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eticaepolitica

Bussole possibili per sinistre solide

di Andrea Cengia*

Da Etica & Politica / Ethics & Politics , XXII, 2020, 2, pp. 601-609, ISSN: 1825-5167

bussola 1Esiste ancora oggi uno spazio teorico-politico che risponde al nome di Sinistra? Giungere oggi a porre questa domanda, dopo la fine della drammatica esperienza sovietica, apre ad una rosa di riflessioni non scontate. Nel discorso pubblico generale, il richiamo a una non meglio precisata sinistra politica e culturale circola con grande facilità. Tuttavia, i partiti presenti, che numericamente dovrebbero farsi carico di rappresentare le istanze politiche di sinistra, non sembrano godere oggi di buona salute non solo dal punto di vista del consenso elettorale, ma anche sul piano della proposta politica. Si potrebbe sostenere che tale quadro si inserisce nella difficoltà più generale ad assumere una Weltanschaauung differente da quella di matrice riformista. Quest’ultima è individuata come unica possibilità — dialogica, comunicativa e di creazione di spazi di consenso —attraverso cui giungere alla levigazione delle asperità del dominante quadro di mercato, magari attraverso ‘sapienti’ interventi di ottimizzazione del sistema normativo e redistributivo. Questa descrizione coincide quasi integralmente con quella che Jacques Bidet ha definito come polo politico delle competenze, nominalmente alternativo al polo del capitale. Mentre quest’ultimo avrebbe una collocazione immediatamente riconoscibile, il primo è frequentato da individualità politiche che giustificano la propria esistenza sulla scena pubblica, basandola sul fatto che sarebbe in loro possesso, quasi esclusivo, la competenza a saper gestire e organizzare, anche con maggiore ‘umanità’, la macchina politico-produttiva del modo di produzione capitalistico1. La ricollocazione di queste formazioni riformiste all’interno dell’alveo del sistema sociale egemone, al fine di ristabilire chiarezza di proposte, finalità e referenti sociali, può essere ben condotta attraverso A Sinistra (G. Cesarale, A sinistra. Il pensiero critico dopo il 1989, RomaBari, Laterza, 2019).

Le ragioni dell’intero percorso compiuto da Cesarale hanno infatti il loro punto di avvio nella convinzione che le trasformazioni del post-1989 abbiano avuto un impatto epocale sui destini di quell’universo politico che continua ad essere classificato sotto l’ombrello della categoria politica della sinistra. Ma, come ricorda l’Autore fin dall’introduzione, la «sinistra», espressione che richiede di essere posta tra virgolette in quanto composta da tre anime «socialdemocratica, leninista e postmarxista», ha avuto la sorte di venire «travolta» dalla forza dirompente dell’onda lunga del tracollo sovietico (p. X). Nonostante un passaggio storico determinante si sia così consumato, dando avvio ai fenomeni più recenti delle trasformazioni del modo capitalistico, rimane opportuno porsi il seguente quesito: «cosa è sopravvissuto all’inabissarsi della sinistra» (p. XI)?

C’è già qui un interessante sbarramento, un limes, molto significativo per chi voglia osservare i temi delle trasformazioni sociali capitaliste secondo un’ottica non riformista e quindi fuori dall’idea che anche l’orizzonte culturale della sinistra sia ormai divenuto liquido. La zona di confine tracciata da Cesarale è costituita dalla prospettiva socialdemocratica. A ben vedere, le contaminazioni e gli slittamenti attuati dalle forze politiche socialiste, socialdemocratiche o democratiche di sinistra, almeno nell’ultimo quarto di secolo, hanno configurato un fenomeno unidirezionale di irresistibile attrazione verso un orizzonte politico, e prima ancora culturale, marcato dalla tradizione liberale, liberista e neoliberista2. Paradigmatica e ben giustificata sul piano teoretico, è quindi la scelta dell’Autore di non affrontare alcune posizioni teoriche che risultano fortemente problematiche rispetto a posizioni di ‘sinistra’. In particolare, se si considera la tendenza «incoercibile», del modo di produzione capitalistico ad «accumulare ricchezza astratta», ne consegue il venir meno del «compromesso fra capitalismo e democrazia», (p. 30). Perciò Cesarale considera evidente il limite degli approcci della cosiddetta seconda generazione della scuola di Francoforte (in particolare Jürgen Habermas, ma anche Claus Offe) il cui errore sarebbe quello di attribuire al modo di produzione capitalistico un’assenza di agency, di intenzionalità e di capacità di «riorientare il quadro sociale» (p. 30). Si comprendono così le ragioni per cui, in un testo dedicato al pensiero radicale che ruota nell’orbita della cosiddetta sinistra, non trovino spazio autori come Habermas che hanno visto «affievolirsi [l’]impulso critico-negativo» (p. XIII).

