‘Spazio-tempo' e potere alla luce della teoria dell'egemonia
di Fabio Frosini
Da L. BASSO , S. BRACALETTI , M. FARNESI CAMELLONE , F. FROSINI , A. ILLUMINATI , N. MARCUCCI , V. MORFINO, L. PINZOLO , P.D. THOMAS , M. TOMBA: Tempora multa. Il governo del tempo, Mimesis, 2013
1. Temporalità plurale e/o contingenza?
Esiste nei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci1 una teoria delle temporalità plurali? La risposta è all’apparenza semplicissima: alla luce della nozione di egemonia, ogni identità è il prodotto di un’unificazione politica di elementi eterogenei. Pertanto, se per ‘tempo’ s’intende il ritmo unitario di un’esperienza storica, l’unitarietà di tale ritmo è l’esito contingente di una serie di pratiche egemoniche, e non ha altra esistenza, che quella conferitale dall’intreccio di tali pratiche. L’unità sorge sullo sfondo della pluralità senza annullarla mai del tutto, l’universalità è condizionata dalla parzialità.
Questa tesi, sostenuta con intelligenza da Ernesto Laclau2, finisce per fare dell’egemonia un equivalente dell’esercizio del potere e un sinonimo di ‘oggettività’. La ‘verità’, che all’oggettività dei significati istituiti dal potere sfugge come un suo scarto ineliminabile (secondo una modalità di tipo post-strutturalistico), si dà ai margini del funzionamento ‘a regime’ dell’egemonia. Per pensare il nesso di co-implicazione e, al contempo, di mutua esclusione di oggettività e verità, di egemonia e politica, Laclau fa appello alla dicotomia spazio/tempo, laddove il tempo va pensato non nella forma spazializzata della diacronia, ma come «l’esatto opposto dello spazio»3, e pertanto, se lo spazio è struttura, organizzazione chiusa di significati, il tempo sarà necessariamente una «dislocazione della struttura», cioè un suo «malfunzionamento irrappresentabile in termini spaziali», in una parola: un «evento»4. In questo modo, la pluralità dei tempi può essere ritrovata solo dal lato delle diacronie spazializzate nei vari discorsi (o racconti, o miti5) dell’ordine; mentre l’innovazione, lo scarto, la politica come accadere della verità, in quanto estranea allo spazio, è irrappresentabile e dileguante, del tutto vuota, puntuale e sempre identica: in una parola, la temporalità non è pluralizzabile perché indeterminabile; o si dà, o non si dà, senza altre possibilità.
La matrice tra bergsoniana e heideggeriana di questa concezione del tempo è evidente, ed è evidente anche la tensione, che in questo modo sorge, tra la contingenza dell’unificazione egemonica e il carattere eventuale della sua manifestazione. Ciò presupposto, infatti, l’instabilità del sistema non è dovuto alla contingenza della sua costituzione, ma alla sua crisi, bergsonianamente imprevedibile, di cui la riattivazione della natura contingente di quella unificazione sistematica è un risultato. Nello sviluppo da Laclau impresso alla nozione di egemonia, dunque, il tempo, se rigorosamente pensato, non può essere plurale, e viceversa, dove vi è pluralità dei tempi, si è già nel campo della spazialità6. L’egemonia poggia sulla pluralità, precisamente perché sorge sulla cancellazione della traccia dell’unicità dell’evento veritativo7.
Si giunge così a questo risultato: che, nonostante il carattere contingente dell’unificazione egemonica, una pluralità dei tempi, propriamente, non c’è. A causa della separazione tra verità e oggettività, la pluralità è sempre e solo quella dei discorsi del potere, che rinviano però tutti alla medesima logica di «alienazione radicale» rispetto alla contingenza (unica) della propria origine. Ne segue che la contingenza si oppone alla necessità allo stesso modo che il tempo si oppone allo spazio: come il suo opposto assoluto. In questo modo, la contingenza viene da Laclau radicalizzata fino a farne un equivalente dell’arbitrio della «decisione contingente», che, nel balenare del «malfunzionamento» della struttura, può tutto e, esercitando questa potenza, si annulla in un nuovo discorso dell’ordine8. La decisione è, scrive Laclau, «il momento del soggetto prima della soggettivazione»9: essa non viene dunque imputata a un soggetto, ma semmai è l’atto di ciò che emerge come «risultato del collasso dell’oggettività»10, e che in questo modo anche dilegua. Ciò non rende però meno arbitraria la natura della contingenza, in quanto identica con la decisione.
Ora – e qui è il mio argomento – cosa si guadagna e cosa si perde equiparando la coppia spazio/tempo a quella contingenza/necessità? O detto altrimenti: quali sono le conseguenze della separazione di verità e oggettività? Il collasso delle molte temporalità in un tempo unico e vuoto, ridotto alla semplice potenzialità priva di atto, è senz’altro quella più vistosa: in questo modo, la singolarità della situazione cade del tutto sotto la categoria di oggettività, per cui diventa impossibile pensare il modo concreto, nel quale l’innovazione politica fa irruzione nel sistema dei significati. Che essa obbedisca a una certa ‘logica’ (la logica delle equivalenze vs. quella delle differenze), non implica di per sé l’indiscernibilità di ogni suo aspetto rispetto a qualsiasi altra innovazione. Detto altrimenti: l’unicità del tempo conduce a un’analisi concreta assai povera, nella quale le distinzioni tra casi e situazioni diverse sono ridotte a dettagli superficiali, e la scelta degli elementi che entrano a far parte delle catene equivalenziali è fatta in modo arbitrario11.
Ciò è del resto una conseguenza prevedibile della nozione di temporalità di matrice bergsoniano-heideggeriana, adottata da Laclau. In questa luce, effettivamente, la contingenza è destinata a perdere il suo significato originario di contingere, cum-tangere, cioè l’unità non essenziale di almeno due accadimenti, che implica una pluralità non disgregata, o se si vuole una relazione provvisoria, e insomma non il contrario della necessità, ma una forma differente di essa. In effetti, se s’intende utilizzare questo concetto sul terreno dell’analisi storico-politica, occorre tenere in conto la condensazione, in esso, di due distinte catene di connessioni: da una parte la transitorietà di un dato ordine, dall’altro l’arbitrarietà della sua istituzione; o detto altrimenti, la storicità e la decisione, la politica e il potere, l’evento e la violenza, ecc. Queste due serie non sono identiche, anzi sono irriducibili, e la contingenza è il modo in cui, provvisoriamente e reversibilmente, possono coincidere. Nel modo in cui Laclau lavora sulla logica dell’egemonia, l’aspetto della storicità, in quanto sempre ‘contaminato’ da un’interna pluralità, viene espulso al di fuori della dimensione del politico, e ridotto a una rappresentazione spazializzata della temporalità; e la contingenza è ridotta alla sola dimensione della decisione arbitraria. Mentre al contrario è precisamente il modo specifico, al limite unico, nel quale storicità e decisione ‘con-tangono’, che rende possibile ciò che Gramsci chiama ‘analisi delle situazioni’.
2. Egemonia e spazio
D’altra parte, non coglierebbe pienamente la peculiarità dell’approccio gramsciano alla questione, neanche chi volesse insistere sull’aspetto opposto, quello della politica e della storicità, isolando due spazi socialmente delimitati e assegnando a uno di essi – quello proletario – la prerogativa dell’egemonia, e assegnando all’altro il campo di esercizio della ‘rivoluzione passiva’. La pluralità dei tempi non sarebbe più, in questo caso, una forma di alienazione radicale della contingenza: anzi, essa sarebbe precisamente il modo in cui la contingenza viene riaffermata, contro la narrazione dominante del tempo unico e progressivo. Questa lettura, proposta di recente in modo brillante da Peter Thomas12, intende la riaffermazione della pluralità dei tempi come un fatto strategico, dato che l’egemonia si collocherebbe fuori di essa e quindi, in un certo senso, fuori dell’oggettività. La riaffermazione dei ‘molti tempi’ smaschera insomma la falsa (ideologica) unitarietà a-conflittuale del mondo capitalistico, ma è a sua volta un passaggio per la sincronizzazione vera, non più ideologica, dei tempi grazie all’annullamento delle disparità e dei conflitti13.
