Print Friendly, PDF & Email

archeologiafil

Glosse in margine all’epidemia come politica

di Flavio Luzi

flavio.001Penosamente amare quel che non si ama,
da quando il fumo uccide,
ecco, ubbidire.
Patrizia Cavalli

1. Nemo propheta acceptus est in patria sua

“A me sembra che il vero compito politico, in una società come la nostra, sia quello di criticare il funzionamento delle istituzioni, soprattutto di quelle che appaiono come neutrali e indipendenti, e di attaccarle in maniera tale che la violenza politica che si esercita oscuramente in esse sia finalmente smascherata, così da poter essere combattuta”. Con queste parole, in un dibattito televisivo tenutosi a Eindhoven nel 1971, un ridente Michel Foucault ribatteva alle posizioni espresse in quell’occasione dal suo avversario, Noam Chomsky. Il filosofo francese si riferiva a tutte quelle istituzioni – come l’Università, l’Istruzione, la Psichiatria e la Giustizia – che diversamente dall’Esercito, dalla Polizia e dal Carcere, si presentano in maniera apparentemente neutrale, affrancata dall’evidente circolazione (sottomissione ed esercizio) del potere politico. Dietro le funzioni di distribuzione del sapere, della promozione della libera ricerca, della cura dei disturbi mentali, dell’amministrazione del diritto, queste istituzioni – o, se si preferisce, questi dispositivi epistemico-sociali – occultano la violenza politica che continuamente esercitano sui corpi degli individui, disciplinandoli e soggettivizzandoli come studenti, come anormali, come colpevoli. In tal senso, dal punto di vista foucaultiano, non vi è ragione alcuna di ritenere che l’istituzione sanitaria e, più in generale, il sapere medico siano esenti da questo tipo di mistificazione, dimostrandosi sinceramente neutrali, estranei a qualsivoglia ideologia, potere o violenza politica.

Anzi: tanto più ci appaiono neutrali e indipendenti, tanto più efficacemente vi agisce la violenza politica. Il compito della critica, pertanto, deve rivolgersi non a denunciare la violenza che contingentemente si manifesta in ambito medico o sanitario in alcuni fenomeni corruttivi (l’agevolazione di amici e familiari) o negli abusi dei camici bianchi (il fenomeno degli operatori sanitari killer o delle violenze sessuali su pazienti in stato vegetativo), quanto piuttosto a rivelare quella violenza insita nel normale, quotidiano e apparentemente innocuo funzionamento dell’amministrazione medico-sanitaria considerata nella sua intrinseca familiarità con le tecnologie politiche. È qualcosa di cui Foucault stesso era consapevole e che ha esplicitamente tematizzato nelle pagine dedicate alla gestione delle epidemie (lebbra-peste-vaiolo) durante le prime lezioni del corso Sécurité, Territoire, Population: a differenti tecniche corrispondono differenti tecnologie (giuridico-legale, disciplinare, securitaria) e differenti razionalità di governo, dunque differenti modi di affrontare un fenomeno epidemiologico (esclusione, quarantena, inoculazione). Perché se – come ha detto qualcuno – la diffusione del virus è un fatto naturale, diversamente, contagio ed epidemia sono categorie culturali la cui gestione e amministrazione è sempre il risultato di una determinata, quanto transitoria, razionalità politica.

È questo stesso compito che, oggi, sembra essere stato dimenticato dal coro scandalizzato sollevatosi per le dichiarazioni di Giorgio Agamben in merito all’emergenza Covid-19, pubblicate sul sito dell’editore Quodlibet e, in parte, raccolte nel volume intitolato A che punto siamo? L’epidemia come politica, seguito pochi mesi dopo da Quando la casa brucia, edito da Giometti & Antonello, contenente, tra gli altri, l’intervento omonimo del 5 ottobre 2020. Cosa significa, tuttavia, assumere un compito critico in un’epoca che sembra aver intenzionalmente abolito ogni distinzione tra critica e complotto, tra dubbio e sospetto, in un paese che ha permesso che il posto vacante del critico venisse custodito ormai vuoto dal conformista o indebitamente occupato dal complottista di professione? La funzione paradossalmente contro-rivoluzionaria della dietrologia è forse una delle più pesanti eredità di quel laboratorio politico che, a partire dalla strage di Piazza Fontana fino almeno alle stragi di Capaci e via D’Amelio, si è rivelata essere l’Italia. Allora, con ogni probabilità, “criticare” significa ormai assumere la posizione del profeta, di colui che rivolgendosi in un attimo di pericolo alle tenebre del suo tempo accetta che il suo discorso venga pesantemente investito dalla medesima oscurità. In tal senso, la sua parola – a un tempo filosofica, poetica e politica – non può che risultare incomprensibile, indirizzandosi «a qualcuno, a un popolo, che per definizione non potrà ascoltarla»[1]. Se gli scritti agambeniani si impegnano a rischiarare la situazione socio-politica in cui eravamo sprofondati ben prima dell’ultimo anno (seguendo l’insegnamento di Walter Benjamin, per cui l’eccezione è la regola della storia, denuncia: «la peste c’era già», Riflessioni sulla peste; «Da quanto tempo la casa brucia? Da quanto tempo è bruciata? Sicuramente un secolo fa, fra il 1914 e il 1918 […]; poi nuovamente trent’anni dopo […]. Ma forse l’incendio è cominciato già molto prima», Quando la casa brucia), lo fanno unicamente al prezzo di vedersi banalizzare, semplificare e ridurre dall’opinione pubblica ora a un imbarazzante manifesto oscurantista ora alla versione erudita della folkloristica chiamata alle armi di qualche grottesco generale. Tuttavia, a meno di non voler concordare con i lettori neoliberali (progressisti o conservatori che siano) e con i sostenitori delle destre radicali, la cui dialettica parlamentare negli ultimi anni ha paralizzato il dibattito politico occidentale, occorrerà cercare di fare un po’ di chiarezza restituendo il discorso di Agamben alla sua complessa radicalità, tenendo ferma la consapevolezza che la denuncia delle misure autoritarie e repressive dello Stato democratico è, per certe compagini politiche, un mero argomento strumentale all’instaurazione di un dominio statale altrettanto brutale e spaventoso, seppur di mero segno opposto e apertamente fascista.

