spese. Il motivo era presto detto. Diminuire gli sprechi e costruire beni di consumo destinati a durare era, nel caso del modo produzione socialistico, un imperativo che concorreva in maniera significativa al raggiungimento degli obbiettivi di piano: minor impiego di materie prime e risorse da allocare, maggior efficienza produttiva, maggior numero di beni di consumo in circolo per maggior tempo, minor bisogno di pianificare produzioni aggiuntive o sostitutive, soddisfacimento sempre maggiore dei bisogni materiali della popolazione. Non è un caso che, allorché questo modello entrò in crisi negli anni Ottanta, tale stagione coincise con l’ingresso massiccio della plastica nelle parti costruttive anche laddove non era consigliata (come sulla leva di avanzamento della pellicola o su quella di riavvolgimento), con la caduta del controllo qualità nelle fabbriche, con l’aumento degli scarti di produzione e con il crollo di un sistema che sarebbe seguito di lì a poco. Non era obsolescenza programmata di un dato prodotto, era eutanasia programmata di un intero sistema.

Paradossalmente, tuttavia, oggi ci troviamo nella stessa medesima situazione: come vedremo nei capitoli successivi, esistono modi migliori di far soldi che investirli in ricerca e sviluppo di prodotti destinati, nel lungo periodo, a ridurre marxianamente il saggio di profitto. Se, quindi, l’ingloriosa fine del socialismo reale – per pura negligenza di una classe dirigente impunita e criminale – vedeva a fine anni Ottanta gli scaffali pieni di patacche già condannate alla rottura ancor prima di esser vendute e… “altro che libera concorrenza, questa è la minestra, pedalare!”, oggi il turbocapitalismo imperante – per una ancora più perversa logica di massimizzazione del saggio di profitto – vede gli scaffali pieni di patacche destinate a durare, a volte, solo il tempo di esser caricate sul container dalla fabbrica cinese (visto che arrivano già danneggiate a causa di imballi penosi), e … “lo stesso fa la concorrenza, la minestra è questa, pedalare”! Nel primo caso, qualcosa si poteva e si doveva fare, e non è stato fatto. Nel secondo caso, nulla si può fare, perché andrebbe contro la logica stessa che portò a suo tempo, a delocalizzare la produzione, a squalificare gli operai e, insieme a loro, il prodotto finito.

(Continua... Qui la puntata precedente)


Note
1 Per chi volesse approfondire il discorso, la rete è estremamente generosa di compendi del Capitale e di spiegazioni della teoria marxiana del valore. Una mia traduzione di un manuale di economia politica (Aa. Vv. Economia Politica, III ed., Mosca, Politizdat, 1971), laddove ai capp. II e II si trattano questi argomenti, è disponibile all’indirizzo: http://www.bibliotecamarxista.org/autori/economia%20politica.htm
2 Oltre a possedere e a utilizzare correntemente tutti e quattro i modelli citati (in realtà, non ho la Contax II ma la Kiev IV AM, un suo derivato sovietico di inizio anni Ottanta, ovvero mezzo secolo dopo la produzione di questa rivoluzionaria telemetro, e al posto della Zenit E ho la più “evoluta” - un po’ di ironia non guasta - Zenit TTL) qualcosa sull’argomento mi sono anche divertito a scrivere, qualche tempo fa. Paolo Selmi, Fotoglaz – Epopea fotografica sovietica e mutamenti del valore d’uso fotografico, Samizdat, 2016, https://www.academia.edu/23481893/FOTOGLAZ_Epopea_fotografica_sovietica_e_mutamenti_del_valore_d_uso_fotografico).
3 Fonte: https://www.zenitcamera.com/catalog/cameraproduction.html . Aggiungo, in URSS all’epoca la democratica tedesca costava DIECI volte tanto l’omologa sovietica. Il motivo era presto detto: ghiera dei tempi completa da 1 secondo a 1/1000 e otturatore metallico lamellare.
4 Vedasi, per esempio, uno dei primi testi dedicati all’argomento: Vance Packard, The waste makers, New York, David McKay Co. Inc., 1960.

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