Ciò che questa lettura implica (e non è un fatto secondario, anzi coinvolge un aspetto importantissimo del pensiero di Gramsci e del confronto di esso con il nostro presente), è la necessità di ricercare, nonostante tutta la critica all’essenzialismo, un punto di rottura, o altrimenti detto un ‘tempoguida’, che impedisca all’antagonismo, come accade programmaticamente in Laclau, di spostare in avanti o all’indietro sempre la stessa immutabile dicotomia, senza metterla realmente in discussione. In definitiva, è lo stesso problema che si poneva Gramsci di fronte all’eternità dei ‘distinti’ postulata da Benedetto Croce come garanzia trascendentale dell’eternità del mondo borghese14. Ad essa, però, Gramsci non reagisce postulando un soggetto capace di spezzare quella gabbia; o un evento, per quanto congiunturale, che interrompa subitaneamente la logica che lo ha prodotto; egli reagisce, invece, mostrando come e in che misura proprio tale gabbia fosse capace – e non per sola violenza – di istituire una verità, cioè un’ege- monia; detto altrimenti: come e in che misura tale gabbia fosse, in realtà, un mutevole e flessibile dispositivo politico15.
Questo è il punto di partenza di Gramsci nella riflessione sullo ‘storicismo’: la rinuncia preliminare a distinguere in linea di principio tra oggettività e verità, ovvero tra il potere e la sua critica. La logica dell’alienazione gli è estranea, e precisamente grazie a ciò egli, sviluppando la teoria della traducibilità dei linguaggi, riesce a pensare il modo in cui oggettività e verità – ovvero la decisione e la storicità; o ancora meglio, nei suoi stessi termini, la forza e il consenso – si articolano in modo di volta in volta specifico, con la prevalenza di uno o dell’altro elemento (o anche con l’eclissi temporanea di uno dei due), e sono sempre entrambi reali e da assumere nel loro significato più pieno e autentico, non come travestimenti di qualcosa d’altro16.
Alla luce della traducibilità dei linguaggi, la pluralità dei tempi è insomma né apparente, né strategica, ma irriducibile e primaria: essa è insieme espressione di disparità e dominio, e movimento espansivo, universalistico – secondo una prevalenza non determinabile in anticipo e che non può comunque mettere capo a una cessazione della disparità, ma semmai a una sua «interiorizzazione»17 o, con altra terminologia, a una sua ridefinizione su basi solidaristiche e non più competitive18. La pluralità dei tempi è insomma la forma concreta di esistenza dell’egemonia in tutte le sue forme, dalla borghese alla proletaria, con diversa prevalenza delle due polarità (oggettività e verità) al suo interno, in quanto essa si esercita in forme specifiche, cioè relative a spazi non intercambiabili.
Qui, in questa condizione alla quale l’egemonia sempre è sottoposta, entra in gioco la dimensione spaziale. La contingenza diventa così un sinonimo di ‘diversa necessità’, storica, reversibile e ipotetica, ma pur sempre cogente e ‘uniformante’. Legame contingente tra storicità e decisione si dà, solo se si dà una ‘congiuntura’, cioè un’irregolarità e ineguaglianza della superficie del sociale. Un certo grado di spazialità è inestricabilmente connesso alla storicità e viceversa, non c’è mai una decisione ‘pura’, cioè slegata da aspetti di storicità. In questione, per Gramsci, non è la critica delle concezioni del tempo unitario, ma la comprensione di esse nella loro capacità di fondare un nuovo spazio veritativo, dunque la loro efficacia politica.
Da quanto fin qui detto discende una conseguenza importantissima. A differenza di quanto oggi, sulla scorta di un fortunato saggio di Edward Said19, si tende a pensare, Gramsci non è un pensatore dello spazio20. Almeno non più di quanto sia un pensatore del tempo, o dei tempi. La chiave di accesso alla teoria dell’egemonia la si ottiene, solo se si afferra la nozione della pluralità di tempi in spazi diversi ma correlati, dunque reciprocamen- te immanenti (traducibili), nessuno dei quali è universale a esclusione degli altri, ma è universale in quanto riesce a tradurre tutti gli altri. La nozione di spazio assume in questa luce una funzione imprescindibile. Esso non è solamente un’articolazione che esprime, nella reciproca esteriorità dei suoi elementi, l’ordine, dunque il potere in quanto sistema di diseguaglianze (eventualmente, nella forma di rapporti di anacronismo). Lo spazio è tutto ciò, e al contempo l’esteriorità da esso implicata contiene l’ancoramento materiale delle pratiche egemoniche, in tutte le loro varianti, da quelle espansive a quelle meramente corporative. Esteriorità come dominio di un contenuto ed esteriorità come limite a questo dominio si articolano in forme sempre specifiche, che è appunto ciò che costituisce l’oggetto delle ‘analisi delle situazioni’ in termini gramsciani.
Insomma, ragionare di spazio e politica consente di cogliere il modo in cui Gramsci ripensa la questione della temporalità alla luce della nozione di egemonia, riformulando lo spazio e il tempo come continuum spaziotemporale21.
3. Politica e potere
Per affrontare la questione qui sopra formulata, conviene prendere le mosse dal modo in cui il nesso tra spazio e politica è stato abitualmente pensato nella filosofia moderna: come relazione tra spazio e potere. Negli ultimi anni, questo tema è stato oggetto di una certa attenzione da parte di studiosi di storia, di teoria politica, di geografia, di urbanistica e di architettura. Il libro postumo di Paul Q. Hirst Space and power. Politics, war and architecture22, intrecciando in modo originale tutti questi approcci, si presenta come una sintesi della discussione al riguardo. Gli autori che Hirst afferma di tenere presenti da un punto di vista metodologico sono i fondatori della geografia storica francese Paul Vidal de la Blache e Lucien Febvre, per la messa in luce del ruolo condizionante degli spazi, nella loro specifica conformazione, nella storia delle società; e la microfisica del potere di Michel Foucault, per la sua capacità di far emergere la presenza di rapporti di potere in luoghi disparati come le prigioni, le chiese o le fortezze23. Ma mentre i primi due vengono solo fuggevolmente ricordati (tanto che si è portati a pensare che si tratti di un omaggio esteriore)24, è in realtà il pensiero di Foucault che forma la matrice teorica da cui Hirst prende le mosse25.
Di fatto, in questo libro lo spazio appare nella sua relazione con il potere in tre differenti contesti: quello dello Stato nazionale e della città-Stato (Parte I), e quello del singolo edificio (p. es. fortificazioni, Parte III). In tutti e tre i casi, sia pure in modi differenti, lo spazio è ciò che, con la sua incombente presenza, determina il confine tra interno ed esterno; lo spazio è cioè l’insieme delle condizioni e dei condizionamenti che un organismo qualsiasi si trova a dover fronteggiare, per poter esistere e mantenersi in vita. Lo spazio è insomma il luogo in cui il potere si esprime come guerra (che, insieme al confine, è il tema della Parte II del libro di Hirst). In sintesi: sia nel rapporto con lo spazio internazionale, sia nella relazione interna tra città e territorio, o tra castello e città, ciò che risulta dalla considerazione combinata di spazio e potere è sempre la coppia formata da guerra e soggezione. La politica, intesa come l’insieme dei conflitti e degli antagonismi interni a un corpo sociale, seguendo Foucault viene ridotta alla stessa dicotomia categoriale del potere, cioè alla coppia interno/esterno. Per Foucault infatti il potere non ‘promana’ da un luogo particolare dello spazio sociale (la sovranità), ma attraversa tutto lo spazio in modo omogeneo. Dunque ogni volta che sorge un conflitto nello spazio interno, esso trae origine da una qualche ‘resistenza’ che il potere incontra nel suo esercitarsi; ma, nel momento in cui questa resistenza si organizza, essa diventa immediatamente a sua volta ‘potere’, cioè subordinazione di uno spazio esterno a uno interno.
