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Liberalprogressismo, liberalconservatorismo e “sovranismo” nella crisi della democrazia moderna

di Stefano G. Azzarà

119706688 10220752707582143 5524448694293155846 oIl 9 gennaio interverrò alla Rosa-Luxemburg-Konferenz - appuntamento di dibattito teorico ormai divenuto istituzionale per i comunisti e la sinistra europea e dedicato quest'anno al confronto tra razionalismo e irrazionalismo - presentando una sintesi del mio libro "Il virus dell'Occidente".

Nel frattempo, Junge Welt (11.12.2020) ha tradotto e pubblicato un estratto, nel quale parlo del concetto di "popolo", della genesi della democrazia moderna e della sua attuale crisi, caratterizzata dall'involuzione in chiave imperiale dell'universalismo, dalla reazione particolarista (populismo e sovranismo) e dell'imminente riconciliazione tra queste due varianti del liberalismo. Nel link in fondo la versione tedesca, qui di seguito il testo in italiano. Seguirà presto il programma della Konferenz.

* * * *

I rapporti di forza politico-sociali sono il segreto della democrazia moderna nella sua lunga storia. E sono, alla stessa stregua, il mistero della sua crisi nella sua più rapida agonia. Dal momento in cui e fino a quando i rapporti di forza tra le classi in lotta si sono mossi verso un maggiore equilibrio, si sono prodotte le condizioni per la fioritura di imponenti processi di democratizzazione. Finché le classi subalterne sono riuscite a difendersi e poi a farsi rispettare, conquistando il riconoscimento attraverso la loro capacità di agire il conflitto in maniera consapevole e organizzata, si è innescato un grandioso meccanismo di redistribuzione dello status, della ricchezza materiale e immateriale, del potere e della cultura che non ha certamente realizzato l’eguaglianza ma che sulla strada dell’eguaglianza si è quantomeno incamminato. E che ha dato vita alla democrazia moderna, arrivando per certi tratti e in certi momenti particolarmente felici anche a mettere in discussione i rapporti di proprietà e il controllo della produzione stessa.

Da quando invece quelle stesse classi non sono state più in grado di tutelarsi e di reagire, e nemmeno di passare all’offensiva e di proporre e sviluppare una propria idea e un proprio progetto di società, diffondendo la propria egemonia e facendo leva sui bisogni di emancipazione di strati sociali sempre più vasti – quando quella lotta consapevole e organizzata si è arrestata e nessuna autonoma spinta politica dal basso ha saputo più contrastare la lotta di classe esercitata con ferocia dall’alto da parte delle classi dominanti – ogni equilibrio si è rotto. E il meccanismo di redistribuzione ha cominciato a funzionare al contrario, concentrando risorse verso l’alto e restituendo alle classi proprietarie ciò che erano state costrette a cedere nel corso di un lunghissimo ciclo storico.