Occorrerà, pertanto, cimentarsi in una triplice operazione: a) un esercizio a cui non si è più abituati, reso ormai desueto dal giornalismo, dall’informazione e dal dominio della comunicazione, quello di soffermarsi tanto sul contenuto quanto sulla forma, o meglio, sullo stile degli interventi; b) cogliere il loro legame con altri testi dell’autore, ovvero, la profonda coerenza della sua riflessione; c) soffermarsi sui riferimenti, espliciti o impliciti, ad altri pensatori e non prenderli come un mero esercizio di accademismo a cui, peraltro, l’autore non è avvezzo né particolarmente affezionato. Per tutte queste ragioni, il presente scritto è stato pensato nella forma della glossa marginale – ovvero di quelle brevi annotazioni che hanno come sola pretesa di accompagnare il testo commentandolo – e, privo di qualsivoglia autosufficienza o sostanzialità, non ha altra aspirazione che di essere un commento e di situarsi al margine. Se la profezia coincide immediatamente con il Regno che annuncia, diversamente, proprio per la sua costitutiva incompiutezza e inettitudine, la glossa si presenta al lettore come un’entità intermedia, in tutto simile a quegli aiutanti maldestri che, all’interno dei romanzi di Kafka, non è ben chiaro quale aiuto siano in grado di offrire.

 

2. Ci non-è

Nulla negli interventi agambeniani può lasciar intendere, a chi non sia in mala fede, una posizione di decisa negazione dell’esistenza del virus. Non ci riferiamo, qui, al legittimo rifiuto verso l’infame ricorso alla categoria di “negazionismo” nei confronti di chiunque nutra dei dubbi sulla pandemia o sulla sua gestione (Due vocaboli infami). Sin dal 26 febbraio la riflessione di Agamben non è stata volta a sostenere o a confutare la realtà del virus, questione di per sé irrilevante per il discorso filosofico, quanto piuttosto a lasciar emergere le contraddizioni contenute nella narrazione ufficiale, mettendo tatticamente quest’ultima in tensione con se stessa così da poter sollevare un dubbio sulla gestione e sull’amministrazione politica dell’epidemia. Perché se il virus è così pericoloso come raccontano i media, paradossalmente i dati ufficiali degli esperti non sembravano confermarlo (Cfr.: L’invenzione di un’epidemia; Nuove riflessioni; Alcuni dati)? Non è certo possibile dimenticare che solo il 18 febbraio l’OMS si scagliava contro “gli inutili allarmismi e le misure sproporzionate” e che proprio il 26 febbraio il principale partito progressista italiano organizzava un aperitivo pubblico a Milano “contro la paura del contagio” da Covid-19. È in questo contesto che deve essere collocato l’iniziale uso di espressioni quali «invenzione di un’epidemia», «supposta epidemia», «[s]e è questa la situazione reale», «cosiddetta epidemia» – che tendono progressivamente a ridursi nel corso degli interventi fino a scomparire del tutto – nonché il ricorso polemico ai dati del CNR o alle dichiarazioni del presidente dell’ISTAT contro le prime pagine dei quotidiani e le misure governative. Non si tratta di negare (come qualcuno ha, superficialmente, dedotto) o confermare l’esistenza e la diffusione del microorganismo SARS-Cov-2 – ripetutamente Agamben ammette di non averne le competenze, di non essere «né virologo né medico», limitandosi a «citare testualmente» quelle che, in alcuni momenti determinati, erano le opinioni ufficiali del Consiglio Nazionale delle Ricerche, del dottor Gian Carlo Blangiardo – ma di prendere in considerazione la funzione che può svolgere all’interno delle strategie del potere, dunque, i suoi effetti. «Funzione è qui bordo di conoscibilità dell’essenza»[2]. È in questa direzione che deve essere considerato un passo come il seguente «[…] i poteri che governano il mondo hanno deciso di cogliere il pretesto di una pandemia – a questo punto non importa se vera o simulata – per trasformare da cima a fondo i paradigmi del loro governo degli uomini e delle cose». Che l’epidemia sia vera o simulata non fa alcuna differenza, in ogni caso essa può essere usata dal potere come un pretesto, portando a delle conseguenze sociali e svolgendo una funzione che è innanzitutto una funzione politica. In tal senso, l’epidemia ci non-è. Ma cosa significa? Non significa, certo, preferire la soluzione neo-liberale a quella totalitaria, il controllo alla disciplina, la malattia alla reclusione, quanto assumere un posizionamento offensivo che non ceda alla trappola reazionaria di lasciarsi costringere in una strettoia, nella falsa alternativa tra ciò che già esiste (gli Stati Uniti d’America o la Cina), deprivando l’attualità dalla sua potenza, bandendo ogni possibile dal reale (A che punto siamo?):