Potere coincide allora senz’altro con politica, e politica coincide con guerra, nel senso che la politica altro non è che un conflitto volto alla delimitazione di un confine, sia in senso letterale come confine dello Stato, sia in senso metaforico come confine interno, tra dominanti e dominati.
4. La logica dell’egemonia
Ma le cose stanno proprio così? Si può dire, cioè, che ogni volta che si fa politica, si esercita potere, nel senso, qui definito, di un rapporto con un ‘esterno’ da delimitare e dominare? Una risposta alla questione ora formulata non può venire, se si rimane fermi a questo approccio. Per esso infatti lo spazio interno non si differenzia realmente da quello esterno. Anzi lo spazio interno è una riproduzione in forme attenuate di quello esterno (in altri termini, schmittiani: l’amministrazione è una neutralizzazione della politica, e la verità della politica è nel momento in cui essa mostra la sua natura essenziale di scontro a morte, di confronto bellico), per cui non c’è né una vera problematizzazione della nozione di spazio, né di quella di potere.
In realtà, il ricorso alla categoria di ‘spazio’ contiene ben altre implicazioni e nasce per soddisfare ben altre esigenze, come l’approccio di Vidal de la Blache e quello di Febvre (ma andrebbe aggiunto Fernand Braudel) mostrano. Anzitutto, lo spazio è una categoria che, a differenza del tempo, contiene in sé un principio di molteplicità, che vanifica qualsiasi riconduzione della politica a una logica unica e lineare. Anche quando lo spazio venga inteso staticamente, come territorio o addirittura come luogo legato a una stirpe, esso è pur sempre differenziato e concreto. Dunque, nel momento in cui si mette in relazione lo spazio con il potere, si dà forma a un’esigenza di concretezza che il tempo come tale non contiene.
Tale esigenza può essere così espressa: il potere non si struttura nel vuoto, né in una serie omogenea di luoghi equivalenti, ma sorge e si organizza sulla base di condizioni specifiche e al limite uniche. Il confine territoriale è l’espressione fisica di questa organizzazione concreta, per cui si può dire che la sua fissazione è il risultato di una reale interazione tra la dinamica del potere e lo spazio inteso come insieme delle condizioni materiali. Questa è una delle esigenze espresse dalla geografia storica di Paul Vidal de la Blache e di Lucien Febvre: ma essa non dice ancora nulla sulla natura del potere, se non che esso si rapporta a un esterno. In questa prospettiva lo spazio compare nella sua accezione letterale, come insieme di luoghi concreti che vengono contesi dagli organismi politici mediante, in ultima istanza, le guerre.
Ma se ci si limita a trasferire questa prospettiva spaziale dentro gli organismi territoriali, e si pensa la politica come una forma di guerra interna (come fa Foucault), si fa una duplice operazione. In primo luogo, si assume la proiezione internazionale del potere come il suo modello (la guerra esprime la politica nella sua purezza); in secondo luogo, tacitamente si passa da un’accezione letterale a una metaforica di spazio, perdendo proprio quella esigenza di concretezza che l’uso della nozione di spazio come varietà di luoghi esprime. Questa differenza è molto importante. Infatti le relazioni di potere interne allo spazio nazionale possono sì assumere una forma geografica – come nel caso di un’area ricca che domina e sfrutta in forma quasi coloniale un’area povera, o del rapporto tra quartieri ricchi e ghetti –, ma essa non è decisiva. Lo prova il fatto che i ‘confini’ interni non poggiano quasi mai su delle condizioni geografiche, ma su rapporti di potere, consolidati storicamente, tra i diversi gruppi sociali26. Inoltre, questi confini non possono essere rigidamente fissati, dato che – salvo eccezioni (come per es. la apartheid in Sudafrica o la segregazione razziale negli Stati Uniti) – la dinamica della cittadinanza moderna ha livellato e reso omogeneo lo spazio entro i confini dello Stato nazionale, equiparando giuridicamente la popolazione27.
Ciò non vuole dire, però, che non possano sempre di nuovo risorgere differenze di fatto, non sancite giuridicamente. Infatti, dentro i confini nazionali lo spazio non è orizzontale e letterale, ma verticale e metaforico. Il dominio non si istituisce, come nel caso delle relazioni internazionali, sulla base della disponibilità di risorse legate a luoghi precisi, ma della capacità di costruire continuamente, dentro lo spazio omogeneo della cittadinanza, nuove forme di subordinazione. Solo se si riconosce questa differenza, si può pensare in modo specifico la dinamica del potere all’interno dello Stato nazionale. Tale dinamica consiste nel produrre dei rapporti verticali di dominio/soggezione in uno spazio (quello della cittadinanza) di per sé indifferenziato.
Per questa ragione, il potere interno non consiste nella divisione territoriale di uno spazio, come nel caso dei rapporti internazionali, ma nella sua articolazione politica. È la capacità, da parte di una classe sociale, di articolare politicamente lo spazio, costruendo relazioni verticali, ciò che rende possibile l’istituzione di un potere e dunque di aree di ‘subalternità’. Non c’è una suddivisione dello spazio, ma la sua articolazione verticale. Non c’è una spartizione di luoghi, ma la capacità di una classe di appropriarsi tutto lo spazio, includendo però in esso le altre classi in forme subalterne. Non c’è una sanzione giuridica sul possesso di territori, ma la differenziazione politica delle funzioni tra classe dominante/dirigente e classi dominate/dirette: una ‘divisione del lavoro’, questa, che non è stabilita giuridicamente ma si riproduce di fatto per l’efficacia di meccanismi informali di selezione (appartenenza famigliare, tipo di formazione, possibilità di viaggiare, conoscenze ecc.) e che ovviamente prevede la possibilità di eccezioni limitate (cooptazione molecolare nei ruoli dirigenti).
Di qui nasce l’interesse di Gramsci per la teoria delle élites politiche: non certo da un presunto ‘elitismo’ (come ingenuamnete pensa qualcuno), ma dal fatto che queste teorie hanno pienamente assunto l’ottica moderna della costruzione del potere politico come verticalizzazione di fatto di uno spazio in principio omogeneo.
Per tutte queste ragioni non c’è, infine, una semplice estensione della guerra esterna a guerra interna, ma una struttura specifica del potere, che qui abbiamo riassunto in tre elementi: a) l’articolazione verticale di uno spazio che di per sé è omogeneo; b) l’appropriazione di tutto lo spazio da parte di una classe; c) il carattere non giuridico (in senso formale, stretto) ma politico di questa distribuzione delle funzioni. Ciò che rende possibile produrre differenze dentro uno spazio omogeneo, e in questo modo appropriarselo per intero, senza però escludere da esso le altre classi, ma anzi includendole in forma subalterna – è precisamente ciò che Gramsci nei Quaderni del carcere chiama «egemonia»28.
