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minimamoralia

Di ogni cosa si dovrebbe poter dubitare, ovvero Maniac di Benjamín Labatut

di Luca Alvino

41HDE9ApyeL. SL1024 .jpgLa matematica nasce essenzialmente per esigenze pratiche. Le civiltà antiche svilupparono assai presto la capacità di rappresentare dei numeri in modo elementare. Anzi, probabilmente gli uomini impararono a contare ancora prima che a usare le parole, le quali evidentemente richiedevano una maggiore capacità di astrazione. Per migliaia di anni, l’aritmetica come la geometria e le altre scienze continuarono ad avere scopi molto pratici, che avevano a che fare con la vita quotidiana. Fu solo in epoca moderna che la matematica iniziò a divenire più astratta, cioè a speculare su concetti che non avevano (almeno apparentemente) più nulla a che vedere con la vita di tutti i giorni, iniziando a focalizzarsi piuttosto sulla propria forma (ovvero la sintassi) e a mettere in secondo piano la sostanza (cioè i contesti reali cui i simboli si riferiscono). In altre parole, iniziò a rappresentare una realtà simbolica (o un modello di realtà) che non era propriamente la realtà come noi la percepiamo, ma che tuttavia le consentiva di compiere delle scoperte concrete. Il suo elevato livello di astrazione le permetteva infatti di sviluppare un ragionamento che, proprio per la sua levatura, poteva avere una ricaduta molto più ampia verso il basso, ovvero proprio sulla vita concreta.

Questa premessa mi sembra importante per tentare di comprendere gli argomenti chiave trattati nel romanzo MANIAC di Benjamín Labatut, uscito in Italia per Adelphi lo scorso anno con l’illustre traduzione di Norman Gobetti. Mi pare infatti che questo libro voglia rappresentare il processo in cui la matematica, dopo essersi innalzata nelle altezze siderali dell’astrazione, nel secolo scorso inizia la sua ricaduta verso la realtà e vi si ripercuote – in certe sue applicazioni – in modo potente.

Il romanzo è diviso in due parti. Nella prima, più corposa, vengono narrati, da diverse angolature, alcuni aneddoti sul matematico ungherese John von Neumann (in ungherese Jancsi), uno tra gli studiosi più geniali del secolo scorso. Nella seconda parte del libro – lunga meno di cento pagine – si racconta la celebre partita tra Lee Sedol (sudcoreano maestro di go di 9° dan, soprannominato «La pietra forte», uno tra i più apprezzati giocatori di go della storia recente) e AlphaGo, un’intelligenza artificiale con un’abilità di gioco sconvolgente.

Von Neumann viene immediatamente presentato come una persona eccezionale, che sfugge cioè a qualsiasi confronto o definizione: «A questo mondo ci sono due tipi di persone: Jancsi von Neumann e il resto di noi», dice di lui Eugene Wigner, premio Nobel per la fisica nel 1963 e compagno di scuola di Jancsi a Budapest negli anni immediatamente precedenti la Prima Guerra Mondiale. Favolosamente intelligente, precoce nella conoscenza, curioso di tutto ciò che lo affascinava, capace di intuizioni folgoranti; ma al tempo stesso egoista, pigro, inveterato donnaiolo, sorprendentemente impacciato nelle cose concrete, sprovvisto del senso del tempo e della misura, Johnny von Neumann con questa frase fa il suo ingresso da protagonista assoluto sul palcoscenico del romanzo.

Personaggio del tutto controverso, capace di risolvere con un semplice colpo d’occhio problemi complessi (dietro ai quali accademici più anziani e più preparati di lui cincischiavano per mesi senza riuscire venirne a capo), in grado di dimostrare teoremi intricati con un’eleganza e una sprezzatura che li faceva apparire elementari, si appassionava ai suoi studi in maniera puramente teorica, senza considerare le loro ripercussioni pratiche, quand’anche fossero state devastanti. Non perché non gliene importasse, ma perché gli apparivano cosa di poco conto rispetto alla bellezza dei calcoli astratti che le provocavano.

Il disordine gli interessa più dell’ordine, la turbolenza più dell’equilibrio, la contraddizione più della coerenza. Quando si appassiona a un argomento è capace di non mangiare e dormire per giorni pur di arrivare a dominarlo. È l’unica persona che sembra conoscere sempre tutto, che è sempre in grado di risolvere qualunque problema e che ha una risposta a qualsiasi domanda gli venga rivolta. È indubbiamente lo scienziato più promettente di tutto il Novecento.

