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operaviva

Afferrare il secolo alla gola

Il nuovo numero di aut aut

di Emilio Maggio

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Linked to the invisible
Almost imperceptible
Something inexpressible
Science insusceptible
Logic so inflexible
Causally connectible
Yet nothing is invincible
Synchronicity, Police

Per il filosofo americano Eugene Thacker l’uomo contemporaneo è inestricabilmente implicato in un mondo divenuto a lui incomprensibile in quanto ciò che lo qualifica maggiormente è proprio la perdita del senso dell’orientamento. Il suo smarrirsi denota non solo i limiti di una lingua consona a descrivere questo sentimento di disagio ma soprattutto la difficoltà per l’umano a comprendere l’inumano o a pensare l’impensabile1.Viene così a cadere la condizione necessaria che permette all’uomo di esercitare il suo controllo sul mondo: la struttura antropocentrica di un soggetto che non è più in grado di espletare la sua presunta superiorità – mentre diventa sempre più problematico discernere il vivente dal non vivente, l’umano dall’inumano, la vita dalla morte.

La scienza, dalla teoria della relatività alla fisica quantistica, ha reso evidente come il tempo e lo spazio siano concetti labili e relativi, legati cioè a doppio filo alla coscienza umana. Il concetto della sincronicità, introdotto da Jung, vuole dimostrare come il principio di causa-effetto non sia sufficiente a spiegare il rapporto tra un soggetto agente e un oggetto stabilito e come piuttosto la realtà in cui ci troviamo immersi nonostante tutto sia costituita da relazioni occulte.

Il rapporto fra due enti, fra due fenomeni allora sarà sincronico quando assumerà una valenza simbolica, quando tale rapporto sarà fondato su un principio che connette, collegato all’invisibile.

L’irruzione dell’invisibile nel mondo, cioè del perturbante, anticamente definito come il sacro, ha reso evidente come il tempo per noi, il tempo che esperiamo dalla nascita fino alla morte, non coincide più con il tempo divino. Il virus Covid 19 ha materializzato la frattura tra il tempo degli dei, inteso come il tempo in sé, il tempo cosmico, e il nostro tempo quotidiano; ha bloccato il sincronos che unisce l’umano all’inumano in un incastro universale.

Con Riflessioni sulla pandemia, aut aut, la storica rivista fondata da Enzo Paci nel 1951, presenta un molteplice panorama critico sul fenomeno Covid 19. Il nuovo numero, curato da Massimo Filippi e Alessandro Dal Lago, è un avventuroso – e come ogni avventura esposto a rischi – quanto prezioso viaggio attraverso le ceneri di questo pianeta. I saggi redatti infatti forniscono una chiave interpretativa multidisciplinare della pandemia. Storia, filosofia, antropologia e semiologia compongono un ampio spettro analitico in grado di far luce sul telos che gran parte degli esecutivi globali si sono posti come risposta alla emergenza sanitaria e contemporaneamente riflettere sulle narrazioni mediatiche, informative e politiche correnti. Dai saggi presenti si evince infatti, pur con le differenze date dai diversi approcci disciplinari, non solo il fallimento della politica emergenziale messa in atto per contrastare l’epidemia e il limite del riduzionismo scientifico, ma soprattutto la totale mancanza di una visione capace di restituire l’uomo contemporaneo al mondo che lo circonda e in cui si fa sempre più pressante la pre-visione computazionale della società. Il tema ricorrente della raccolta sembra essere non tanto la fine del mondo come logica apocalittica in questi casi giustificherebbe, semmai il mondo della fine. Il capitalismo, dichiarandosi il migliore dei mondi possibili, ha implicitamente annullato ogni prospettiva di cambiamento in quanto la sola ed unica utopia realizzata sarebbe quella fondata sulla libera circolazione delle merci. In un certo senso il capitalismo, dichiarando la fine della storia, ha annunciato quel mondo della fine che stavamo già sperimentando prima della pandemia – il virus Covid 19 ci mostra solo un mondo che sta finendo senza la possibilità di immaginarne un altro.