Rispetto a queste tendenze dell’agenda partitico/elettorale a rispondere con il metro della competenza e della responsabilità all’apparire di figure politiche eccentriche, apparentemente prepolitiche, il libro di Cesarale appare come una mappa utilissima per iniziare a compiere un’operazione strategica di riposizionamento sociale e culturale. Il testo va quindi pensato innanzitutto come una compatta introduzione, ma anche come una dettagliata incursione all’interno dell’arcipelago culturale del pensiero della sinistra critica per come è andato configurandosi dopo il 1989. Da qui si comprende anche il sottotitolo del testo: Il pensiero critico dopo il 1989. Cesarale sceglie un taglio molto preciso per dare forma a quella costellazione di studiosi e di idee che per molti anni, nonostante la crisi generale abbattutasi sulla sinistra negli ultimi decenni, ha tentato di ricostruire il filo di discorsi alternativi alla naturalizzazione delle idee legate ad un processo di socializzazione, tendenzialmente globale, attuato sotto le insegne dell’economia di mercato nonché della politica di potenza dei nuovi e vecchi soggetti statuali usciti dalla guerra fredda. Colpisce per chiarezza quindi la cadenza dei contenuti che animano il testo in cinque capitoli.

Seguendo l’andamento del testo, appare evidente che per Cesarale ciò da cui si deve partire è l’analisi dello stato delle trasformazioni tardonovecentesche del modo di produzione. Si tratta di cercare una risposta al quesito: quali interpretazioni sono emerse negli studi covati e apparentemente congelati (p. 3) nell’arco di tempo che si colloca tra gli anni Settanta e Novanta? Il capitolo iniziale del testo si confronta con quei percorsi di ricerca che non hanno creduto all’idea della fine della storia, che si sono interessati «alla natura e alle forme di evoluzione di questo sistema economico» che, pur subendo una sorta di embargo, di «congelamento», sono comunque riusciti a porre le basi per un’analisi marxista originale e ricca di contaminazioni (pp. 34). La caratteristica saliente, che l’Autore pone in risalto, è il fatto che questo processo di ripresa del pensiero di Marx, in chiave di analisi del modo di produzione capitalistico, trova un suo punto di forza nel poter operare senza «dèjà vu o dèjà vécu» (p. 3). A partire da qui, l’Autore comincia a delineare la mappa degli sforzi di ricerca dando voce, in maniera molto significativa, all’esperienza di Immanuel Wallerstein. Cesarale segnala qui la forza euristica, ma allo stesso tempo, il limite dell’apparato teorico di Wallerstein. Esso è da un lato incapace di aprire un varco all’interno dei limiti delle visioni teoriche dominanti, ma dall’altro è in grado di offrire un quadro teorico e una proposta politica di assoluto rilievo, al fine di «rifondare il progetto di emancipazione sociale e politica» (p. 5) che storicamente è stato elaborato «dalla sinistra liberale e marxista» (p. 5).