Sappiamo che questa potenza politica delle classi subalterne, la loro efficacia nel modificare i rapporti di forza dati, è legata essenzialmente alla loro capacità di unirsi, di sommare le innumerevoli loro debolezze in un’unica forza che sia in grado di contrastare quella forza dapprima infinitamente maggiore che le classi dominanti nel modo di produzione capitalistico si ritrovano “per natura”. Non è stato facile realizzare questa unità oggi infranta, superando barriere storiche, geografiche, linguistiche, comportamentali, di status e formazione. Non è stato facile unire i servi della gleba inurbati di ogni provenienza, renderli classe nel corso di un secolo, introdurli nello Stato e nelle istituzioni, portare i contadini e gli operai ad essere legislatori e persino governanti. Sindacati, partiti politici, associazioni, organizzazioni tra le più varie: unire ciò che era diviso ha richiesto una mobilitazione senza precedenti nella storia del genere umano. Sotto questo aspetto, non sarà certamente possibile – in un futuro prossimo o anche meno prossimo – replicare il compromesso fordista-keynesiano, o socialdemocratico che dir si voglia, nelle forme in cui si è dispiegato nel secondo dopoguerra, così che in questo senso, paradossalmente, è forse più probabile la vittoria finale del soviet che un ritorno di Keynes. Ma non è questo in realtà il punto: ciò che va ripristinato non è questa o quella configurazione determinata dei rapporti di produzione ma l’equilibrio relativo avanzato che era stato raggiunto nel conflitto tra le classi, trovando forme nuove e all’altezza dei tempi per la sua espressione. Ora che quella antica unità è stata distrutta dai dominanti con un bombardamento a tappeto che si è scatenato anzitutto sul terreno del lavoro, ora che ciò che si era con tanto dolore unito è stato diviso, in condizioni diverse e con prospettive esse stesse diverse non c’è perciò nessuna alternativa all’unica legge che la politica conosca: tornare a unire ciò che è stato nuovamente diviso e tornare a farlo nell’unico modo in cui questo è possibile, e cioè attraverso un faticoso e per lo più oscuro lavoro di ricucitura che porti i subalterni a riconoscersi ancora una volta gli uni negli altri, al di là del loro contratto di lavoro, del loro dialetto, della loro lingua nazionale, e a confliggere assieme sommando le loro debolezze in un’unica forza che alteri gli equilibri regressivi vigenti.

Della complicata manipolazione di questi rapporti di forza fa parte dunque un impegno di ricostruzione di un campo progettuale che sarà inevitabilmente di lunga durata, visto che dopo la devastazione intercorsa si tratta di ridefinire quasi per intero una posizione autonoma e persino un linguaggio condiviso, e che dovrà svolgersi anzitutto sul piano politico e su quello sindacale. Una prospettiva che non consente di essere troppo ottimisti, questa, perché deve misurarsi con la mancanza di un fronte progressista e democratico degno di questo nome, in Italia come in Europa, in una fase che per molto tempo non potrà che essere di ritirata strategica e cioè tutta di difesa degli elementi di democrazia moderna ancora persistenti, e non certo quell’impetuosa fase “rivoluzionaria” immaginata dai movimenti populisti.

Ma di questa operazione fa parte per quanto ci riguarda anche la ricostruzione di una forma di coscienza autonoma dei subalterni, dopo che decenni di un minuzioso lavoro di dissoluzione delle “ideologie” promosso dal postmodernismo ha lasciato sul campo l’unica ideologia che la religione capitalistica riconosca, quella liberale in tutte le sue varianti, affidandole il soddisfacimento di tutti i bisogni ideologici che la società produce. Non c’è unità possibile del mondo del lavoro, infatti, se non c’è anche una coscienza che abbia costruito basi comuni. Se cioè i particolarismi e i solipsismi corporativi nei quali le politiche economiche e sociali degli ultimi decenni hanno frantumato le classi subalterne, disperdendole mediante l’innovazione tecnologica, la legislazione del lavoro, lo spettacolo del postmoderno e mille altri espedienti, non verranno ricomposti. Se i più deboli non torneranno a riconoscere, cioè, che i problemi che li investono sono anche i problemi di chi sta loro accanto sul posto di lavoro, o in qualunque altro posto di lavoro si trovi; che i loro bisogni sono bisogni comuni a milioni di persone, che i loro desideri sono frustrati come quelli di tanti altri. E se, su questa base, i subalterni non ritroveranno la consapevolezza della propria esclusione, l’orgoglio della propria dignità di produttori, l’identità di chi fa funzionare il mondo, il senso di appartenenza alla categoria negletta di chi è sfruttato.