Significa, certo, restare a casa, ma anche non lasciarsi prendere dal panico […] Significa, certo, restare a casa, ma anche restare lucidi e chiedersi se l’emergenza militarizzata che è stata proclamata nel Paese non sia, fra le altre cose, un modo per scaricare sui cittadini le gravissime responsabilità in cui i governi sono incorsi smantellando il sistema sanitario. Significa, certo, restare a casa, ma anche far sentire la propria voce […] Significa, infine, chiedersi cosa faremo […].

Significa smarcarsi dall’opposizione tra le due ipotesi contrastanti, circa l’esistenza o l’inesistenza del virus, e conservarle entrambe nella forma di un modello che afferma, al contempo, «l’esistenza efficiente» e «la non esistenza efficiente» dell’epidemia [3]. Diversamente, l’adozione (innanzitutto italiana e, successivamente, europea) di misure para-totalitarie all’interno di sistemi economici neo-liberali (che da tempo hanno assunto un volto sempre più autoritario) potrebbe pericolosamente condurre a un singolare ibrido “capitalismo comunista”, una sorta di debordiana società biopolitica dello spettacolare integrato 2.0 che combina gli aspetti più violenti del nuovo mercato globale con quelli più repressivi dello Stato, «coniugando l’estrema alienazione dei rapporti fra gli uomini con un controllo sociale senza precedenti» (Capitalismo comunista).

 

3. Metafisica del segreto generalizzato

Se nell’opera agambeniana vi è un testo a cui, per questioni stilistiche e argomentative, gli interventi critici pubblicati da Quodlibet guardano più da vicino, questo è senz’altro Mezzi senza fine – libro dedicato alla memoria di Guy Debord. Come non riconoscere la presenza del teorico situazionista in uno scritto come Sul vero e sul falso? Nella denuncia del meccanismo veritativo vigente («L’umanità sta entrando in una fase della sua storia in cui la verità viene ridotta a un momento nel movimento del falso. Vero è quel discorso falso che deve essere tenuto per vero anche quando la sua non verità viene dimostrata») la citazione da La Société su Spectacle è quasi letterale: «Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso»[4]. Il suo significato è stato chiarito alcuni anni dopo nei Commentaires, dove Debord introduce la teoria del segreto generalizzato – ovvero di ciò che «sta dietro lo spettacolo, come complemento decisivo di ciò che mostra e, se scendiamo al fondo delle cose, come la sua operazione più importante»[5] e distingue la menzogna tradizionale dalla neonata disinformazione per la necessità di quest’ultima di contenere al proprio interno una certa dose di verità anche se deliberatamente manipolata e sfigurata, resa irriconoscibile. Da un certo punto di vista, lo Spettacolo integrato, il dominio della pubblicità, non è che una situazione di incontrastata egemonia della disinformazione, un mondo in cui la disinformazione si è definitivamente sostituita all’informazione, dove il rumore dei media ha costretto le persone a una particolare afonia, rendendole ascoltatrici o spettatrici passive di parole contraffatte.