L’idea di Wallerstein è di «dotare la sinistra di una nuova capacità di governo dei processi storici» (p. 5), in particolare a partire dall’asse interpretativo centro/periferia (p. 7). Se ne ricava che leggere il modo di produzione capitalistico prevalentemente come modo di produzione e non di accumulazione impedirebbe di comprendere l’elemento chiave dei cicli economici, anche in significativo distacco dalle analisi marxiane (p. 9). L’importanza delle analisi di Wallerstein si gioca continuamente su due piani: il lato della ricerca teorica e quello della finalità politica. Infatti il suo impianto ermeneutico permette di definire diacronicamente la relazione tra le trasformazioni del modo di produzione e l’elaborazione di risposte politiche il cui baricentro è il concetto di emancipazione, rintracciabile già nelle pagine marxiane Sulla questione ebraica3. È proprio a questo livello, precisa Cesarale, che l’analisi di Wallerstein assume grande rilievo perché si gioca sul rapporto tra universalismo e particolarismo.

Nel dispiegarsi del capitolo, Cesarale mette in rilievo come la prospettiva di Wallerstein possa essere affiancata a quella di Giovanni Arrighi, grazie alla comune frequentazione della lezione di Braudel. Il tratto teorico che accomuna questi autori riguarda l’aver privilegiato la dimensione accumulativa del sistema economico rispetto a quella produttiva. L’analisi dell’ascesa e del declino di alcune nazioni egemoni appare un punto di osservazione originale nel quadro dell’analisi dei processi di accumulazione. Indagare il capitale nelle sue ubique trasformazioni porta anche a coinvolgere in questa ricerca figure come quelle di David Harvey che osservano il processo di trasformazione capitalistico attraverso una «logica bidimensionale» fatta di logica dello stato e di logica del capitale (p. 17). Del successivo percorso di Harvey, Cesarale segnala, come punto di svolta, l’indagine compiuta all’interno delle carte marxiane, in particolare rileggendo il Libro II e il Libro III del Capitale e ricavandone un confronto con la categoria di limite (p. 18). Si tratta di un punto di grande interesse analitico che appare nei Grundrisse. In secondo luogo ad Harvey va ascritto il merito di aver individuato, nella costante ripetizione dell’accumulazione originaria, la condizione necessaria per l’avvio dell’impresa nonché il fondamentale concetto di accumulazione per espropriazione (p. 20) a cui si affianca il credito finanziario supportato dallo stato (p. 21). Qui si colloca il lato politico cioè come il capitale può superare le resistenze della forza-lavoro (pp. 2122) con azioni di definizione dei parametri riproduttivi di quest’ultima e delle crisi capitalistiche, attentamente osservate da Harvey. Il tema delle crisi del modo di produzione capitalistico e i suoi effetti sono ripresi nel testo, ricordando il peso delle ricerche di Streeck, Postone e Boltanski e Chiapello.