Sono del resto proprio le classi subalterne, più di ogni altro gruppo sociale, ad aver bisogno di costruire in maniera autonoma la propria forma di coscienza attraverso un doloroso sforzo di crescita culturale che fornisca loro un’identità storica fondata sui conflitti reali. Così che è facile, nel momento in cui esse questa identità e non sono più in grado di svilupparla come forma di coscienza progettuale a partire dai propri luoghi di confronto e dibattito e dalle proprie organizzazioni, che esse finiscano per subire l’egemonia di altri interessi sociali e arrivino a pensare come questi desiderano e come a questi conviene. Assorbendo forme di coscienza eteronome, indotte e reattive. Che non possono essere altro a quel punto che forme di coscienza egoistiche e competitive, oppure naturalistiche e fondamentalistiche – e quindi particolaristiche e divisive –, come quelle che invitano i subalterni ad aderire ad ambigui fronti trasversali “oltre destra e sinistra”, che indicano loro i nemici sbagliati secondo il colore della pelle e nei quali troverebbero però soltanto ulteriori occasioni per sottomettersi ai veri responsabili della propria subalternità. Prendiamo ad esempio il cosiddetto sovranismo, oggi in crescita in tutti i paesi europei. Il sovranismo si presenta come avversario del neoliberismo e a volte persino come avversario del liberalismo in quanto tale. Esso non è invece né l’uno né l’altro ma – a partire dalla condivisione di una fenomenologia verticale del potere che divide nettamente Alto e Basso – del liberalismo costituisce una variante o per meglio dire un’involuzione.

Per più di un secolo la scuola liberale di pensiero ha vissuto un’evoluzione in chiave democratica, anche se – come ricordava Domenico Losurdo – “in larga parte imposta dall’esterno, ad opera di movimenti politici e sociali coi quali il liberalismo si è ripetutamente e duramente scontrato”. Un’evoluzione dovuta all’incontro e al confronto con le istanze delle classi subalterne che andavano organizzandosi e lottando per la propria emancipazione, perciò, ma dovuta anche alle specifiche condizioni della Guerra fredda e alla competizione con un nemico strategico rispetto al quale era indispensabile agire anche in chiave egemonica. Una volta che questo nemico è stato sconfitto e che nessuna alternativa di sistema ha più minacciato l’ordine capitalistico, e una volta che le classi subalterne hanno perduto la loro capacità di deterrenza e resistenza e si sono vieppiù indebolite, il liberalismo ha potuto godere di rapporti di forza favorevolissimi e, incontrastato per mancanza di avversari, ha gettato a mare l’egemonia in chiave universalistica ed è tornato a posizioni conservatrici e particolaristiche o ‘storicistiche’ (laddove questo termine va inteso nel senso di Hugo e Savigny e della Scuola storica del diritto criticata da Marx). Secondo le linee di una tensione interna mai risolta “tra due tipi di liberalismo – tra quello dei riformatori sociali che difendevano un ideale di bene comune e quello dei sostenitori della libertà individuale come un fine assoluto” (Dardot e Laval), la quale ultima sarebbe poi la libertà del solo individuo proprietario. Nel tornare all’Ottocento o all’epoca che precedeva la Prima guerra mondiale sul terreno economico, con la pretesa di avere mano libera nei rapporti di lavoro ripristinando relazioni di dipendenza personali che sono funzionali in primo luogo ai settori più arretrati del mondo padronale e imprenditoriale, il liberalismo torna però anche a quell’impostazione conservatrice sul terreno culturale che per lungo tempo ha costituito la base della sua efficace compenetrazione con l’aristocrazia durante la fase terminale dell’Ancien Regime ma che tanto piaceva anche agli ideologi e ai movimenti reazionari sia della prima che della seconda parte del Novecento. Esso riconsegna cioè nelle mani delle classi dominanti il monopolio di un potere privo di intralci e concentra verso l’alto la ricchezza sottratta al welfare nello stesso momento in cui offre in pasto ai ceti medi ma anche ai subalterni, decapitati di ogni autonomia, la consolazione di una presunta storia gloriosa alle spalle nonché di alcuni valori tradizionali putrefatti ma a buon mercato e il facile fantasma sovranista di un nemico straniero.