Tuttavia, dopo l’incontro sconvolgente con Kurt Gödel e dopo aver conosciuto i suoi teoremi di incompletezza (ovvero l’individuazione di «un limite ontologico, un confine oltre il quale non era possibile pensare»), Johnny von Neumann aveva per così dire perso la fede nell’etica, in un limite morale che fosse necessario non oltrepassare, giungendo alla conclusione che, poiché la coerenza della matematica era indimostrabile, non fosse necessario mantenere una propria coerenza anche negli altri ambiti dell’esistenza. Le conseguenze di tutto ciò furono, in un certo senso, molto pericolose per lui. Von Neumann abbandonò gli studi teorici per concentrarsi su problemi molto concreti. Nella scelta delle sfide da risolvere, non teneva in nessun conto le eventuali ricadute morali delle sue scoperte.

Forse anche per questo – oltre ovviamente alla sua brillantezza – fu chiamato come consulente nel Progetto Manhattan, che aveva radunato le menti più luminose dell’Occidente a Los Alamos, nel deserto del Messico, per sviluppare una bomba potentissima, in grado di distruggere ogni capacità bellica della Germania e porre così fine al Secondo Conflitto Mondiale.

Durante lo sviluppo del progetto, ci si rese presto conto della potenza spropositata della bomba che si stava mettendo a punto, tanto che si pensò potesse distruggere ogni cosa esistente sull’intero pianeta. Von Neumann non era un collaboratore fisso nel progetto, ma solo un consulente che faceva un’apparizione una volta ogni tanto. Tuttavia le sue opinioni furono probabilmente decisive nella scelta di andare avanti con il progetto, nonostante i rischi ipotizzati.

Piano piano ci si rese conto che la bomba era importante non tanto per sconfiggere la Germania, quanto per influenzare gli scenari bellici futuri. L’ordigno atomico non doveva essere necessariamente usato contro il nemico, ma doveva essere realizzato per mostrare al mondo la sua incredibile potenza, e influenzare in tal modo i futuri equilibri bellici internazionali, particolarmente con l’Unione Sovietica.

C’è un passaggio nel libro in cui von Neumann discute con Eugene Wigner (fisico e matematico ungherese, premio Nobel nel 1963) di cosa possa accadere una volta che la produzione della bomba atomica avesse scoperchiato il vaso di Pandora, liberando tutti i mali esistenti nel mondo. Jancsi afferma che «proprio in fondo a quel vaso, in silenziosa e obbediente attesa, c’era Elpis, che i più considerano come lo spirito della speranza e il contraltare di Moros, lo spirito della sventura». Ma sostiene che «una traduzione del suo nome più precisa e più corrispondente alla sua natura sarebbe “aspettativa”. Perché non possiamo sapere quale sarà la conseguenza di un male. E a volte le cose più letali, quelle che hanno il potere di distruggerci, possono diventare col tempo gli strumenti della nostra salvezza». Era questa convinzione che probabilmente spingeva von Neumann a incoraggiare gli scienziati di Los Alamos a proseguire nel loro lavoro per la messa a punto della bomba. Ma è una convinzione che non deriva da nessun tipo di impostazione scientifica. A Wigner che gli domanda il motivo per cui gli dèi avessero permesso che fossero liberati gli orrori, le ingiustizie, le malattie, e avessero lasciato nel vaso proprio la speranza, Jancsi strizza l’occhio e risponde che gli dèi «sapevano cose che noi non possiamo sapere». È un ragionamento difficile da attribuire a uno scienziato, che non dovrebbe basare le proprie osservazioni su enunciati che hanno le loro radici nei territori acquitrinosi del non conoscibile.

Poche pagine dopo capiamo però qualcosa in più su questo atteggiamento. Jancsi si trova con sua moglie a una cena, e si parla della corsa agli armamenti e dei sistemi di controllo che si stanno mettendo a punto in Unione Sovietica. Si parla con molta vivacità della bomba, del potere incredibile dell’atomo, di come esso costituisca una minaccia per degli esseri umani concreti, e non solamente nello spazio asettico della teoria. «Jancsi non batté ciglio. Si scolò il suo scotch e, prima che Virginia trascinasse fuori dalla porta il marito mugolante, le disse: “Cara mia, sto pensando a qualcosa di molto più importante delle bombe. Sto pensando ai calcolatori”».