5. Marx: l’universale come ‘traduzione’
Quando nei Quaderni parla di egemonia, Gramsci presuppone sempre due punti di riferimento: la Filosofia del diritto di Hegel e Il manifesto del partito comunista. Nel Manifesto egli trova una teoria della modernità come storia della diffusione del capitalismo e dell’affermazione della borghesia come nuova classe dominante e, insieme, come classe di nuovo tipo. Lo sviluppo del capitalismo viene presentato come un intreccio strutturale di dissoluzione-ricostituzione di tutti i rapporti: la borghesia, scrive Marx, «non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, dunque i rapporti di produzione, dunque tutto l’insieme dei rapporti sociali»29. Di qui discende la peculiarità della borghesia in quanto classe sociale. Dato che nel mondo capitalistico lo stato di permanente rivoluzione prende il posto del fondamento30, che prima era occupato dalla ‘tradizione’, la classe che domina questo processo si definisce come classe in quanto cambia la società, non in quanto la mantiene bloccata a uno stadio qualsiasi. Si tratta dunque di una classe strutturalmente aperta, che si ridefinisce continuamente in base alla storia e non poggia su legami tradizionali, fondati su casta, razza o religione. Il presupposto di essa è pertanto una società in linea di principio omogenea, nella quale le differenze vengono introdotte nella prassi, come differenze di fatto e non di principio, materiali e non formali.
Nella modernità borghese c’è insomma un rapporto strutturale tra la fluidità sociale e l’istituzione politica delle differenze. Non importa qui stabilire come Marx abbia tentato, a partire dalla «Judenfrage», di fissare il nesso tra questi due momenti della dinamica dissolutiva e della re-istituzione delle differenze. Basti dire che la sua lettura della Filosofia del diritto hegeliana, incentrata com’è sullo Stato, e sullo Stato in quanto incorpora la personalità moderna e astratta della sovranità, tende a ridurre la «società civile» alla sua sola facies hobbesiana, e a spingere feuerbachianamente tutto ciò che è «rappresentazione» (in quanto distinto dalla «realtà») verso la categoria di astrazione e di impotenza31.
Ma è anche presente, nel Manifesto e in altri testi di questo periodo (penso anzitutto a «Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie. Einleitung»), il tentativo di intendere l’equivalenza di teoria e pratica, di filosofia speculativa e politica, di Stato astratto e concretezza del conflittuale «sistema dei bisogni», in quanto entrambi mettono in forma, da angolazioni diverse e anzi opposte, delle istanze politiche. A partire da questa ‘traduzione’ reciproca di filosofia e politica, la Germania, come terra dello Stato astratto e speculativo, non appare più come una deviazione rispetto alla storia universale incardinata nel nesso tra Francia e Inghilterra, ma come una delle possibili entrate ‘nazionali’ nella modernità; e l’universale, lungi dall’essere una premessa, appare piuttosto come il risultato contingente della reciproca traduzione di tutte le combinazioni nazionali (cioè inseparabile essenzialmente dalle modalità concrete di quelle traduzioni), siano esse delle traduzioni che si incentrano nella lingua dell’economia, della politica o della filosofia32. Secondo questo approccio, una lingua nazionale, come quella tedesca, in cui è dominante il linguaggio della filosofia, traduce il problema moderno della nuova sintesi di indifferenziazione e subordinazione nella propria prospettiva locale, solo nella misura in cui costruisce a suo modo l’universale, proponendo sé stessa come lingua-archetipo, fonte di una serie di traduzioni possibili in altre lingue; in tal modo imprimendo all’universale un grado di realtà efficace, progettandolo in un ‘modo’ specifico, ma anche, in certa misura, irrigidendolo e bloccandolo a una singola determinazione (ciò che si vede sopratutto nella «ideologia tedesca», che subisce la critica sarcastica di Marx ed Engels nel manoscritto conosciuto sotto questo titolo e nella Sacra famiglia).
6. Hegel: la dinamica del potere moderno
La lettura che Gramsci fa della Filosofia del diritto di Hegel sviluppa esattamente questi spunti in chiave di traducibilità dei linguaggi, e lo fa anzitutto cambiando rispetto a Marx il contenuto della nozione di società «borghese/civile» e recuperando, in questo modo, tutta la potenza inclusiva dell’astrazione. Come Gramsci ben vede, la società civile non viene affatto teorizzata da Hegel come luogo della semplice indifferenza (alla maniera di Hobbes): le «corporazioni», in quanto organismi volontari che prolungano nella sfera della ‘rappresentazione’ la specializzazione e l’articolazione dei mestieri, appartengono alla stessa categoria dei partiti politici, che solo più tardi si affermeranno; e sono pertanto un principio di organizzazione e di educazione portato dalla classe dominante – e non per via amministrativa – ben dentro la sfera della vita privata, della società, controbilanciando già da lì la tendenza all’atomismo connaturata a quello che Hegel chiama ‘il sistema dei bisogni’, cioè la divisione del lavoro sulla base della forma di merce. Scrive Gramsci:
La dottrina di Hegel sui partiti e le associazioni come trama «privata» dello Stato. Essa derivò storicamente dalle esperienze politiche della Rivoluzione francese e doveva servire a dare una maggiore concretezza al costituzionalismo. Governo col consenso dei governati, ma col consenso organizzato, non generico e vago quale si afferma nell’istante delle elezioni: lo Stato ha e domanda il consenso, ma anche «educa» questo consenso con le associazioni politiche e sindacali, che però sono organismi privati, lasciati all’iniziativa privata della classe dirigente. Hegel, in un certo senso, supera già, così, il puro costituzionalismo e teorizza lo Stato parlamentare col suo regime dei partiti. La sua concezione dell’associazione non può essere che ancora vaga e primitiva, tra il politico e l’economico, secondo l’esperienza storica del tempo, che era molto ristretta e dava un solo esempio compiuto di organizzazione, quello «corporativo» (politica innestata nell’economia)33.
La divisione del lavoro, e la conseguente distribuzione degli individui in classi sociali34, non rimangono senza elaborazione politica e pedagogi- ca: le corporazioni funzionano come apparati privati di mobilitazione e di formazione35. «Nella corporazione, il desiderio di sicurezza dell’individuo diventa un diritto [...] L’appartenenza di un individuo alla società civile è così sanzionata dal fatto che la sua attività vi è legalmente riconosciuta: la corporazione è l’apparato di questo riconoscimento, essa funziona dunque come un vero e proprio apparato ideologico»36. Le corporazioni, queste «organizzazioni volontarie, nelle quali le persone si organizzano sulla base delle proprie professioni, commerci, interessi»37, sono dunque, al contempo, luogo di esercizio del potere statale ‘innestato’ nella società civile, ed espressioni delle istanze irriducibilmente diverse e conflittuali della società; sono istanze di ricostituzione della sovranità e della sua messa in discussione. In quanto volontarie, le corporazioni ‘producono’ ordine e quindi passaggio allo Stato, ben più delle istanze negative o paternalistiche del diritto e della Polizei: producono «soddisfazione» e dunque «consenso» perché sorgono dall’iniziativa interna delle stesse energie sociali, nel momento in cui danno loro un ordine38.
In questa mediazione tra pluralità e ordine sta, secondo Gramsci, la chiave di volta del potere statale moderno. La natura anfibia – sociale e statale39 – delle corporazioni è in definitiva la doppia natura dei partiti, e più in generale di tutti gli organismi ‘formalmente’ (giuridicamente) privati, volontari, nei quali la classe dominante organizza e forma, ottiene e mantiene il consenso al proprio progetto egemonico; ma nel fare ciò, non può evitare di pluralizzare quel ‘progetto’, facendolo interagire con le molteplici rivendicazioni che promanano dalla conflittualità – pulviscolare e di gruppo – che percorre la società. La funzione educativa di questi organismi da una parte, dall’altra l’espansività della classe dominante, si condizionano reciprocamente: nel senso che solo quando una classe si dispone ad assimilare la società intera (dato che questa è irriducibile a un sistema di inclusione/esclusione fondato sul sangue), si pone il problema di educarla; e solo quando è in grado di educarla mediante gli organismi privati, questa classe avrà superato il momento corporativo dell’identificazione di Stato e governo, cioè di educazione e costrizione, e avrà compreso la necessità di educare combinando forza e consenso, cioè presupponendo la collaborazione attiva delle classi subordinate (o almeno di quelle socialmente e politicamente decisive), cioè infine, in una parola, esercitando su di esse una egemonia.