Scavando a fondo, però, tra l’universalismo astratto e il particolarismo, tra il fondamentalismo liberaldemocratico (compresa la sua variante agambeniana) e il fondamentalismo populista – la cui iniziale ‘rivolta’ contro il liberalismo progressista e globalizzatore delle élite o delle ‘caste’ stabilite viene oggi riassorbita dal liberalismo conservatore – non sussiste nessuna alternativa essenziale e la differenza tra loro sta solo nell’ampiezza del raggio con il quale ciascuno di questi sotto-paradigmi disegna lo spazio sacro della libertà definendone i confini. Nell’universalismo astratto questo raggio va dall’individuo isolato al mondo intero, ma lo fa saltando qualunque mediazione e finendo con ciò per ripiegarsi nell’egoismo privato e nella sua potenza di produrre di volta in volta le relazioni che gli sono funzionali. Nel sovranismo – e sempre più anche nel liberalismo conservatore che vorrebbe riaccoglierlo in casa come si fa con il figliol prodigo e che ne cavalca la critica antiuniversalistica – il raggio va invece dall’individuo alla comunità ristretta (e da qui alla nazione), escludendo anche in questo caso l’altro e naturalizzando le gerarchie e i rapporti di forza che articolano la Gemeinschaft. Entrambe queste tendenze, però, sono di fatto assolutamente certe della propria unità nella comune esaltazione della supremazia dell’Occidente e della religione cultuale capitalistica, che rappresentano la loro ideologia condivisa di riferimento – con le sue ricadute in termini di totale misconoscimento dell’altro e in particolare del totalmente altro – e dalla cui egemonia nessuna delle due è in grado di fuoriuscire. Non è un caso, allora, che sovranismo e liberalismo storicista tendano oggi a confondersi sempre più sino a risultare indistinguibili, man mano che il liberalismo conservatore si sposta verso destra e verso un atteggiamento particolarista, nello sforzo di riassorbire la “scissione” populista. E cioè nel tentativo di ricucire quel blocco sociale che fa da contorno alle classi dominanti ma che si è ad un certo punto infranto, quando le frazioni stabilite di queste élite, quelle più vicine alle catene globali del valore e ai flussi del capitale finanziario, non sono più riuscite a tutelare i ceti medi e la piccola borghesia, perdendo legittimazione e esponendosi in tal modo all’offensiva delle élite outsider (e cioè di quella frazione delle classi dominanti che nella globalizzazione ha meno interesse ed è più propensa a politiche protezionistiche in nome del capitale “produttivo” e “nazionale”).