I calcolatori, in effetti, affiancano il lavoro di Von Neumann nell’arco di tutta la sua vita, fin da quando era molto giovane. Jancsi intuì molto presto quale potesse essere la potenza di un calcolatore, quale forza potesse acquisire grazie alla sua capacità di eseguire operazioni semplici a una velocità infinitamente superiore a quella degli esseri umani. Nel suo pensiero il calcolatore rappresenta il fattore divino, ciò che gli dèi sanno e che noi non possiamo sapere, e ha certamente a che fare con Elpis rimasta in fondo al vaso di Pandora dopo la sua apertura. L’aspetto divino del calcolatore emergerà in una delle ultime pagine del libro, in cui si parla della imbattibilità dell’intelligenza artificiale nel gioco del go, che ha un aspetto quasi divino. Ma ci arriveremo.

Nella storia del libro, c’è un momento in cui il go fa la sua comparsa ben prima della sezione finale, che gli sarà interamente dedicata. Siamo a Los Alamos, e gli scienziati lavorano all’ideazione e alla costruzione della bomba. Ma hanno molti tempi morti, in cui non sanno letteralmente cosa fare. Allora iniziano a giocare a scacchi, e, poco dopo, a go. Lo racconta il personaggio di Richard Feynman (premio Nobel per la fisica nel 1965): «Lo sapevate che a Los Alamos ci sfidavamo a scacchi? Poi qualcuno portò una tavola da go e cominciammo a giocare anche a quello. Partite accesissime, interminabili, senza limiti di tempo, contro alcuni degli uomini più intelligenti che io abbia mai conosciuto». È interessante che l’autore ci riveli questo dettaglio in anticipo. In tal modo viene creata una corrispondenza tra il go e la bomba. Le menti geniali che dedicavano il meglio delle loro energie a costruire l’ordigno si intrattenevano in partite a go accesissime e interminabili. Ed è molto interessante sapere che von Neumann giocava malissimo, perdendo tutte le partite contro Feynman. E più perdeva, più s’incaponiva a pretendere la rivincita.

Per costruire una bomba potentissima o per avere successo nel go non è sufficiente l’intelligenza. Von Neumann ne aveva da vendere, eppure non riusciva a vincere nemmeno una partita. E, se non avesse conosciuto Gödel, probabilmente non sarebbe mai stato in grado di costruire il calcolatore e, di conseguenza, la bomba.

Nonostante ciò che comunemente si pensa, il computer non è affatto intelligente. È vero, risolve problemi molto complessi, ma eseguendo pedissequamente delle istruzioni che gli ha fornito qualcun altro. Ricordo che all’università, alla prima lezione di informatica, per introdurci il concetto di calcolatore il professore disse: «Immaginate di avere un amico molto stupido». In effetti, il computer non sa riconoscere nient’altro che il concetto di zero e il concetto di uno. Vuoto e pieno, per tornare alle sue origini con le schede perforate. Ma sa elaborare questi concetti elementari combinandoli tra loro in miliardi di modi a una velocità vertiginosa, che l’essere umano non potrebbe nemmeno immaginare.

Prima dell’invenzione di un software per il gioco del go, fu creato un programma per il gioco degli scacchi. Il gioco degli scacchi, per quanto complesso, e più semplice rispetto al go, ma già un motore scacchistico è in gradi di surclassare un giocatore umano tramite una potenza di calcolo incomparabile. Per quanto riguarda gli algoritmi per il gioco degli scacchi, Labatut scrive: «mentre il giocatore professionista medio è in grado di vedere dalle dieci alle quindici mosse avanti, questi algoritmi possono calcolare duecento milioni di posizioni al secondo, circa cinquanta miliardi di posizioni in poco più di quattro minuti. Questo approccio, in cui il computer passa in rassegna ogni singola possibilità derivante da ciascuna mossa, viene definito, giustamente, forza bruta. Mentre un giocatore umano, per compiere le proprie scelte sulla scacchiera, usa la memoria, l’esperienza, il ragionamento astratto di alto livello, il riconoscimento di schemi ricorrenti e l’intuizione, un motore scacchistico non comprende affatto il gioco, ma si limita a impiegare la sua potenza di calcolo e a prendere poi una decisione attenendosi a un complesso sistema di regole stabilite dai suoi programmatori».