Se per il potere politico borghese non ci sono confini interni allo spazio dello Stato (nel senso che la società è di principio indifferenziata e omogenea, e la politica moderna della cittadinanza, nella sua tendenza espansiva, riflette questa indifferenza), esso dovrà appellare la totalità del ‘popolo’ esattamente nel momento in cui ne segmenta l’unità per ricostituire rapporti di dominio40. Ma questa segmentazione dovrà essere tutt’uno con l’espansione della libertà e dell’eguaglianza. Solo prospettando un orizzonte universalistico (e cioè facendo poggiare il potere sulla conquista del consenso e non sulla violenza) la borghesia potrà coinvolgere le altre classi nel proprio progetto egemonico. La forma concreta di questo orizzonte universalistico è l’assorbimento di tutta la società dentro la borghesia (come scrive Gramsci, il proclama che «tutto il genere umano sarà borghese»41) mediante un’espansione della libertà dell’intera società nazionale, e un accrescimento della sua potenza di accumulazione di ricchezza.
7. L’egemonia come teoria del potere moderno
Torniamo ai tre elementi specifici del potere moderno individuati sopra: articolazione verticale di uno spazio omogeneo, appropriazione di tutto lo spazio da parte di una classe, carattere non giuridico ma politico di questa articolazione. Ebbene, il concetto di egemonia permette di pensare il nesso tra questi tre aspetti, perché alla luce di esso il potere borghese si presenta come una struttura essenzialmente dinamica, espansiva, che si legittima grazie al suo stesso movimento, e che quindi annulla costantemente le differenze interne, perché prospetta un ‘progresso’ comune a tutte le classi; ma esso, allo stesso tempo, ricostituisce le differenze di classe, perché in questo movimento di comune progresso la borghesia trova la propria legittimazione come classe dominante. Totalizzazione dello spazio e sua articolazione verticale sono, nel movimento egemonico, la stessa cosa: l’inclusione include l’esclusione. La conquista del consenso, di un’ampia base di consenso, è l’anello che congiunge organicamente questi due aspetti.
Qui trovano un collegamento anche l’accezione metaforica nazionale e quella letterale internazionale dello spazio. Concretamente, la dinamica egemonica prevede infatti un aspetto internazionale, vale a dire la ri- collocazione di uno Stato nazionale entro il quadro internazionale, in una maniera che offra possibilità di sviluppo non comprese nella sistemazione precedente42. Su questo piano, l’accezione letterale e orizzontale dello spazio – come insieme variegato di ‘luoghi’ da spartire tra Stati – entra di nuovo in gioco, ma in una maniera che ne mostra il nesso intrinseco con l’accezione metaforica e verticale. In questa luce, infatti, la politica di potenza internazionale trova la sua spiegazione nel carattere egemonicoprogressivo della politica su base nazionale. In altre parole: la guerra non è il fondamento del potere, ma una forma derivata e comprensibile solo alla luce della dinamica dell’egemonia, la quale poggia sulla conquista del consenso. È infatti perché una classe dominante nazionale tenta di legittimare la propria egemonia all’interno, che essa intraprende all’esterno una serie di azioni (tra le quali anche la guerra) volte a ri-suddividere in maniera diversa lo spazio (p. es, attraverso la rivendicazione di un’ingiustizia perpetrata ai propri danni dall’imperialismo altrui, come nel caso delle guerre di liberazione nazionale).
8. Nazionale/internazionale
La dinamica dell’egemonia, lo si è visto, rimane incomprensibile se viene ridotta a una delle due dimensioni: nazionale o internazionale. Se la si considera solo sul piano nazionale, se ne mette in evidenza la trama politica, e cioè il fatto che riesce a unificare un’espansione dei diritti sociali, della libertà e dell’eguaglianza, con la riaffermazione di una relazione di dominio/subalternità; ma va perduta la combinazione specifica e al limite unica nel quale quella determinata dinamica egemonica viene realizzata: i mezzi, le risorse di cui si serve e di conseguenza la natura stessa della politica espansiva che è resa possibile all’interno del paese.
L’egemonia realizzata conduce alla riaffermazione del potere politico di una determinata borghesia nazionale. Ma ciò è ancora molto poco: non tutte le borghesie sono uguali. Basti pensare all’egemonia realizzata dal governo degli Stati Uniti durante il New Deal e quella portata avanti dal fascismo italiano nello stesso periodo. C’è un’evidente analogia, dato che in entrambi i casi si avviò una politica di inclusione attiva delle masse nello Stato mediante una vasta campagna di opere pubbliche, di stimolo alla domanda e di riforme sociali43. Ciò nonostante, c’è una diversità dei due regimi, di cui occorre rendere conto; non solo: c’è un diverso peso politico relativo dei due paesi e una differente funzione nella divisione internazionale del lavoro, ciò che gli stessi teorici del fascismo – riprendendo un tema del nazionalismo precedente (ma derivato dal ‘socialismo nazionale’ di Giovanni Pascoli44) – esprimevano opponendo le nazioni ‘capitale’ alle nazioni ‘proletariato’45.
Ma è vero anche l’inverso, che cioè tutti gli aspetti internazionali – che sono al limite dei fatti ‘fisici’ sulla cui base si stabiliscono rapporti economici di dominio e di differenza – sono da ridurre al consolidamento di una serie di rapporti nazionali e internazionali che in ultima analisi appartengono alla politica. Prendiamo di nuovo l’esempio del fascismo italiano. Nei Quaderni del carcere, Gramsci commenta una serie di discorsi tenuti in Parlamento dal ministro degli esteri Dino Grandi nel 1932. In essi – ricorda Gramsci – il ministro «impostò la quistione italiana come quistione mondiale, da risolversi necessariamente insieme alle altre che costituiscono l’espressione politica della crisi generale del dopoguerra, intensificatasi nel 1929 in modo quasi catastrofico, e cioè: il problema francese della sicurezza, il problema tedesco della parità di diritti, il problema di un nuovo assetto degli Stati danubiani e balcanici»46. Grandi sottolineò il fatto che nel quadro dalla «crisi generale del dopoguerra, intensificatasi nel 1929 in modo quasi catastrofico», le diverse crisi ‘locali’ sono altrettante espressioni politiche della stessa «quistione mondiale», e che pertanto vanno risolte insieme. Dunque la crisi dell’Italia, come nazione povera di materie prime e con eccesso demografico rispetto alla capacità di soddisfare i bisogni della propria popolazione, è l’aspetto nazionale-locale di una più vasta crisi internazionale-globale.
Gramsci apprezza in Grandi la capacità di impostare il rapporto tra dimensione nazionale e dimensione internazionale come rapporto politico egemonico: «L’impostazione dell’on. Grandi è un abile tentativo di costringere ogni possibile Congresso mondiale chiamato a risolvere questi problemi (e ogni tentativo della normale attività diplomatica) ad occuparsi della ‘questione italiana’ come elemento fondamentale della ricostruzione e pacificazione europea e mondiale»47. Ma mette anche in evidenza un problema di direzione politica dello sviluppo nazionale, che mostra le drammatiche carenze del fascismo in quanto espressione della classe dirigente italiana. Questo vale sul piano della politica estera:
Se è vero che i rapporti generali internazionali, così come si vengono sempre più irrigidendo dopo il 1929, sono molto sfavorevoli all’Italia (specialmente il nazionalismo economico ed il «razzismo» che impediscono la libera circolazione non solo delle merci e dei capitali ma soprattutto del lavoro umano), può anche essere domandato se a suscitare e irrigidire tali nuovi rapporti non abbia contribuito e contribuisca tuttora la stessa politica italiana48.