Né l’universalismo astratto, né il sovranismo particolarista ci consentono però di sciogliere il crampo dell’Occidente e di fuoriuscire dall’introflessione della religione capitalistica. Ecco che, ad esempio, in occasione della pandemia in corso, invece di guardare negli occhi il problema filosofico fondamentale che questa emergenza ci ha costretti a riscoprire, e cioè il problema dell’Altro e dell’incapacità della nostra civiltà di confrontarsi con esso già a partire dal suo riconoscimento (un’incapacità che ha condotto l’Occidente stesso sin oltre le soglie del rischio autoprocurato), queste due varianti del liberalismo hanno ingabbiato persino il dibattito filosofico continentale in un’estenuante ma falsa discussione tra due alternative che sono in realtà due differenti versioni del medesimo atteggiamento. Proprio per questo, al contrario, sarebbe invece importante ascoltare d’ora in poi anche esperienze di organizzazioni socio-politiche ed economiche diverse; esperienze che possano aiutarci a mettere in discussione i paradigmi sui quali abbiamo fondato la vita delle nostre società negli ultimi decenni, a partire dal rapporto tra Stato e mercato ma ancor prima dalla concezione in cui essi sono inquadrati. E che possano farci capire anche la possibilità di un diverso rapporto tra Stato e masse, ispirando una non meno diversa idea del “popolo”. Un’idea, cioè, che nel logorare i confini dello spazio sacro dei pari definito dal liberalismo dirittumanista fintamente universalistico e poi dal neoliberalismo secondo le modalità occidentaliste dell’individualismo proprietario (che è in realtà un anti-individualismo reale e dunque un anti-umanismo) possa sfuggire anche alla ridefinizione regressiva che ne forniscono il liberalismo conservatore e il sovranismo comunitaristico. In questa prospettiva, per sottrarsi all’egemonia dell’ideologia liberale e neoliberale integrale è sbagliato infatti inseguire le tendenze sovraniste nella loro descrizione organicistica del popolo come entità omogenea, indifferenziata e compatta. E si tratta invece di riconcepirlo contrapponendo a quella sua deformazione ideologica fondamentalistica che abbiamo ricostruito una riscrittura più rigorosa, che ne faccia emergere l’articolazione interna e le potenzialità universalistiche concrete muovendo dal concetto di “classi popolari”. “Popolo” sono cioè in primo luogo le classi lavoratrici, i lavoratori subordinati di ogni provenienza, tutti quei lavoratori che sono privati dei mezzi di produzione e che svolgono una funzione subalterna e diretta anche se sul piano giuridico sono formalmente autonomi. E che si contrappongono a quei ceti che detengono i mezzi di produzione materiali o immateriali, a prescindere dal fatto che il capitale di questi ceti sia prevalentemente fisico o intellettuale o prevalentemente finanziario, che sia piccolo o che sia grande, che sia nazionale o apolide. “Popolo”, inoltre, sono anzitutto gli esclusi: coloro che non sono riconosciuti nella loro dignità per via della loro collocazione sociale, della loro marginalità, della loro origine, e che a partire da questa differenza non hanno voce e divengono oggetto di dominazione e sfruttamento. “Popolo” sono, infine, quelle realtà nazionali sottomesse o minacciate dall’imperialismo per le quali la questione sociale non può che passare per la conquista del riconoscimento e dell’autonomia in uno spazio globale ridefinito. “Popolo” è, dunque, solo e soltanto risultato e mai punto di partenza: solo e soltanto il processo di costruzione per via egemonica di ciò che è popolare all’interno della nazione e tra le nazioni stesse. A partire dalla riconquista dell’autonomia delle classi subalterne e della loro spinta di emancipazione, con i conflitti che la accompagnano, e dalla loro capacità di costruire attorno a sé alleanze con i ceti medi, se e nel momento in cui riescono a staccarli dall’egemonia borghese e dalle classi dominanti stabilite come da quelle outsiderper associarli alla loro lotta per la liberazione della società da ogni elemento di esclusione e da ogni dominio diverso da quello dell’interesse generale. Facendo passare per quanto possibile il «piccolo produttore» da «elemento reazionario» che «lotta per conservare la sua posizione di piccolo imprenditore e si sforza di frenare lo sviluppo economico» a «elemento progressivo» il quale «incomincia… “a differenziarsi dalla società”» (Lenin).

Ma “popolo” è anche il progetto che si propone di saldare questa alleanza, variegata come è giusto e necessario ma con un’egemonia ben precisa al proprio interno, ad alleanze analoghe in tutti quei paesi all’interno e soprattutto all’esterno dell’Occidente liberale che sono subalterni nelle catene internazionali del valore. Al fine di cooperare non per affermare una nuova gerarchia di posizioni e di potenze nel meccanismo dello sfruttamento neocoloniale, subentrando alle potenze stabilite o affiancandosi ad ess e nella spartizione del mondo, ma per mettere in discussione questo meccanismo e sventare l’infausto revival odierno del colonialismo, che del sovranismo costituisce il vero innesco. “Popolo” è, dunque, niente di diverso dal progetto tutto politico di una democrazia popolare come salvaguardia e rinnovamento consapevole della democrazia moderna dopo la sua crisi, come anche Laclau e Mouffe avevano indicato con la proposta di una «democrazia radicale», pur non riuscendo a delinearne i contorni per via della loro condivisione dei presupposti postmoderni del paradigma populista.