Il saggio di Massimo Filippi, Un quasi niente che ci riguarda, materializza proprio questo passaggio epocale caratterizzato da una totale dequalificazione della categoria homo. Il suo ricorrere a una figura ibrida, ancorché legata al lessico cinematografico e letterario, come lo zombie, è indice di un vero e proprio cambiamento antropologico. L’autore, adottando il pensiero di Timothy Morton, suggerisce l’idea che la pandemia è in definitiva un iperoggetto così come lo sono il cambiamento climatico o la zoonosi – cioè concetti e categorie in grado di modificare concretamente il mondo in cui si riproduce il vivente e il non vivente, «un luogo di vita e di morte…un luogo di morti viventi e zombie, di viroidi, DNA di scarto, fantasmi, silicati, cianuro, radiazioni, forze demoniache e inquinamento»2. Homo-zombie pertanto è l’attuale rappresentante « di un ordine simbolico fondato su confini netti e dicotomie gerarchizzanti (come quelli tra vita e morte), sull’idea di purezza e sul conseguente pericolo che qualsiasi forma di contagio porterebbe con sé, soprattutto nel caso di commistioni categoriali tra il biologico e il culturale». Lo spazio-tempo fra la vita e la morte decretato per legge che la pandemia ha materializzato, «quella zona che separa la sentenza di condanna a morte dall’effettiva messa a morte», rappresenta il non-luogo dove l’umano non riesce più a ritrovare il suo mondo, mondo che diventa o ridiventa terra (il mondo in sé), fino a raggiungere nuovamente lo stadio di pianeta (il mondo senza di noi). Il pessimismo cosmico di Thacker rievocato da Filippi chiarisce che l’idea del mondo per noi, l’idea per cui l’uomo si è dichiarato «forza geologica» al punto di definire in suo nome un’intera fase della vita del pianeta (l’Antropocene) serve a giustificare l’impresa tecno-scientifica di prevedere il funzionamento della terra. Ritornando alla quest annunciata fin dal titolo del saggio, Filippi auspica la fine del nostro mondo nel riconoscimento del e con il mondo della fine, decostruendo così anche il falso ottimismo umanista della pubblicistica apocalittica basato sul mito del pianeta (il mondo senza di noi) come Giardino dell’Eden. Per Filippi infatti «l’idea che il mondo possa finire… è la continuazione del capitalismo con altri mezzi».

Anche Claudio Kulesko nel suo Lo Zenith del serpente cosmico. Ira tellurica, flagelli e piaghe del nuovo Leviatano, cita Clausewitz adattandolo alla disamina di Il nuovo Leviatano, testo che riattualizza la dottrina politica di Hobbes, scritto da Geoff Mann e Joel Wainwright3. La massima celeberrima «La politica è la continuazione della guerra con altri mezzi» chiarisce come lo stato di emergenza, alimentato dal pericolo dell’evento bellico, è un dispositivo continuamente in atto per la propaganda politica delle idee dominanti. Il Leviatano, spesso rappresentato graficamente come un mostro biblico, serpente cosmico pronto a debellare ogni evento catastrofico, che sia una guerra o l’ira funesta della Terra, corrisponde dunque alla verità dello Stato. Pertanto i flagelli e le piaghe evocati dal cambiamento climatico, dalla devastazione ambientale e dalla zoonosi sono anch’essi la continuazione della guerra con altri mezzi. Lo Stato assoluto concepito da Hobbes infatti costituisce una profanazione del Dio dei cieli e una sua secolarizzazione nelle spoglie mortali della Nazione.

Il panorama prospettato dal saggio di Mann e Wainwright, come sottolinea Kulesko, è composto da quattro scenari e quattro personaggi concettuali: il Leviatano Climatico Capitalista in cui il collasso ambientale diventa l’occasione per estendere il controllo degli esecutivi occidentali su scala globale; il Mao Capitalista che corrisponderebbe allo stato planetario asiatico, in piena ascesa geo-politica ed economica; il Behemot Climatico, cioè un insieme di forze che resistono alla sovranità del Leviatano e che si materializza nei due personaggi apparentemente antipodici del sovranismo populista e in quello della democrazia diretta; infine la x climatica rappresentata da un futuro perlomeno auspicabile. Da questi scenari emerge un quadro piuttosto inquietante in cui si inseriscono le immagini predicenti, spesso superficialmente tacciate come apocalittiche, di Agamben, in cui per rispondere al nemico invisibile rappresentato dal virus, gli stati proclamano una nuova guerra che spodesta e surclassa la precedente guerra al terrore. Come ben argomenta Kulesko, «Il terrore – nei confronti delle forze naturali e delle loro manifestazioni elementali, delle azioni umane, ammantate dal velo dell’ignoto e animate dal sacro fuoco del fanatismo, della violenza legalizzata, ma pur sempre arbitraria, del Leviatano – sembra essere il concetto chiave dell’ipermodernità, con profonde radici che si estendono fino all’epoca della guerra fredda, del terrore rosso e della mutua distruzione assicurata».