Vi è cioè un’ambiguità di fondo (il testo risale al 1934-1935, ma la prima versione, in cui il giudizio è già presente, è databile al giugno 193249) tra la proclamata politica di bilanciamento, pace e disarmo, e il tentativo di rimettere in discussione gli equilibri post-bellici conquistando all’Italia un ruolo internazionale di primo piano, agendo come un elemento disgregatore della Società delle Nazioni e preparando le nuove avventure coloniali50. Ma le carenze del fascismo nascono nello spazio della politica interna: infatti la «povertà relativa del paese» non è un fatto meramente naturale, ma risulta dall’esistenza di «condizioni storico-sociali create e mantenute da un determinato indirizzo politico che fanno dell’economia nazionale una botte delle Danaidi»51: la povertà del paese nasce cioè anche (e si direbbe: sopratutto) dall’inefficienza della burocrazia statale e dall’esistenza di un’ampia porzione di reddito di tipo «parassitario», cioè non produttivo.
«Può anche essere osservato – conclude Gramsci – che la proiezione nel campo internazionale della questione può essere un alibi politico di fronte alle masse del paese»52.
Se si prende in modo isolato la sola dimensione internazionale, finisce per essere messa in sordina la divisione interna delle classi e il modo in cui quella divisione si è storicamente consolidata, per cui si dovrebbe accettare p. es. la rivendicazione fascista della nazione proletaria. Se esaminata alla luce del concetto di egemonia, invece, l’espressione ‘nazione proletaria’ significa due cose: a) che nella divisione internazionale del lavoro un determinato paese viene globalmente tenuto ai margini e ridotto al rango di fonte di emigrazione; ma anche b) che una determinata borghesia nazionale preferisce favorire l’emigrazione (cioè l’impoverimento ulteriore della propria popolazione), piuttosto che riformare la struttura demografica interna eliminando il parassitismo.
Il nesso tra i due aspetti è a sua volta leggibile solo alla luce del concetto di egemonia: non vi sono vincoli fissi, naturali: la crisi economica del 1929 è in realtà una più profonda crisi dell’intero dopoguerra, che ha una espressione economica come anche tutta una serie di espressioni politiche locali, che a loro volta sono momenti ‘mondiali’. L’equilibrio internazionale – cioè l’intera serie delle combinazioni nazionale/internazionale – potrà essere ricostruito, solamente se la rivendicazione italiana di uno sbocco alla propria emigrazione verrà considerata altrettanto politica quanto p. es. quella francese della sicurezza; ciò che presuppone un’unificazione sul piano politico (della politica come costruzione del consenso interno) di tutto ciò che altrimenti viene rubricato sotto la categoria ‘economia’ se non addirittura naturalizzato a un momento della conquista di spazi e materie prime.
9. La separazione di economia e politica e lo spazio internazionale
La ‘ricombinazione’ di momento nazionale e internazionale è, nel mondo capitalistico, inevitabilmente conflittuale. Tale conflittualità nasce dal fatto che nello spazio internazionale i rapporti di potere, e quindi di egemonia, non possono essere elaborati nel linguaggio della politica, ma sono a loro volta costretti dentro quello dell’economia come essenza ultima del potere. La geopolitica è una spiegazione del potere sulla base di rapporti economici, e un appiattimento della politica sull’economia. L’approccio foucauldiano, illustrato all’inizio, su spazio e potere, non fa in definitiva che riprodurre questo schema, invertendone i valori di riferimento.
Non è casuale questo ribaltamento della politica in economia non appena si passano i confini nazionali: la borghesia riesce a combinare i due spazi solo a condizione di renderli incomunicabili. Infatti la proiezione internazionale della costruzione egemonica interna dovrà convertirsi in una politica di potenza, cambiando di linguaggio, perché anche l’egemonia interna, che quella politica di potenza intende alimentare, riafferma una suddivisione dello spazio in relazioni di dominio e subordinazione. La separazione di economia e politica coincide così con quella dello spazio internazionale e nazionale, ma precisamente a causa della peculiare dinamica insita nell’egemonia borghese, che si costituisce per negare le proprie premesse.
Ecco perché il tentativo – da parte del ministro Grandi nel 1932 – di introdurre il linguaggio politico dentro lo spazio internazionale, è agli occhi di Gramsci tanto interessante: in quanto nazione internazionalmente discriminata, l’Italia assume ‘naturalmente’ quell’angolo visuale ‘dal basso’, che le permette di formulare le proprie rivendicazioni in termini universalistici, salvo poi però accomodare queste premesse a un più modesto progetto di ricombinazione nazionale/internazionale, che mantenga intatta la composizione demografica irrazionale della nazione.
Gramsci nomina il destino conflittuale della ricombinazione dei due momenti, sul terreno capitalistico, notando che vi è un dislivello tra «la vita economica», che «ha come premessa necessaria l’internazionalismo o meglio il cosmopolitismo», e il fatto che «la vita statale si è sempre più sviluppata nel senso del ‘nazionalismo’, ‘del bastare a se stessi’ ecc.»53. La vita economica, come Gramsci scrive altrove nei Quaderni, non è estranea alla politica: il «mercato» è sempre «determinato», tanto che dire ‘mercato’ equivale a dire «‘determinato rapporto di forze sociali in una determinata struttura dell’apparato di produzione’ garantito da una determinata superstruttura giuridica»54. Ma mentre sul piano nazionale lo scontro delle forze sociali assume sempre (o può sempre assumere) una dimensione politica – che nega la naturalità di qualsiasi ‘logica’55 –, su quello internazionale ciò è infinitamente più difficile. La comunità nazionale poggia infatti sulla premessa della sua omogeneità, della sua indifferenza, cioè sull’esistenza di un ‘popolo’ che in ogni momento può essere rivendicato come parametro da confrontare con una popolazione sempre segmentata in differenze e in strutture di subordinazione e discriminazione. Sul piano internazionale, questo è reso impossibile dall’inesistenza di una tale comunità56.
Qualsiasi tentativo di regolamentare politicamente lo spazio internazionale – cioè in una maniera che non sia la semplice proiezione del ‘nazionalismo’ di un blocco di paesi forti – presuppone una relazione di subordinazione da spezzare, e ciò può darsi o in occasione di una crisi organica, come nel seguito del 1929, o nel caso di un trauma bellico, o come reazione al grado di organizzazione raggiunto dalle classi subalterne a livello nazionale. Pensando precisamente a quest’ultimo aspetto, Gramsci nota che nello scenario del dopoguerra europeo si apre una grande sfida, che non è riducibile alle relazioni da instaurare con l’Unione Sovietica, ma attraversa tutti i paesi, alle prese con lo stesso problema, riassumibile nel termine «sindacalismo». Questo va inteso non «nel suo senso elementare di associazionismo di tutti i gruppi sociali e per qualsiasi fine, ma [in] quello tipico per eccellenza, cioè degli elementi sociali di nuova formazione, che precedentemente non avevano ‘voce in capitolo’ e che per il solo fatto di unirsi modificano la struttura politica della società»57. «La guerra stessa è una manifestazione della crisi, anzi la prima manifestazione; appunto la guerra fu la risposta politica ed organizzativa dei responsabili»58. Essa
rappresenta una frattura storica, nel senso che tutta una serie di quistioni che molecolarmente si accumulavano prima del 1914 hanno appunto fatto «mucchio», modificando la struttura generale del processo precedente: basta pensare all’importanza che ha assunto il fenomeno sindacale, termine generale in cui si assommano diversi problemi e processi di sviluppo di diversa importanza e significato (parlamentarismo, organizzazione industriale, democrazia, liberalismo, ecc.), ma che obiettivamente riflette il fatto che una nuova forza sociale si è costituita, ha un peso non più trascurabile, ecc. ecc.59.