Si deve ricordare che, in Italia, la prima irruenta reazione alla scoperta del virus è stata tra i quotidiani e i sistemi di informazione. I primi casi accertati di positività al virus hanno avuto luogo nella città di Wuhan, in Cina, alla fine del dicembre 2019, per poi manifestarsi progressivamente in numerosi paesi legati da rapporti commerciali, come gli Stati Uniti d’America (13 gennaio 2020), la Francia (24 gennaio 2020) e la Germania (28 gennaio 2020). Contagiati italiani verranno accertati solo il 30 gennaio 2020, lo stesso giorno in cui l’OMS dichiarerà ufficialmente il virus un pericolo per la salute pubblica mondiale. Si tratta di due turisti cinesi in vacanza a Roma. La mattina successiva i quotidiani titolano sensazionalisticamente: “Virus, colpita l’Italia”, “Coronavirus, primi casi. Ricoverati a Roma due cinesi: è allarme”, “L’OMS: ‘È un’emergenza globale’”. Contemporaneamente, il Consiglio dei ministri delibera lo stato di emergenza “in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili” per la durata di sei mesi, attestandosi come il primo paese europeo a ricorrere giuridicamente alle misure emergenziali. Il 1° febbraio i giornali titoleranno “Virus, è stato di emergenza”, “Governo infettato”, “Il coronavirus come il colera”, dando inizio a un intenso mese di oscillazioni continue tra allarmismo, da un lato, e appelli alla misura e al buon senso, dall’altro. Contrariamente agli scenari apocalittici evocati dai media, non vi sarà nessuna conseguenza epidemica derivante dalla condizione clinica dei due cittadini cinesi in visita a Roma risultati positivi al SARS-CoV-2, né dallo studente emiliano tornato dal Wuhan e certificato positivo in data 7 febbraio. Fino al 21 febbraio, quando verrà confermato il focolaio di Castiglione d’Adda-Codogno, nel lodigiano, non saranno confermati altri casi né vi sarà il coinvolgimento di un numero di persone tale da giustificare il ricorso al termine “epidemia”. A più riprese le testate giornalistiche hanno puntato su titoli allarmisti e sensazionalistici (tra il 22 e il 23 febbraio: “Virus, il nord nella paura”, “Italia infetta”, “Fermi tutti”, “Vade retro”, “Nord, paralisi da virus” “Virus, l’Italia si blinda”, “Il Nord chiude”, “Terapia intensiva”, “Prove tecniche di strage”), generando progressivamente un’immediata reazione di paura nella popolazione (in tutto il Paese, e non solo nelle zone colpite) adeguata e proporzionata al clima propagandato, per poi ritrattare tutto nel tentativo di stemperare il clima incandescente (il 27 febbraio: “L’OMS: ‘Bene l’Italia, basta panico’”, “Basta con l’allarmismo”, “Virus, ora si esagera”), affinché il panico non si tramutasse in vera e propria disperazione, impedendo che l’acquisto selvaggio di prodotti primari sfociasse nel saccheggio dei supermercati e delle farmacie, frenando l’esodo massivo dalle regioni maggiormente colpite e legittimando la repressione violenta delle rivolte carcerarie. I media hanno alternatamente soffiato sul fuoco e domato od orientato le fiamme, sollecitando e agevolando la disposizione della popolazione ad accettare una gestione autoritaria e poliziesca della situazione. Solo così è stato possibile rendere sopportabile la desertificazione delle strade – che solo a una visione distorta può apparire come “ordine” – ottenuta attraverso un’imponente militarizzazione, lasciando che l’esibizione delle armi che caratterizza la polizia coincidesse con la quotidianità, che l’esposizione della violenza sovrana coincidesse con la normalità[6]. In un simile schema non vi è, certamente, niente di nuovo:

Una delle leggi – nemmeno tanto segrete – della società democratico-spettacolare in cui viviamo vuole che, nei momenti di grave crisi del potere, la mediocrazia si distacchi in apparenza dal regime di cui è parte integrante per governare e indirizzare la protesta affinché non diventi rivoluzione. Non sempre è necessario, come a Timisoara, simulare un evento; basta giocare di anticipo non solo sui fatti (dichiarando, ad esempio, come molti giornali fanno da mesi che la rivoluzione è già avvenuta, ma anche sui sentimenti dei cittadini, dar loro espressione in prima pagina prima che, facendosi gesto e discorso, circolino e crescano nelle conversazioni e negli scambi di opinione.[7]

L’accusa indiscriminata di complottismo, ormai sollevata verso chiunque cerchi di elaborare una posizione critica, appare quantomeno inquietante se la si affianca ai provvedimenti annunciati dall’AGCOM il 19 marzo 2020 per contrastare la “diffusione di informazioni false o comunque non corrette”. Curiosa la circostanza per cui queste informazioni passibili di sanzione provenivano spesso da fonti riconosciute e considerate come autorevoli fino al giorno precedente alle loro dichiarazioni sul Covid-19. In ogni caso, anziché restituire alle persone la loro capacità di discernere il vero dal falso, la news dalla fake news, le istituzioni hanno proposto ancora una volta di conservare e intensificare autoritariamente l’estraniazione linguistica operata dallo spettacolo e dai social network. Nel mondo realmente rovesciato la disinformazione appare sotto le spoglie dell’informazione e viceversa, in un «divenire-mondo della falsificazione» che coincide con «un divenire-falsificazione del mondo».