Il tema marxiano della sussunzione, formale e reale, torna costantemente attraverso le ricerche compiute da molti degli autori presentati nel testo. Gli effetti di questa dimensione trasformativa delle relazioni sociali hanno un peso così determinante da coinvolgere la grande questione della sovranità. Il testo inevitabilmente si trova così ad affrontare l’interrogazione sul «progressivo indebolimento» (p. 48) della sovranità, seconda pietra angolare del ragionamento complessivo proposto dal testo. Cesarale sceglie di indagare il tema attraverso le prospettive inaugurate da Giorgio Agamben, Antonio Negri e Wendy Brown. Lo spazio che il testo dedica alla complessità del discorso agambeniano, di cui l’Autore ricostruisce con grande attenzione l’intero arco della produzione, è giustificato dal fatto che l’opera di Agamben «è uno degli sviluppi più profondi seguiti alla fissazione, compiuta da Martin Heidegger, della differenza ontologica come differenza tra essere ed ente» (p. 49). Nell’ottica del ragionamento sulle trasformazioni della sovranità, è a Carl Schmitt che Agamben si rivolge, al fine di recuperare la categoria politica della sovranità intesa come stato d’eccezione. Si tratta di un insegnamento molto importante per il pensiero agambeniano che, combinato con la riflessione precedente, porta a istituire tra sovranità e vita sacra una relazione di «bando» (p. 61), che espone i cittadini a condizioni tanatopolitiche, all’avvento dei fascismi dove lo stato d’eccezione diviene la regola (p. 61). Se ne ricava la necessità di decretare l’esaurimento del principio borghese della divisione del potere. La fine di questa esperienza, che produce, come segnala Agamben in Stato di eccezione, la primazia del potere esecutivo sul potere legislativo, di fatto svuotando uno degli assi costitutivi delle democrazie parlamentari, non avviene sulla base di una rottura, ma piuttosto, come ha osservato Tomba, secondo il continuum di una crisi che pertiene all’essenza dello Stato moderno4. Di fronte a questo panorama politico, l’itinerario di Agamben si ricostituisce attraverso il richiamo al messianesimo. Il che si traduce per Agamben nella scoperta della condizione umana come di una condizione, mistica secondo Negri (p. 68), di estrema fragilità e impotenza. È Negri, infatti, l’Autore scelto da Cesarale per misurare la portata del pensiero di Agamben, in particolare per quel che riguarda la «tautologia della sussunzione» (p. 68). Sul piano dell’interpretazione marxiana, Cesarale affronta un tema assai interessante, ossia il giudizio di Negri sul ‘vero’ Marx contenuto nelle pagine di Marx oltre Marx. In quest’ultimo testo Negri ritiene di aver colto «l’apice» del pensiero marxiano, individuato nei Grundrisse e non nel Capitale.

Non poteva mancare uno spazio alla più recente produzione di Antonio Negri,quella realizzata in collaborazione con Michael Hardt. Ciò che ne emerge è il costante sforzo dei due autori ad afferrare la forma della nuova soggettività antagonista per il XXI secolo. Si assiste qui al tentativo di collocare la figura dell’operaio sociale all’interno della categoria del «potere costituente» (p. 74), un approdo post-operaista che trova in Spinoza un insostituibile «nume filosofico» (p. 76). Grazie a quest’ultimo, commenta Cesarale, Negri ha «soprattutto ricavato un concetto ancora più denso e preciso di “prassi costitutiva” (p. 76). È merito di questo capitolo, infine, porre l’accento sull’articolazione data da Negri al concetto di impero («ripresa dello schema polibiano della “costituzione mista” p. 79), alle sue critiche e, attraverso le sue difese successive, giungere a raccogliere «l’eredità del discorso foucaultiano» (p. 80).

Filtrati attraverso le lenti di Hardt e Negri, questi temi assumono una stratificazione polimorfa in cui appaiono, secondo un ordine gerarchico, le istituzioni guida della governance globale, coadiuvate dalla «supervisione» degli USA con la coda problematica che riguarda il ruolo del capitale internazionale e degli stati nazionali. Ora, l’assetto che Impero fotografa si costituisce a partire, almeno, dalla ristrutturazione dei rapporti socioproduttivi avvenuti negli anni ’70’80, prodromi dell’affermazione egemone del neoliberismo. Proseguendo con grande organicità su questo piano, il testo propone uno spazio dedicato a Wendy Brown, ossia a colei che si è sforzata di studiare i temi della sovranità a partire dagli effetti del neoliberismo, tenendo conto dei limiti dell’interpretazione foucaultiana. Si tratta di un aspetto non di secondo piano in quanto permette una ricollocazione critica di categorie foucaultiane, quali sovranità e governo, che hanno avuto grande eco nel dibattito filosofico degli ultimi decenni. Un punto che merita di essere notato riguarda l’indagine di Brown sulle trasformazioni interne «agli apparati e delle ideologie di stato», come le questioni riguardanti le valutazioni da parte di agenzie extrastatali dei bilanci pubblici e delle iniziative di spesa. A questo livello, commenta Cesarale «la diagnosi di Brown tocca […] il suo apice» (p. 87) in quanto in grado di smascherare la forma ideologica del «patriottismo economico» (p. 88). Giunta a questo punto l’operazione di Cesarale è riuscita, con grande chiarezza e sintesi, a mettere a disposizione del lettore una serie di ‘diagnosi’, ossia di tentativi di costruzione di un pensiero che affronti con radicalità i temi delle imponenti e trasversali mutazioni del modo di produzione capitalistico.