La sola presenza di questa nuova forza sociale, e di uno Stato da essa governato, rendono «l’esercizio dell’egemonia» dappertutto «permanentemente difficile e aleatorio»60. La crisi economica è il segnale del fatto che la regolazione dello spazio internazionale in termini ‘economici’ (e la stessa dicotomia tra economia e politica) non basta più. Si può parlare di una nuova epoca di ‘Restaurazione’, ma l’analogia data dal «tentativo di dare una organizzazione giuridica stabile ai rapporti internazionali (Santa Alleanza e Società delle Nazioni)» è giudicata da Gramsci la «più vistosa e superficiale»61, perché a sua volta richiede di essere spiegata alla luce del fenomeno «sindacale» nel significato sopra definito (organizzazione di masse prima escluse dalla politica), che è ciò che per lui sempre viene al primo posto.
Il potere borghese è così stretto tra l’accresciuta necessità di centralizzare, razionalizzare e incrementare sul piano nazionale le modalità di conquista dell’egemonia (questo è il significato del passaggio dalla guerra di manovra alla guerra di posizione: che «si è entrati in una fase culminante della situazione politico-storica» e che «l’assedio è reciproco, nonostante tutte le apparenze», e «il solo fatto che il dominante debba fare sfoggio di tutte le sue risorse dimostra quale calcolo esso faccia dell’avversario»62) e l’inefficacia di un’egemonia posta solo su basi nazionali.
10. Lenin in Italia
Il fascismo italiano, con la sua rivendicazione di una politica di disarmo bilanciato e di passaggio a un clima di collaborazione e solidarietà economica sul piano internazionale, con la sua proclamata adozione della prospettiva della produzione e delle esigenze dei proletari contro le nazioni imperialistiche e plutocratiche, infine con la sua vocazione ‘universale’ (Mussolini aveva affermato nel 1930 che il fascismo «risponde ad esigenze di carattere universale» in quanto «risolve [...] il triplice problema dei rapporti fra Stato e individuo, fra Stato e gruppi, fra gruppi e gruppi organizzati», e che pertanto si poteva prevedere «una Europa fascista, una Europa che ispiri le sue istituzioni alle dottrine e alla pratica del fascismo [...] cioè che risolva, in senso fascista, il problema dello Stato moderno, dello Stato del XX secolo»63), costituisce agli occhi di Gramsci un laboratorio di eccezionale importanza per la lotta in corso, perché potrebbe avere realmente una capacità espansiva e ‘rappresentativa’ a livello europeo64.
Pur nella forma ambigua e in definitiva strumentale vista sopra, il fascismo mira a ricostituire il nesso nazionale-internazionale rivendicando la natura politica di questo prolungamento, e ciò facendo non frustra la mobilitazione interna del popolo, ma la proietta in quanto tale verso l’esterno. Nel mito della ‘nazione proletaria’ si condensano l’unità mobilitata di tutto il popolo e le rivendicazioni democratiche profonde, di matrice religiosa, delle masse dei diseredati. Così facendo, il fascismo prospetta sul piano ideologico un nuovo tipo di egemonia, poggiante sulla nazione come luogo in cui le aspirazioni dei subalterni possono trovare soddisfazione e combinarsi in modo non distruttivo a livello internazionale con quelle di altre nazioni altrettanto proletarie, cioè votate alla produzione e non alla speculazione. In questo modo la politica borghese si approprierebbe delle energie utopico-religiose e dell’universalismo dei subalterni, condensando in una nuova concezione della ‘nazione’ l’esigenza della mobilitazione (conquista del consenso) sul piano nazionale, e quella dell’integrazione e collaborazione politica (e non meramente economica, di potenza) su quello internazionale.
Intervenire da comunisti su questa struttura, significava allora, per Gramsci, elaborare a partire dall’interno della vita nazionale italiana (cioè di questo universo fascista) un progetto egemonico che fosse capace di proporre una ricombinazione del rapporto nazionale-internazionale più efficace di quello fascista, sganciando al contempo le energie utopico-religiose dei subalterni dalla morsa del nazionalismo e del populismo regressivo. Con la sua rivendicazione della ‘nazione proletaria’, il fascismo aveva individuato, come si è visto, il punto di partenza del problema, il luogo in cui politica e religione, popolo e nazione, nazionale e internazionale si annodavano. A quel problema andava data una soluzione completamente diversa. In questa luce va probabilmente letto un appunto del Quaderno 9, ripreso nel Quaderno 19:
Nel presente italiano l’elemento «uomo» o è l’«uomo-capitale» o è l’«uomo-lavoro». L’espansione italiana può essere solo dell’uomo-lavoro [...]. Il cosmopolitismo tradizionale italiano dovrebbe diventare un cosmopolitismo di tipo moderno [...]. Il popolo italiano è quel popolo che «nazionalmente» è più interessato a una moderna forma di cosmopolitismo. Non solo l’operaio, ma il contadino e specialmente il contadino meridionale. Collaborare a ricostruire il mondo economicamente in modo unitario è nella tradizione del popolo italiano e della storia italiana, non per dominarlo egemonicamente e appropriarsi il frutto del lavoro altrui, ma per esistere e svilupparsi appunto come popolo italiano [...] Il nazionalismo di marca francese è una escrescenza anacronistica nella storia italiana, propria di gente che ha la testa volta all’indietro come i dannati danteschi. La «missione» del popolo italiano è nella ripresa del cosmopolitismo romano e medioevale, ma nella sua forma più moderna e avanzata. Sia pure nazione proletaria, come voleva il Pascoli; proletaria come nazione perché è stata l’esercito di riserva dei capitalismi stranieri, perché ha dato maestranze a tutto il mondo insieme ai popoli slavi. Appunto perciò deve inserirsi nel fronte moderno di lotta per riorganizzare il mondo anche non italiano, che ha contribuito a creare col suo lavoro, ecc.65.
Un cosmopolitismo di nuovo tipo può essere un modo per riappropriarsi, dalla prospettiva dei subalterni, dell’intera serie di questioni che si annodano nel mito della ‘nazione proletaria’. Ed esso, si noti, può essere al contempo anche una forma di internazionalismo di nuovo tipo, una risposta al crollo dell’internazionalismo socialista in occasione della Grande Guerra, rispetto a cui la politica del Comintern non aveva prospettato novità sostanziali.
Il cosmopolitismo è, nota qui Gramsci, il sentimento più radicato in un popolo, come quello italiano, in cui lo spirito nazionale popolare, e quindi anche nazionalistico – per il carattere peculiare del Risorgimento e di ciò che ne è seguito – è sempre rimasto una «escrescenza superficiale» importata dall’estero. Non si tratterebbe, in breve, di ‘superare’ il nazionalismo (presupponendo un’integrazione delle masse su base nazionale, che Marx ed Engels inizialmente ignorarono66), ma di aggirarlo o di saltarlo, esattamente al modo in cui la comune rurale russa avrebbe potuto, secondo Marx, saltare il capitalismo67.
Non più, dunque, internazionalismo come capacità – da apprendere faticosamente – di ‘andare-oltre’ l’orizzonte dello Stato nazione riconoscendo la comune condizione degli oppressi al di là dei confini nazionali, ma un modo di essere originariamente a-nazionale di una particolare nazione, il risultato storico non scelto e non voluto dal popolo italiano, che esattamente per questa ragione potrebbe assumere su di sé un compito storico-politico di significato potenzialmente universale, perché unico capace, nel cozzo ‘religioso’ dei nazionalismi, di sciogliere diversamente il nodo della ‘nazione proletaria’. Questa ovviamente non sarebbe una legge storica, né un modello sempre valido: più semplicemente, o al contrario con difficoltà infinitamente maggiore, sarebbe (o meglio, sarebbe stata) una possibile strategia comuni- sta che dall’Italia avesse capacità di universalizzazione internazionale.