Questo testo riprende alcuni temi che vengono più ampiamente dibattuti nel mio ultimo libro: Il virus dell’Occidente. Universalismo astratto e sovranismo particolaristico di fronte allo stato d’eccezione, Mimesis, Milano 2020.

https://www.jungewelt.de/artikel/392331.politische-theorie-vereine-und-herrsche.html

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Gino
Monday, 11 January 2021 11:01
"Invece di guardare negli occhi il problema filosofico fondamentale che questa emergenza ci ha costretti a riscoprire, e cioè il problema dell’Altro e dell’incapacità della nostra civiltà di confrontarsi con esso già a partire dal suo riconoscimento (un’incapacità che ha condotto l’Occidente stesso sin oltre le soglie del rischio autoprocurato)"!!!

Quindi, alla fine, il nodo sarebbe la retorica cattolica e fenomenologica dell'Altro con la A maiuscola??? Dove sta l'analisi materialista della economia??? Occidente senza distitnzioni??? Un pezzo ideologico, che non vale né per la filosofia né per la politica, e che invece pretende di soddisfare entrambe. Almeno con Losurdo si apprendeva qualcosa di filosofico e storico.
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Eros Barone
Tuesday, 29 December 2020 20:33
La ‘favola bella’ che ieri ti illuse, che oggi ti illude, comincia così: “I rapporti di forza politico-sociali sono il segreto della democrazia moderna nella sua lunga storia.” Non è una grande scoperta, però questa tautologia permette all’autore di dipingere un quadro tra epico e idilliaco dei “Trenta gloriosi”, evocando una “fioritura di imponenti processi di democratizzazione”. L’avanzata del Quarto Stato sembra irreversibile e assume cadenze trionfali: “Finché le classi subalterne sono riuscite a difendersi e poi a farsi rispettare, conquistando il riconoscimento attraverso la loro capacità di agire il conflitto in maniera consapevole e organizzata, si è innescato un grandioso meccanismo di redistribuzione dello status, della ricchezza materiale e immateriale, del potere e della cultura che non ha certamente realizzato l’eguaglianza ma che sulla strada dell’eguaglianza si è quantomeno incamminato. E che ha dato vita alla democrazia moderna, arrivando per certi tratti e in certi momenti particolarmente felici anche a mettere in discussione i rapporti di proprietà e il controllo della produzione stessa”. Ma il male è sempre in agguato e la ‘favola bella’, non si sa per quale perfida malia o misterioso incantesimo, si capovolge di botto, senza che le cagioni e le mediazioni siano individuate, nella triste cronaca quarantennale di una sconfitta storica: “Da quando invece quelle stesse classi non sono state più in grado di tutelarsi e di reagire, e nemmeno di passare all’offensiva e di proporre e sviluppare una propria idea e un proprio progetto di società ecc. ecc.”. Resta senza risposta il quesito cruciale: perché la (social-)democrazia è stata sconfitta? E perché i rapporti di forza si sono rovesciati? Vano è cercare una risposta chiara e distinta nel brulichio di ‘ismi’, di lessemi e di categoremi - compromesso fordista-keynesiano, religione capitalistica (?), dignità di produttori (!?), forme di coscienza egoistiche e competitive oppure naturalistiche e fondamentalistiche e quindi particolaristiche e divisive (??), egemonia in chiave universalistica, fondamentalismo liberaldemocratico (compresa la sua variante agambeniana) e fondamentalismo populista, la cui iniziale ‘rivolta’ contro il liberalismo progressista e globalizzatore delle élite o delle ‘caste’ stabilite viene oggi riassorbita dal liberalismo conservatore… (e direi che può bastare). Tale è infatti il brulichio lessicale e concettuale che deve penetrare e attraversare chiunque si cimenti con la lettura di questa tragicommedia (e il bello è che verrà spacciata, come ci informa orgogliosamente l’autore, in occasione della “Rosa-Luxemburg-Konferenz”!). Per quanto mi riguarda, proverò