Ora, quasi a seguire la basilare osservazione esposta da Marx nel capitolo 48 del Libro III del Capitale, secondo cui «il capitale non è una cosa, bensì un determinato rapporto di produzione sociale, appartenente ad una determinata formazione storica della società»5, il lavoro di Cesarale si concentra su Le nuove dimensioni della soggettività a cui è dedicato il terzo capitolo. Gli autori che vengono scelti, Alain Badiou, Slavoj Žižek e Fredric Jameson, sono pensatori che al tema hanno dedicato riflessioni originali con le quali un testo sul pensiero radicale contemporaneo non poteva non confrontarsi. Quale ruolo spetta al soggetto (e ai processi di soggettivazione) nella sua relazione con il modo di produzione capitalistico? Si tratta di un quesito che implica la presa di distanza dalle posizioni di Foucault e di Habermas, accomunati qui dall’aver posto in secondo piano il fatto che il soggetto «vivrebbe sempre nell’intervallo fra trasparenza cognitiva e oscuramento ideologico» (p. 90). Non c’è quindi spazio per un soggetto trascendentalmente inteso, né per un soggetto che si assuma il peso stoico della mediazione tra «forze antagoniste» (p. 90). Ciò di cui si reclama teoreticamente e politicamente l’esistenza è una «nuova visione della soggettività» (p. 91).

L’esposizione del pensiero di Alain Badiou, che il testo affronta, offrendone un’esaustiva collocazione, assume le conclusioni appena viste come un punto di partenza fondamentale. Dal capitolo emerge nettamente la collocazione del soggetto (distinto da individuo p. 95) che Badiou cerca di delineare. Dal soggetto, secondo Badiou, si origina una forma di soggettività che si costituisce attraverso il «carattere emancipativo dell’idea comunista», ossia mediante l’iscrizione partecipata in una «sequenza storica» (p. 95). È a questo livello che si giunge al trascendimento della propria esperienza ‘animale’ (oggi performativa), per giungere a spazi di possibilità altrimenti impossibili da esplorare. A questa prospettiva e al lavoro di ricerca di Badiou, iniziato con La teoria del soggetto, Cesarale accosta l’analisi di Slavoj Žižek, che è stato tra coloro che hanno cercato di «recepire negli ultimi anni la prospettiva filosofica e politica aperta da Badiou» (p. 102). Riuniti attraverso il comune riferimento a Lacan, Badiou e Žižek si distanziano in quanto Žižek, attraverso Hegel, punta a interrogare il soggetto e a permettergli di esperire un contatto con la dimensione del negativo e dell’assoluto (p. 112). Al tema dell’assoluto Cesarale collega anche Fredric Jameson, al cui pensiero è dedicata una consistente ed esaustiva ricostruzione. Emerge da subito come per Jameson occorra attribuire grande rilevanza alla dimensione dialettica. Questo aspetto è particolarmente importante nel caso in cui, come puntualizza Cesarale, la dialettica venga pensata in «un rapporto con il forte momento antidialettico presente nel pensiero contemporaneo» (pp. 113114) e «anche con ciò che potremmo chiamare il ‘nondialettico’» (p. 114). Ne consegue che la verità non coincide con le apparenze del quotidiano e, tuttavia, «continua a trapelarvi» (p. 115). È a questo livello che Žižek e Jameson mostrano punti di contatto: salvare le apparenze in modo non meccanicamente empiristico, ma attraverso la funzione mediatrice della ragione (p. 114). Si tratta di affrontare per questa via la condizione postmoderna che per Jameson, come Cesarale puntualizza, significa la spinta composta di due vettori: quello della dimensione dell'intelletto, intesa hegelianamente, e quello della cornice ideologica (p. 115). La loro combinazione configura per il soggetto «una inestirpabile funzione mentale» (p. 115). In sintesi, secondo l’Autore, con il pensiero di Jameson, assieme a quello di Lyotard e Harvey, siamo di fronte alla «più importante disamina della situazione postmoderna mai fornita» (p. 118) che giunge fino all’esplorazione del processo di sublimazione dell’esperienza storica all’interno della dimensione culturale (p. 122).