 

4. Il consigliere del Principe

Non può che risultare un fenomeno curioso il modo in cui l’insopportazione e la riottosità di una popolazione verso le proprie leggi anti-fumo, l’ordinaria somministrazione di vaccini o l’adozione delle più elementari indicazioni di tutela per l’ambiente si sia accompagnata a una certa mansuetudine e docilità nel rispetto del lockdown e nella ricezione dei decreti anti-covid – almeno per tutta la durata delle prime due fasi della pandemia. Solo la possibilità del definitivo crollo economico ha successivamente innescato qualche timida protesta, lasciando emergere la condizione di vita a cui da tempo eravamo inchiodati: non l’amore, né gli affetti, né i principi hanno un qualche ruolo decisivo nelle nostre vite, ma solo la forbice affilata che alterna il bisogno di denaro al mantenimento di una cattiva salute. Ci si potrebbe chiedere se una simile confusione non sia l’indice, al contempo, del grado di espropriazione del linguaggio umano operato dal capitalismo (lo spettacolo) e del grado di espropriazione della salute operata dai sistemi sanitari sugli esseri umani (la iatrocrazia).

Il critico più impietoso delle istituzioni moderne e, in particolare, di quelle medico-sanitarie può essere senz’altro considerato Ivan Illich. Sarebbe difficile non riconoscere l’importanza del suo celebre Medical Nemesis, dove afferma che

[u]n sistema di tutela della salute a carattere professionale e basato sul medico, una volta cresciuto al di là dei limiti critici, diventa patogeno per tre motivi: produce inevitabilmente un danno clinico che sopravanza i suoi potenziali benefici; non può non favorire, pur se le oscura, le condizioni politiche che rendono malsana la società; tende a mistificare e ad espropriare il potere dell’individuo di guarire se stesso e di modellare il proprio ambiente. I sistemi sanitari contemporanei hanno superato questi limiti di tollerabilità. Il monopolio medico e paramedico sulla metodologia e sulla tecnologia dell’igiene è un esempio lampante del cattivo uso politico delle conquiste scientifiche, deviate a rafforzare la crescita industriale anziché personale.[8]

In sintesi, come ribadisce in un’appendice al testo scritta dodici anni dopo, la sua ipotesi è che il principale fattore patogeno nella nostra società sia proprio da individuare nel perseguimento dell’ideale salutistico. Questa posizione è stata recentemente ripresa – senza grandi scandali o polemiche – dal Comitato Invisibile nella sua più ampia critica alle istituzioni:

Il fine dell’istituzione medica non è curarsi della salute della gente, ma produrre i pazienti che ne giustificano l’esistenza e la definizione di salute corrispondente. Niente di nuovo, da questo punto di vista, dopo Ivan Illich e la sua Nemesi medica. Il fatto che abbiamo finito per vivere in un mondo che, da parte a parte, è tossico e fa ammalare tutti, non è la sconfitta dell’istituzione medica. Al contrario, è il suo trionfo. La sconfitta apparente delle istituzioni è, spesso, la loro funzione reale.

Illich è esplicitamente richiamato da Agamben nell’intervento del 13 aprile, intitolato Una domanda – dove sostiene la responsabilità della medicina post-cartesiana nella scissione avvenuta nella nostra esperienza singolare in un ambito corporeo o biologico, da un lato, e in uno spirituale o culturale, dall’altro – e in alcune interviste (La nuda vita; Polemos epidemios), ma un lettore attento può avvertire, senza troppe difficoltà, la sua presenza silenziosa disseminata qua e là, sotterraneamente, come un tono o un’intensità, in molti degli interventi. Qualcosa di simile può forse essere affermato anche per Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita. In pochi hanno notato e approfondito la eco del pensiero di Illich all’interno di quel testo e, in particolare, nella terza parte del libro, dedicata al campo quale paradigma biopolitico del moderno. Stranamente nel 1995 nessuno vi trovò nulla da eccepire, le critiche si concentrarono su altri aspetti dell’argomentazione agambeniana, tra i quali la stessa adozione paradigmatica del campo – ribadite successivamente con l’uscita di Quel che resta di Auschwitz. Eppure, sono numerosi i passaggi che in Homo sacer I gettano un’ombra sinistra sull’istituzione medica. Forse molti si fermarono alla constatazione storicistica della connivenza e della complicità di singole individualità appartenenti alla categoria medica con un potere totalitario, aggirando deliberatamente la domanda circa il contributo e la responsabilità della medicina e della ricerca scientifica verso le atrocità (esperimenti ignobili inclusi) perpetrate dal nazionalsocialismo. Si trattava, piuttosto, di rendersi conto che quasi contemporaneamente esperimenti altrettanto crudeli venivano svolti da medici e ricercatori statunitensi sui condannati a morte e sui detenuti delle proprie carceri:

Se era, infatti, teoricamente comprensibile che simili esperimenti non avessero sollevato problemi etici nei ricercatori e nei funzionari all’interno di un regime totalitario che si muoveva in un orizzonte dichiaratamente biopolitico, com’era possibile che esperimenti in certa misura analoghi avessero potuto essere condotti in un paese democratico?[9]

Alla luce della segreta continuità tra totalitarismo e democrazia, la posta in gioco del capitolo sulle Versuchepersonen, sulle cavie umane, era di comprendere come, all’interno dell’orizzonte biopolitico che contraddistingue la modernità, il medico e lo scienziato si muovano in quella terra di nessuno tra morte e vita, tra eccezione e norma, che, un tempo, era esclusivo appannaggio della decisione sovrana.

Collocati all’interno di questa traiettoria di studi, arricchita dalle prospettive di David Cayley e Patrick Zylberman, gli interventi sull’epidemia politica non fanno che riconfigurare il ruolo della medicina e della scienza alla luce della situazione economico-politica delineatasi negli ultimi decenni. È quindi all’interno del punto di incrocio tra lo stato di eccezione, l’affermazione del capitalismo come religione e lo sviluppo dei dispositivi di controllo securitario, che occorre comprendere il ruolo odierno delle scienze e la loro esatta collocazione. L’ipotesi di Agamben è che, in quanto mera pragmatica sprovvista di un proprio rigore concettuale, la medicina abbia sostituito o integrato il capitalismo in qualità di religione cultuale priva di una dogmatica speciale. In essa, riconosce quelle caratteristiche fondamentali individuate da Walter Benjamin relativamente al capitalismo (La medicina come religione). Questo punto di convergenza è stato denominato da Agamben “biosicurezza” (Biosicurezza e politica): il medico, continuamente sospeso tra vaticinio sacerdotale e decisione clinica, tra istanza escatologica e manicheismo terapeutico, assurge ora, dopo un’estenuante disputa virologico-religiosa, al ruolo di consigliere personale del Principe. Non sempre, tuttavia, la diffidenza nei confronti dei consiglieri è mal riposta, la possibilità del consiglio fraudolento e del governo ombra è sempre in agguato. Per ricordare un’ultima volta le parole di Illich: «L’accettazione acritica da parte della gente dell’onniscienza e dell’onnipotenza dei professionisti può sfociare in dottrine politiche autoritarie (con possibili nuove forme di fascismo) o in un’ulteriore esplosione di follie neoprometeiche ma essenzialmente effimere»[10]. Cos’altro dovrebbe indicare, infatti, l’espressione recentemente introdotta di “governance di secondo grado”? Alla medicina non spetta il compito di legiferare o di disporre l’applicazione delle norme, bensì di curare i malati secondo quei principi che da secoli «il giuramento di Ippocrate sancisce irrevocabilmente» (Il diritto e la vita). La storia dell’uomo ha attraversato diverse forme illegittime di potere politico introdotte da parte di figure sociali (sacerdoti, giudici, colonnelli, economisti) che hanno improvvisamente concentrato su di sé la sovranità, riconfigurandola di volta in volta attraverso i saperi caratteristici delle proprie funzioni. Solo alcuni anni fa, ai tempi della crisi economica, la svolta tecnocratica che stava travolgendo le democrazie occidentali è stata variamente denunciata e contestata. Non è chiaro perché una riserva analoga non possa essere legittimamente espressa nei confronti della sua sempre più concreta appendice iatrocratica.

 

5. Gli Arconti di questo secolo

Qual è, alla luce crepuscolare degli interventi di Agamben, lo scenario che la politica mondiale sta disegnando sotto i nostri occhi? Il dominio spettacolare dei mass media, la iatrocrazia dei medici-sacerdoti, il presidio sovranamente poliziesco delle strade, ci consegnano l’immagine di un mondo in cui i mezzi – concepiti come rispettivi monopoli esclusivi: monopolio del linguaggio, monopolio della salute, monopolio della violenza – si affermano ormai essi stessi come i loro propri scopi, ovvero come mezzi che hanno in sé il proprio fine. Lo spettacolo infatti non è che uno stadio del capitalismo in cui la nostra natura linguistica, ormai giunta a un’estrema alienazione, avanza minacciosamente verso di noi, radicalmente rovesciata. Lo stesso vale per la nostra concezione della sanità e della polizia, dove le nostre capacità curative e la nostra violenza specificamente umane, da tempo alienate, incombono ora su di noi come un pericolo. Così, il nostro mutismo incontra ovunque il linguaggio per il linguaggio dei media, la nostra cattiva salute incontra ovunque la salute per la salute dei medici, la nostra inermità incontra ovunque la violenza per la violenza in divisa.