Il clima di eccezionalità che stiamo sperimentando viene sottolineato anche da Alessandro Dal Lago, che nel suo Note sull’età dell’incertezza, parafrasando L’età dell’ansia di W.H.Auden4 e il contesto post-bellico descritto dallo scrittore inglese , immagina l’incerto futuro post-pandemico che ci attende. Auden infatti aveva ben compreso quel sentimento di panico che connota l’umanità travolta da eventi eccezionali come la guerra e che si trova sempre più smarrita di fronte a una realtà che non riesce più a comprendere. Anche per Dal Lago la risposta tecno-scentifica alla pandemia di per sé appare insufficiente a colmare quel vuoto cognitivo e esistenziale prodotto da eventi che sconvolgono l’ordine delle cose di una comunità. È per questo che Agamben, in polemica con il costituzionalista Zagrebelsky, tratta l’attuale stato di emergenza globale come sinonimo dello stato di eccezione: è la macchina algoritmica a creare le condizioni per l’abolizione del prossimo come fondamento dello Stato democratico formalizzato dopo la seconda guerra mondiale. Dal Lago sottolinea infatti come la scienza computazionale – da Turing agli algoritmi – ha sempre cercato di pre-vedere l’imprevedibilità della natura contrapponendole la prevedibilità del programma artificiale di una macchina. La teoria del caos per esempio non permette di fare previsioni, piuttosto «semplici modelli di contingenza, di anticipare cioè stati in cui l’evoluzione di un sistema si biforca». In altre parole la possibilità di una catastrofe, come l’esperimento del gatto di Schrodinger dimostrerebbe, è sempre del cinquanta per cento. Nessuno sa esattamente come si diffonda il virus Covid 19 così come nessun governo è in grado di controllare la vita sociale di un paese, perché è la vita stessa, nelle sue molteplici forme, ad essere imprevedibile.

La domanda cos’è un virus trova solo risposte biologiche, per quanto limitate. Felice Cimatti nel suo Pensare con il virus ha l’audacia di cercare una soluzione filosofica all’ontologia virale. Usando l’elaborazione teorica di Deleuze e Guattari egli definisce il virus come un processo di contagio più che come un agente di contagio. Se infatti l’agentività del virus è data dalla composizione del suo materiale genetico che sfrutta le cellule di un determinato organismo per riprodurre copie di sé stesso, è evidente che la sua ontologia corrisponde al fare più che all’essere e se il virus è il contagio esso non esisterebbe senza il processo della contagiosità. Quindi senza contagio non esisterebbe nessun virus ma non esisteremmo neanche noi, noi siamo il virus. Questa silloge dimostra che «il contagio è più un concetto politico-sanitario che biologico». Se considerassimo la vita come mera sopravvivenza, una vita destinata a esaurirsi come una batteria scarica, la ferrea logica epidemiologica con cui la governamentalità globale sta cercando di contrastare l’attuale crisi sanitaria sarebbe ineccepibile; ma la vita, così come la non-vita e la non-morte (che sembra connotare l’ontologia virale) è sempre un tra, attività di creazioni di concetti per usare le parole di Deleuze-Guattari5, che rimette in gioco le relazioni fra ontologie finora confinate nei loro mondi, combinazioni che non sono né genetiche né strutturali ma processi contro natura (la natura agisce sempre contro sé stessa). Per sottolineare la natura chiasmatica del virus – il tra senza il quale non esisterebbero né uomo né virus-, Cimatti ricorre ancora una volta al pensiero di Deleuze-Guattari in Millepiani6 focalizzandosi sulla sua mobilità, che sembra essere al momento l’unica caratteristica in grado di qualificarlo: processo, passaggio e divenire, spill-over, zoonosi e antroponosi non sono altro che manifestazioni del suo puro e inarrestabile movimento, incontro della vita/morte da un corpo all’altro, da una specie all’altra. Pensare con il virus significa allora pensare alla vita come a un divenire assoluto, un divenire che non ha inizio – «si pensi all’affannosa ricerca del paziente zero, che non esiste e non può esistere, perché non esiste un tempo non infetto» – ma non ha neanche una fine, se non assumendo i tratti dell’endemia. In definitiva anche per Cimatti la pandemia è un fenomeno fuori controllo: «Prevedere significa, in fondo, ordinare al mondo di adeguarsi ai nostri calcoli e alle nostre statistiche, mentre il mondo, come il virus, continua a cambiare». In questo senso l’etica, ci suggerisce Cimatti, ha a che fare con l’etologia, con la scienza che studia i comportamenti degli animali non umani; cioè con quei viventi il cui comportamento non si può spiegare con quello che pensano ma con quello che fanno. Questa reductio vuole solo dimostrare come l’agentività animale non è motivata da nessun principio morale. Se infatti la morale (umana) si occupa di valori, l’etica ci parla del mondo come dovrebbe essere: «è solo il soggetto morale, ossia chi si sente superiore al virus e alla vita, che può desiderare di compiere azioni del tutto sganciate dal piano dell’esistenza». Prendere sul serio la domanda deleuziana cosa può un corpo?7 implica il divenire-virus dell’uomo, quindi il suo stare nel mondo e nella vita, a contatto e in relazione con altri corpi-virus.