Il testo di Cesarale raccoglie quindi una mappa preziosa per orientarsi e orientare i processi di ricerca che sono maturati sui resti del muro di Berlino secondo la più che opportuna prospettiva della «opacità che circonda il prodursi degli eventi» nel post 1989 (p. VII). L’intera quarta parte del testo, intitolata Tra universalismo e antagonismo: la democrazia difficile, cerca di cogliere ulteriori possibilità di interpretazione della dimensione dell’azione politica dal pensiero di Étienne Balibar, di Jacques Rancière e di Ernesto Laclau. In gioco, ricorda opportunamente Cesarale, vi è il dibattito sul rapporto tra socialismo e democrazia (p. 123). Gli autori che si incontrano in questo capitolo indagano tale rapporto fuori dalla teoria deliberativa habermasiana. Ciò che li accomuna è la presa di distanza dalle «premesse teleologiche del marxismo» (p. 124) e la consapevolezza della ineliminabilità della dimensione del conflitto sociale, rispetto all’idea deliberativa del consenso. A partire da questi presupposti, il lavoro di Balibar si configura come un tentativo di ricerca che individua nella dimensione del conflitto un baricentro fondamentale. In particolare, iniziando dall’esperienza francese tra gli anni ’70 e ’80, Balibar coglie il nesso tra nazionalismo e razzismo, dove il secondo, come ricorda Cesarale, diviene un «supplemento inevitabile» del primo (p. 125). Da qui Balibar giunge ad interrogarsi sulla dimensione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Grazie all’esposizione delle tesi di Balibar, Cesarale conduce il lettore alle soglie di uno dei temi fondamentali per la ricostruzione di una prassi politica che si ispiri all’orizzonte culturale della sinistra critica. Inoltre l’identificazione di libertà e uguaglianza conduce alla necessaria richiesta di più diritti e più potere (p. 128).

Nella ricostruzione offerta non poteva mancare un riferimento al pensiero politico di Jacques Rancière. In particolare Cesarale segnala come Il disaccordo possa essere considerato «uno dei libri di filosofia più importanti degli ultimi anni» (p. 133). In Rancière si trova quindi un’ulteriore risposta polemica che non può accettare l’idea del consenso a-conflittuale elaborato da Habermas. Come ricorda Cesarale, per Rancière «la comunità politica nasce dal dissenso» (p. 135) e quindi «è la lotta di classe che genera le condizioni della politica» (pp. 135136). L’azione combinata di questi pensatori francesi trova in Ernesto Laclau un ulteriore elemento di arricchimento. Quest’ultimo lavora infatti sull’indicazione di Rancière in merito alla necessità «della trasformazione della plebs in populus» (142).

L’operazione di Laclau va nella direzione di una riappropriazione e, al tempo stesso, di un superamento del marxismo (p. 145) «sul terreno di una nuova immagine del “sociale”» (p. 145) a seguito delle profonde trasformazioni che coinvolgono l’affermarsi del modo di produzione capitalistico su scala planetaria. È anche attraverso queste premesse che Laclau giunge alla individuazione delle tre categorie (differenza, antagonismo ed egemonia p. 149) che dovrebbero definire quello che Cesarale nomina come «il senso del fenomeno politico più ambiguo e sfuggente della contemporaneità», ossia il populismo (p. 149), a partire dalla considerazione che la dimensione sociale conterrebbe, secondo l’ispirazione gramsciana di Laclau, una «razionalità precedente alla plasmazione politica» (p. 148). «La ragione populista è la ragione politica tout court» (p. 148) e perciò, sempre con Cesarale, si può ridefinire il quadro democratico all’altezza delle trasformazioni sociali in corso non tramite la dimensione dell’accordo/consenso. Piuttosto occorre assumere che «l’esperienza democratica è […] vincente quando sa articolare positivamente il nesso tra crisi e trasformazione» (p. 152).