È il mondo della teologia-economica in cui, secondo il modello descritto da Nicolas Malebranche nel suo Traité de la nature e de la grâce, nello stato di eccezione (il miracolo), una legge generale conferisce al potere esecutivo (gli angeli) uno speciale potere di governo anche legislativo (la sovranità divina), e lo frammenta nella gerarchia dei suoi ministeri, nella burocrazia dei suoi funzionari e dei suoi uffici. La provvidenza, il governo del mondo, diviene così una sfera autosufficiente rispetto agli organi mediatamente o immediatamente sovrani, affermandosi essa stessa come luogo relativo della sovranità[11]. Una caratteristica curiosa delle nostre istituzioni è che, oggi più che mai, in esse operano segretamente dei concetti teologici secolarizzati. Uno strano indizio in proposito ci viene offerto più o meno consapevolmente dalla nozione di santo patrono, ossia di protettore, che appartiene ad alcune confessioni cristiane. Com’è noto, i patroni delle forze dell’ordine, degli operatori sanitari (farmacisti, infermieri, medici) e di coloro che lavorano nella comunicazione sono rispettivamente gli Angeli Michele, Raffaele e Gabriele. Non si tratta solo di un caso o di una mera convenzione, è una conseguenza del parallelismo che in ambito teologico, almeno da Atenagora in poi e con sempre maggiore consenso, afferma l’analogia strutturale tra burocrazia celeste e burocrazia terrena – nelle parole di Tommaso d’Aquino: «Il sacro potere chiamato gerarchia si trova sia negli uomini sia negli angeli» (S. Th., q. 108, a. i, arg. 3). Si ponga infatti attenzione ai nomi teoforici dei tre angeli: Michele viene dall’ebraico Mi-ka-El che significa “Chi è come Dio?”, Raffaele da Rafa-El che significa “Dio guarisce” e Gabriele da Gavri-El che significa “Dio potente” o, anche, “consigliere meraviglioso”. Al primo spetta di condurre le armate celesti nella guerra contro gli angeli caduti, al secondo di portare la guarigione e la salute e al terzo di recapitare l’annuncio divino. Ognuno di loro, nella sua funzione celeste, richiamata dal nome teoforico, si contrappone a un ben determinato angelo caduto: Michele a Satana (la coppia angelica originaria), il cui peccato è precisamente di essersi ribellato equiparandosi a Dio; Raffaele ad Asmodeo, a “colui che fa perire”; Gabriele a Mammona, ovvero al denaro e alla ricchezza. Se tuttavia l’osservazione di George B. Caird è corretta, se quindi il demonico non è altro che l’isolamento e l’esaltazione del potere angelico e legalistico in un sistema religioso indipendente (per l’appunto, la caduta angelica), è possibile affermare che Satana, Asmodeo e Mammona non sono delle entità separate ma solo l’altro volto di Michele, Raffaele e Gabriele, ovvero il pericolo in cui la violenza, la medicina e la comunicazione divina sono sempre in procinto di scivolare assolutizzandosi, cancellando la loro relazione con la dimensione sovrana e trascendente, considerandosi autosufficienti. Detto altrimenti, il diavolo è la possibilità più propria dell’essere angelico[12]. Se la gubernatio mundi degli angeli (mal’akim, messaggeri) si afferma come luogo assoluto ed eterno della sovranità, ovvero come fine in sé, – se il messaggero si afferma come il messaggio stesso (o nelle parole del critico Marshall McLuhan «il medium è il messaggio») – essa rivela il suo volto eminentemente infernale. In altre parole, agli angeli appartiene un’ambiguità costitutiva e la familiarità tra angelologia e teoria del potere si rovescia qui nella familiarità tra teoria del potere e demonologia. Questo vuol dire che un potere ministeriale, poliziesco, sanitario o mediatico, che si assolutizza come proprio fine, recidendo ogni legame di “servizio” (ministerium) con gli organi di sovranità diretta o indiretta, non è nient’altro che un potere demonico e, in quanto tale, illegittimo, il cui obiettivo è sottomettere la popolazione attraverso la paura, abolendo in essa la memoria e l’esercizio di una qualsiasi legittima medialità (Che cos’è la paura?; Si è abolito l’amore). Un simile potere cerca pertanto di «afferrare a ogni costo la nuda vita che ha prodotto e, tuttavia, per quanto si sforzi di appropriarsene e controllarla con ogni possibile dispositivo, non più soltanto poliziesco, ma anche medico e tecnologico, essa non potrà che sfuggirgli, perché è per definizione inafferrabile» (Quando la casa brucia). Proprio l’assoluta immanenza, l’essere tutto in tutto, a cui essa è ormai irreparabilmente consegnata, consente alla nuda vita di essere la propria unica forma di sé, l’Ingovernabile che instancabilmente sfugge alla cattura di ogni strategia economico-governamentale del potere.