ad abbozzare una sintetica risposta al quesito cruciale che ripropongo: perché la (social-)democrazia è stata sconfitta? e perché i rapporti di forza si sono rovesciati? In primo luogo, occorre tenere presente che, dopo il grande ciclo di lotte operaie, popolari e studentesche degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, durissima fu la reazione delle classi dominanti: la trama reazionaria (il ‘filo nero’ che percorre tutta la storia dello Stato italiano) si concretò in stragi (a partire da quella di piazza Fontana, che ebbe luogo a Milano il 12 dicembre 1969), attentati, tentativi golpisti, repressione e intimidazioni senza fine. La sanguinosa ‘strategia della tensione e del terrore’ fu l’arma con cui le classi dominanti cercarono di intimorire e disorientare il proletariato e le masse studentesche per fermarne il movimento di lotta. Il gruppo dirigente del Pci, intimorito dalla reazione borghese e dal colpo di Stato militare in Cile, che aveva dimostrato il fallimento delle teorizzazioni riformiste sulla ‘via pacifica al socialismo’, elaborò, a questo punto, per impulso e sotto la direzione di Enrico Berlinguer, la strategia del ‘compromesso storico’, cioè del patto di governo con la Dc. Da Berlinguer partì la proposta, rivolta alla Dc, della politica di ‘solidarietà nazionale’, che, nel nefasto triennio 1976-1979, si tradusse dapprima nella ‘non sfiducia’ al governo Andreotti e poi nell’ingresso diretto del Pci nella maggioranza governativa. La politica berlingueriana di ‘unità nazionale’ modificò profondamente i rapporti di forza tra le classi in Italia, indebolendo il proletariato e i movimenti antagonistici, rafforzando lo Stato borghese e la Dc, e creando le premesse per la controffensiva reazionaria scatenata, negli anni ’80, dal capitalismo contro il movimento operaio. La progressiva trasformazione del Pci in senso revisionista e socialdemocratico (sfociata, da ultimo, nella liquidazione, ad opera di Occhetto e di Napolitano, di quello che era “il più grande partito comunista dell’Occidente capitalistico”) è stata, quindi, un importante fattore soggettivo della involuzione e della sconfitta del movimento di massa, che in tal modo restò privo di un punto di riferimento politico, culturale e strategico essenziale nella lotta rivoluzionaria diretta a trasformare in senso democratico e socialista gli assetti sociali esistenti. D’altra parte, i diversi tentativi che furono compiuti dalle organizzazioni della sinistra extraparlamentare (Lotta continua, Avanguardia Operaia, gruppi marxisti-leninisti ecc.) per costituire un punto di riferimento alternativo al Pci attraverso la fuoriuscita dall’università e la ricerca di un rapporto con i nuclei più combattivi del proletariato di fabbrica, stretti come furono fra l’emergere della strategia della lotta armata e l’incombere della ‘strategia della tensione e del terrore’, non si rivelarono all’altezza del compito, che si pose con forza ed urgenza negli anni ’70, di realizzare quella ‘massa critica’ che avrebbe potuto dare ad un partito comunista di tipo nuovo una vasta base sociale e un peso significativo nello scontro di classe. In realtà, quei tentativi si risolsero in un ‘mixtum compositum’ di soggettivismo, volontarismo ed economicismo, e si rivelarono (non come il superamento ma) come l’espressione politica e ideologica dei limiti e delle contraddizioni interne di un movimento di massa in cui era molto marcato il peso della piccola borghesia intellettuale. Di tutto ciò nella favola che racconta l’articolessa in questione non vi è la minima traccia né può esservi, mancando le categorie cognitive, euristiche e teleologiche della teoria marxista-leninista: partito operaio borghese, imperialismo, aristocrazia operaia, opportunismo, revisionismo, riformismo, fascistizzazione. Ma non tutti si chiamano Hans-Heinz Holz o Domenico Losurdo.
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