Se rimpiangere il passato è problematico, vivere nel presente è un incubo e il futuro diventa inimmaginabile, Ormai solo un virus ci può salvare. Per Antonio Volpe il mantra la normalità è un problema, attraverso cui media, politici e attivisti, hanno sintetizzato l’insostenibilità di uno sviluppo basato sullo sfruttamento delle risorse naturali e degli animali non umani, nasconde e, allo stesso tempo, rivela il carattere apocalittico con cui si continua a leggere l’attuale infezione virale. L’eskhaton, la fine, l’estremo, inteso qui in senso e/scatologico, coincide ormai con lo stato di eccezione politico. L’escremento rappresenta solo la fine di un lungo processo di digestione e assimilazione dei diktat del liberismo capitalista. Secondo Volpe il male (inteso come dolore, corruzione del corpo e delirio psichico) rappresenta la fine nella doppia accezione che ne dava Derrida nella conferenza Fini dell’uomo8, ovvero sia il termine di qualcosa sia il suo scopo. Per cui ogni fine dell’uomo e per estensione dell’umanismo diventa l’occasione per una rinascita che non ne comprometta la sua peculiare centralità e indispensabilità: «L’umanismo è già transumanismo che attende la sua occasione». Il disastro ambientale, economico e sanitario con cui siamo abituati a convivere non è più una catastrofe ma è la fine senza fine; è un tempo bloccato e uno spazio neutro e pacificato dove non c’è più un fuori da immaginare né un futuro da pre-vedere. L’orrore insomma non è più provocato da un fuori minaccioso o da un dentro perturbante che si materializza come malattia, dolore e morte perché non c’è più nulla da sacrificare. Il post-moderno tecnocratico lo ha sublimato nella vivisezione, nell’asetticità laboratoriale su un vivente già morto le cui spoglie inceneriscono in forni crematori posti oltre le camere mortuarie o rimangono a disposizione nelle celle frigorifere oltre gli antri della macellazione. La domanda di Volpe «come giustifichiamo lo sterminio sistematico non solo degli animali non umani in generale… ma il numero incalcolabile perché sconosciuto di esistenti massacrati nella corsa globale al vaccino – in cui a correre è per lo più il valore originario delle multinazionali biotech?», meriterebbe più di una risposta.

Il saggio di Didier Fassin, Vite invisibili ai tempi della pandemia, ha il pregio di entrare nel merito della emergenza sanitaria. Le drastiche misure di restrizione della vita sociale delle comunità umane stanno dimostrando l’assenza di qualsiasi capacità strategica da parte delle istituzioni pubbliche, evidenziando, se ancora ce ne fosse bisogno, come la sanità sia completamente ostaggio della centralità della profilassi, a tutto svantaggio delle voci che costituiscono il vocabolario della medicina territoriale e di prossimità, e cioè cura, prevenzione e contatto diretto con il paziente. Inoltre la gestione liberticida dell’emergenza ha messo in evidenza il suo carattere fortemente classista. Fassin giustamente definisce la risposta globale alla pandemia come l’avvento della bioleggitimà. Chi è che ha il diritto di potersi avvalere delle cure adatte? E cosa significa salvare delle vite? Quali vite e di chi? La totale mancanza di risposte adeguate da parte della politica e della scienza dimostra che ad essere ancora escluse sono determinate fasce sociali e particolari categorie abitualmente discriminate come detenuti, migranti e popolazioni connnotate etnicamente. Insomma in nome della vita o in nome della giusta causa (le cosiddette guerre umanitarie hanno ancora molto da insegnare) si sono compiuti veri e propri genocidi creando una scala di valori arbitraria che stabiliva chi doveva essere sacrificato per il bene comune: «Da un lato ogni vita conta; dall’altro abbiamo solo masse indistinte». Il Covid 19 è stato anche, e continua ad essere, il più grande spettacolo del mondo. Non poteva certo mancare in questa antologia uno sguardo sui palinsesti televisivi del belpaese. Serena Giordano in Covid in tv. Spot e propaganda nel lockdown descrive in modo assai dettagliato la capacità delle tv generaliste italiane di logorare qualsiasi tema, perfino la tragedia che si profila dietro l’evento pandemico. La narrazione tossica propagandata a suon di spot e proclami da giornalisti paternalisti e virologi inflessibili ha dimostrato un grado di conformismo e uniformità assolutamente inedito, superato forse solo dalla retorica bellica delle due guerre mondiali. E bellico è infatti il linguaggio attraverso cui pubblicità e infoitment continuano a veicolare messaggi in cui si propaganda l’unità del paese (i cui effetti hanno prodotto il governo tecnico di unità nazionale di Mario Draghi), amore per la patria e bieco eroismo.