È all’interno di questa immagine che va colto il risvolto messianico degli interventi di Agamben (Sul tempo che viene). Il messianismo è, infatti, il luogo in cui i monoteismi hanno cercato di venire a capo del problema costituito dalla Legge, dal potere angelico e dal potere terreno. Il Messia introduce la fine, hic et nunc, liberando il mondo dal governo, riducendo «al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza» (1 Cor., 15, 24) – rendendoli inoperosi, destituendoli. Come ha scritto Benjamin nel Theologisch-politisches Fragment, nel messianismo è in questione un compito politico nichilistico che consiste nel restituire alla sua relatività e alla sua finitezza storico-naturale, alla sua pura medialità, ciò che si è preteso (e frainteso) come un autosufficiente ed eterno fine in sé. La condizione “biosecuritaria” determinata da queste figure angelico-demoniache è quella di un mondo giunto alla sua conclusione, dove il tentativo di rinnovare provvidenzialmente, ancora una volta, il profano in un cristallo di infelicità, continuando a occludergli (o a celargli) l’entrata del Giardino in cui da sempre abita, si fa più disperato e aggressivo. Ancora una volta, vuol dire che il problema non è la sovranità, ma il governo, non è Dio, ma l’angelo, non è il re, ma il ministro. Non è possibile accettare alcuna ulteriore soggettivazione, non è possibile accettare di mantenere in movimento la macchina governamentale. L’appello messianico a non aspettare «né un nuovo dio né un nuovo uomo» e a cercare «piuttosto qui e ora, fra le rovine che ci circondano, un’umile, più semplice forma di vita, che non è un miraggio, perché ne abbiamo memoria e esperienza, anche se, in noi e fuori di noi, avverse potenze [le potenze che governano il mondo] la respingono ogni volta nella dimenticanza» (Sul tempo che viene) coincide perfettamente e senza residui con quello politico a elaborare «nuove forme di resistenza, a cui dovranno impegnarsi senza riserve coloro che non rinunciano a pensare una politica a venire, che non avrà né la forma obsoleta delle democrazie borghesi né quella del dispotismo tecnologico-sanitario che le sta sostituendo»[13]. Distante da qualsivoglia rassegnazione conservatrice o speranza riformista, la profezia che annuncia ciò che viene «è la potenza destituente che, in ogni ambito, depone i poteri e le istituzioni, compreso quelli, chiese o partiti, che pretendono di rappresentarla». Resta la felicità, l’inoperosità del governo, l’hackeraggio della cibernetica.

Si deve cercare di non dimenticare le parole del poeta, secondo cui «dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva» – o, se le si preferiscono, quelle della loro riformulazione pulcinellesca: «Ubi fracassorium, ibi fuggitorium».

Dove c’è una catastrofe, là c’è una via di fuga.


Note:
1. G. Agamben, Lezione nelle tenebre, in Id., Quando la casa brucia, Giometti & Antonello, Macerata 2020, p. 38.
2. F. Jesi, I recessi infiniti di Mutterrecht, in J.J. Bachofen, Il matriarcato, Einaudi, Torino 1988, p. XIX.
3. F. Jesi, Conoscibilità della festa, in Id., Il tempo della festa, Nottetempo, Roma 2013, p. 82.
4. G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008, p. 55.
5. G. Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, in Ivi, p. 196.
6. G. Agamben, Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp.. 83-86.
7. Ivi, p. 97.
8.I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Bruno Mondadori, Milano 2004, pp. 14-15.
9. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995, p. 176.
10. I. Illich, Professioni disabilitanti, Id. et al., Esperti di troppo. Il paradosso delle professioni disabilitanti, Erickson, Trento 2008, p. 27.
11. Su tali questioni Cfr.: G. Agamben, Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, Bollati Boringhieri, Torino 2009.
12. Come ha scritto Emanuele Coccia: «La caduta è il fatto angelico per definizione: è consustanziale al tipo di potere che incarnano, la gerarchia, ed è quanto li distingue da Dio. Ed è proprio nella caduta che si esprime con più forza la verità della loro esistenza […]. Se l’uomo, come è stato detto, è l’essere-per-la-morte, l’angelo è, nel cosmo, l’essere-per-la-caduta, il dio che può cadere» (in G. Agamben, E. Coccia (a cura di), Angeli. Ebraismo, Cristianesimo, Islam, Neri Pozza, Vicenza 2009, p. 496).
13. G. Agamben, “Avvertenza”, in Id., A che punto siamo?, Quodlibet, Macerata 2020, p. 15.

Add comment

Submit