Combinata la varietà e la complessità dei tentativi di confronto con la portata epocale delle trasformazioni messe in atto dal modo di produzione capitalistico, l’ultima parte del testo, Il pluriverso delle identità, conduce il lettore ad un confronto con ulteriori nodi teorico-politici ai quali la costruzione di forme di pensiero critico per il XXI secolo non può sottrarsi. Sono i temi della identità queer, affrontati secondo la prospettiva di Judith Butler, delle forme di emancipazione femminile di matrice non liberale in Nancy Fraser e dei problemi legati alla complessa dinamica postcoloniale (tra coscienza nera, rapporto con l’imperialismo e biopolitica). Per questi ultimi temi Cesarale interpella Gayatri Spivak, Paul Gilroy e Achille Mbembe.

Per concludere questa parziale introduzione ai temi vastissimi affrontati da Cesarale, occorre affermare che da questo testo emergono le fatiche del pensiero che ha riflettuto e riflette sul modo di produzione capitalistico confrontandosi, anche problematicamente, con il pensiero marxiano e marxista. Quest’area di riflessione teorico-politica è stata data per defunta nel corso degli anni passati, mentre appare oggi come un elemento imprescindibile per due ordini di questioni. Essa è innanzitutto una critica dell’economia politica, ossia una riflessione teorico-critica sul reale, ma è anche una fucina politica, ossia un luogo che connette la riflessione teorica con l’istanza etico-politica dell’emancipazione. Vale quindi un’osservazione dell’Autore che accompagna tutto il testo: la difficoltà che queste teorie hanno incontrato e ancora incontrano, perché «cresciute su un terreno inospitale» (p. 3), sta certamente giovando alla costruzione di un ricco arcipelago di indagini e di categorizzazioni. Il passaggio successivo, ossia la loro organica contaminazione con la frammentata e impaurita sfera pubblica, in particolare in Occidente, richiede uno sforzo politico, tutto da costruire, la cui urgenza non è differibile. Il testo di Cesarale appare quindi una guida utilissima per chi voglia iniziare a riprendere ad agire politicamente, a partire da consistenti basi teoriche, nella sfaccettata condizione sociale contemporanea. È chiaro che altri passaggi saranno necessari. Comunque si dipani questa vicenda, A Sinistra appare come un ricco strumento di scavo e di riflessione di cui si sentiva la mancanza.


* Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali Università degli studi di Padova
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Note
1 Su questo si vedano due interventi di Jacques Bidet. Si veda J. Bidet, Is Capital a Critical Theory?, Crisis and Critique, vol. 3, fasc. 3, novembre 2016, pp. 66–82; J. Bidet, «Eux» et «nous»? Une alternative au populisme de gauche, Paris, KIME, 2018.
2 Come ha ricordato recentemente Robert Knox la cosiddetta ‘terza via’ ha paradigmaticamente rappresentato il luogo privilegiato dell’assorbimento delle parole d’ordine neoliberali all’interno di un panorama di sinistra.«‘Third Way’ variants of social democracy were busy implementing neoliberalism», R. Knox, Introduction, Historical Materialism, vol. 27, fasc. 1, marzo 2019: 3.
3 K. Marx, F. Engels, Opere complete 3: 1843-1844, N. Merker (a cura di), Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 159.
4 M. Tomba, La vera politica: Kant e Benjamin: la possibilità della giustizia, Macerata, Quodlibet, 2006.
5 K. Marx,Das Kapilal. Kritik der Politischen Ökonomie, Hamburg, Meissner, 1894, tr. it. di Maria Luisa Boggeri, Il capitale: Critica dell’economia politica. Libro terzo, F. Engels (a cura di), Roma, Ed. Riuniti, 1989, p. 927.

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