Appendice
Secondo Marx i due momenti della dinamica moderna del capitalismo – la distruzione e la ricostituzione delle differenze – stanno insieme grazie al carattere parziale della rivoluzione realizzata dalla borghesia: questa si fa avanti in nome di valori universali – libertà, uguaglianza, fraternità che però subordina subito alla proprietà. La sua universalità è dunque falsa, perché la sua capacità di mobilitazione e di critica non oltrepassa la sfera dello Stato politico, della cittadinanza, lasciando la ‘società civile’ in preda al più selvaggio egoismo, allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo68. Le diseguaglianze non sono pertanto, secondo Marx, un fatto giuridico, ma economico, e si reggono grazie a una finzione di eguaglianza contrattuale che viene costantemente smentita nella pratica. Il potere si esercita nella società civile come violenza, e l’istanza giuridica, in quanto circoscrive il circolo della propria efficacia al lato formale delle relazioni sociali, si limita a dichiarare quella violenza legittima, se contenuta entro i propri termini.
Su questa base, è difficile immaginare uno spazio per la ‘politica’ che non sia, da una parte quello pre-giuridico dello scontro materiale delle potenze sociali scatenate le une contro le altre, dall’altra quello giuridico dell’eguagliamento formale di quelle stesse potenze, sanzionando però il loro squilibrio iniziale. Nel primo caso, la politica si risolve nell’economia in quanto agglutinazione e organizzazione di interessi privati, mentre nel secondo essa si identifica con lo spazio pubblico idealistico dello Stato moderno, «che astrae dell’uomo realmente esistente, ovvero soddisfa glo- balmente l’uomo solo in una maniera immaginaria»69.
In questa divisione della politica e suo assorbimento in due linguaggi distinti – dell’economia e del diritto-filosofia – Marx intende raffigurare la scissione reale che domina il mondo borghese. Ma il modulo analitico feuerbachiano qui utilizzato determina gravemente – anche se non completamente – i risultati a cui egli può giungere. Così, lo spostamento della «coscienza» dal piano delle «relazioni materiali degli uomini, [dal] linguaggio della vita reale»70, alla «produzione spirituale, quale essa si raffigura nel linguaggio della politica, delle leggi, della morale, della religione, della metafisica, ecc., di un popolo»71, viene da lui definita un «sublimato» del «processo materiale della [...] vita»72:
All’opposto della filosofia tedesca, che discende dal cielo alla terra, qui si sale dalla terra al cielo. Cioè non si prendono le mosse da ciò che gli uomini dicono, si immaginano, si rappresentano, e neanche da ciò che si dice, si pensa, ci si immagina, ci si rappresenta che gli uomini siano, per poi arrivare agli uomini viventi; si prendono le mosse dagli uomini realmente agenti, e a partire dal loro reale processo di vita si rappresenta anche lo sviluppo dei riflessi [Reflexe] e degli echi ideologici di questo processo di vita. Anche le formazioni nebulose nei cervelli degli uomini sono sublimati [Sublimate] necessari del loro processo di vita empiricamente constatabile e legato a presupposti materiali73.
Marx istituisce qui quella distinzione tra ciò che gli uomini dicono di sé, e ciò che realmente sono, che tornerà in Der achtzehnte Brumaire des Louis Bonaparte74 (1852) e con maggior forza nel Vorwort a Zur Kritik der politischen Ökonomie75 (1859), per cui piano della rappresentazione e piano della realtà sono analiticamente separati. Nel 1845, per descrivere lo statuto di realtà del primo, Marx utilizza un termine tratto dalla chimica: sublimazione è la trasformazione in fumo di sostanze secche e solide, e il sublimato è la polvere che da ciò residua76. Ma prima ancora il termine è alchimistico: Sublimat è «ciò che viene innalzato, sollevato e reso più puro, in modo che abbia tanta più forza»77. Nell’uso di Marx, il significato propende evidentemente verso l’accezione chimica, nella quale l’‘innalzamento’ alchemico viene ridotto a una semplice ricaduta da combustione, con conseguente perdita di realtà. Definire le idee un Sublimat, caratterizza il campo della rappresentazione come una duplicazione estenuata dell’originaria realtà: una sorta di realtà andata in fumo.
Così, se per un verso Marx rivendica, contro la coppia formata da idealismo filosofico e liberalismo giuridico, una relazione reale, storicamente efficace tra economia e politica, dall’altra essa rivendicazione è neutralizzata dall’equivalenza tra ‘astrazione’ ed ‘estraneazione’78, per cui il pensiero, la cultura, la politica sono posti in antitesi rispetto alla realtà concreta, che a sua volta non evade dallo spazio dell’immediata ed empiricamente verificabile potenza pratica. Lo spazio della politica statale è di conseguenza assorbito dentro quello della religione79. Che vi possa essere una potenza pratica nell’astrazione, che cioè la ‘forma’ possa iscrivere dentro di sé la politica non in forma attenuata, ma più efficace, è in questo momento (1844-1845), per Marx, poco più di uno spunto (si può dire: il risuonare dell’accezione alchimistica nel termine Sublimat oltre al fatto, di non poca importanza, che quel sublimato è detto ‘necessario’, secondo un modulo analogo all’immagine, anch’essa utilizzata nella Deutsche Ideologie, della camera oscura, che inverte secondo leggi precise le immagini) costantemente frustrato e rigettato indietro dal linguaggio feuerbachiano80.
La natura della relazione tra economia e politica rimane pertanto indeterminata: di fatto, Marx oscilla (e continuerà a oscillare) tra una critica dell’economia politica che mostra il carattere politico, percorso dai rapporti di forze, delle categorie scientifiche81, e una critica della politica e del diritto, in quanto forme limitate e mere portatrici (nel senso di Reflexe, duplicati o meglio trascrizioni in altra lingua) di interessi economici82. Ecco perché la nozione di bürgerliche Gesellschaft, «società borghese-civile», che Marx esplicitamente riprende da Hegel83, appare singolarmente impoverita rispetto al testo della Rechtsphilosophie. Essa viene infatti vista dalla prospettiva dello Stato hegeliano in quanto condensazione dello Stato moderno, cioè della logica della sovranità: dunque come disordine atomistico, a cui lo Stato si oppone come un’esteriorità necessaria, derivante da un ribaltamento, da una trascendenza completa84.
Nel 1859 Marx riprende la stessa terminologia, precisando che la società civile è più precisamente definibile come «struttura economica della società», formata dalla «totalità» (Gesamtheit) dei «rapporti di produzione». L’economia politica scompone insomma anatomicamente la «società civile» nelle sue relazioni essenziali, tralasciando la superficie multicolore della nozione che Hegel aveva a sua volta ripreso dagli autori francesi e inglesi del XVIII secolo85. Tra il 1844 e il 1859, ciò che rimane fermo è l’idea che la società civile si limiti al ‘sistema dei bisogni’, rispetto a cui l’ordine va introdotto dall’esterno: è il piano della realtà (i «rapporti della vita materiale», materielle Lebensverhältnisse) e non della rappresentazione (i «rapporti giuridici» e le «forme statali»86).
Del diritto, della Polizei, delle corporazioni, come momenti della presenza più o meno immanente dello Stato dentro la società civile87, Marx non si occupa, preferendo sottolineare il conflitto e la sua trascendente soppressione. Con lui, la società civile viene ricondotta all’economia, mentre le istanze ‘rappresentative’ a essa interne, semplicemente non vengono conteggiate. L’opposizione netta, radicale tra realtà e rappresentazione, disperdendo lo spunto contenuto nell’idea di una sfera politica come ‘sublimato’ dell’economia e non semplice ‘riflesso’, finisce per ignorare il potenziale universalistico (e dunque la forza egemonica) precisamente di quella borghesia, alla quale pensa Hegel scrivendo le Grundlinien der Phi- losophie des Rechts88.
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