Giorgio Cosmacini dal canto suo in Una nota su paure e epidemie nella storia, redige una ricostruzione storica da cui emergono fattori degni di attenzione. Innanzitutto il fatto che già le prime teorie sulle pandemie ventilavano due schieramenti contrapposti: da una parte gli aeristi che attribuivano l’infezione alla mal’aria respirata, dall’altra i contagisti che invece assegnavano all’umano la responsabilità del contagio. Nell’antichissima storia delle epidemie ad emergere, dall’Iliade al Decamerone, tra peste, sifilide, vaiolo, colera e tubercolosi è, ancora una volta, l’ossessione profilattica della medicina e la paura della morte civile e della morte fisica che hanno sempre costituito un assoluto antagonismo all’uomo, ma che , come l’uomo, «…nascono, crescono, si stabilizzano, declinano, muoiono».

Concludo questa carrellata con la stessa domanda che titola il saggio di Mariella Pandolfi, ovvero: Può finire il mondo? Per l’autrice il per sempre e l’adesso hanno costituito il mondo al di fuori del tempo dei regimi liberisti. L’homo-pandemicus, che sembra l’ultima qualificazione a disposizione dell’umanità, rappresenta un ulteriore slittamento del soggetto liberista, l’imprenditore di se stesso, verso il nemico di se stesso del liberismo del troppo tardi. Per Pandolfi infatti il contagio «non è solo rischio epidemico, ma è rischio della perdita di senso contaminata dal liberismo narcotico che si è imposto negli ultimi decenni». Le epidemie attuali sono il risultato di una violenza strutturale che contrappone vita biologica e vita biografica e la governamentalità pandemica, almeno in Italia, è un misto di distopia tecnocratica e di restaurazione populista. Homo pandemicus: può finire il mondo? ci fa capire che la nozione deleuziana del troppo tardi è un modo per rappresentare l’impresa fallimentare dell’attesa – il controllo della struttura temporale dell’agente patogeno – da parte delle competenze scientifiche e politiche, sorprese puntualmente dall’inevitabile mutabilità del virus. Afferrare il secolo alla gola per Canetti significava trovare il nesso tra il potere e la morte. L’individuo assume il ruolo di subalterno e obbedisce alla legge perché la legge gli assicura la sopravvivenza. «Ma afferrare il secolo alla gola non è un progetto semplice, poiché il conoscere e il comprendere ciò che ci attraversa o che noi viviamo arriva spesso troppo tardi quando non serve più».


Note
1.
Eugene Thacker, Tra le ceneri di questo pianeta. L’orrore della filosofia, la filosofia dell’orrore, trad.it. di C. Kulesko, Nero, 2018.
2.
Timothy Morton, Iperoggetti, trad.it. di V. Santarcangelo, Nero, 2013, p.63.
3.
G. Mann, J. Wainwright, Il nuovo Leviatano. Una filosofia politica del cambiamento climatico, Treccani, 2019.
4.
W.H. Auden, L’età dell’ansia, trad.it. di L. Dessì e A. Rinaldi, Mondadori, 1966.
5.
G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, trad.it. di A. De Lorenzis, Einaudi, 1996.
6.
G.Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, a cura di P. Vignola, Orthotes, 2017.
7.
G.Deleuze. Cosa può un corpo?. Lezioni su Spinoza, trad. it. di A.Pardi, Ombre Corte, 2010.
8.
J. Derrida, Fini dell’uomo, in Margini della filosofia, trad. it. di M. Iofrida, Einaudi, 1997.

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