Per il gioco degli scacchi, dunque, l’arma segreta di un calcolatore non è la sua intelligenza (abbiamo già detto che un computer è essenzialmente stupido) quanto la forza bruta. Quando parliamo di intelligenza artificiale parliamo dunque di qualcosa di completamente diverso dall’intelligenza umana. Per un computer non esiste l’intuito, la visione di gioco, l’abilità di interpretare la partita; per lui esistono dati da consultare, la capacità di prevedere un insieme sconfinato di partite teoriche, regole sofisticate scritte da altri e configurate all’interno del software.

Per il go, tuttavia, la situazione è diversa. «Se in una partita di scacchi ci sono una ventina di possibilità per ogni singola mossa, nel go ce ne sono più di duecento. Negli scacchi, dopo le prime due mosse, ci sono quattrocento combinazioni possibili; nel go ce ne sono quasi centotrentamila». E così via. Le variabili del go sono molte di più e ciascuna di esse ha un numero enorme di combinazioni possibili. Si pensi che mentre il numero delle possibili partite a scacchi si avvicina a 10123, le partite possibili di go sono più di 10700. «Il numero delle posizioni consentite – le configurazioni di pietre che possono verificarsi quando due giocatori si affrontano – è così grande che lo si riuscì a stabilire con precisione solo nel 2016:

208.168.199.381.979.984.699.478.633.344.862.770.286.522.453.884.530.548.425.639.456.820.927.419.612.738.015.378.525.648.451.698.519.643.907.259.916.015.628.128.546.089.888.314.427.129.715.319.317.557.736.620.397.247.064.840.935».

Se si prendessero in considerazione tutte le partite possibili, anche quelle che non avrebbero mai luogo perché del tutto irrazionali, il numero totale sarebbe del tutto incomprensibile, ovvero più di (1010)100, ovvero «una cifra così grande che è fisicamente impossibile scriverla per esteso in forma decimale, perché richiederebbe più spazio di quanto ce ne sia a disposizione nell’universo noto».

È chiaro che per un buon software in grado di giocare a go nemmeno la forza bruta sarebbe sufficiente per mettere in campo una buona strategia di gioco. Non esistono elaboratori dotati di una memoria tale da ospitare tutte le combinazioni di gioco possibili. C’è dunque bisogno di elaborare degli algoritmi che siano in grado di simulare in qualche modo la creatività, ovvero la capacità di non basarsi per le proprie scelte solo su informazioni già note, ma di sapersi avventurare nel territorio dell’inesperienza e dell’inatteso.

Ciò che fecero i programmatori di AlphaGo (l’intelligenza artificiale che sconfigge il campione sudcoreano Lee Sedol nell’ultima parte del libro) fu introdurre nel computer un database di centocinquantamila partite giocate da dilettanti di buon livello. La definirono «rete di policy», in pratica una base da cui partire per passare al livello successivo, ovvero l’autoapprendimento. Tenendo come riferimento la rete di policy, AlphaGo giocò contro sé stesso alcuni milioni di volte. Le prime volte commetteva errori grossolani, che non avrebbe commesso nemmeno un principiante. Poi cominciò ad apportare progressivi miglioramenti alle sue mosse fino ad arrivare a un livello irraggiungibile per qualsiasi essere umano. Imparare dai propri errori significa avere la capacità di dubitare delle cose, anche di quelle che riteniamo inconfutabili. La creatività, in fondo, consiste in questo: essere in grado di riconoscere i propri errori ed esplorare nuove strategie di gioco, più promettenti e fantasiose.

Abbiamo già detto che von Neumann non era bravo a giocare a go. Probabilmente il suo sistema di gioco non gli consentiva di imparare dai propri errori, perché il suo ego stratosferico non gli permetteva di dubitare di sé stesso. Di lui dice Gábor Szegő, il matematico ungherese che lo ebbe come allievo quando era ancora un ragazzo: «Da un punto di vista spirituale era un ignorante, certo, però aveva un’incontestabile fede nella logica. Ah, ma quel tipo di fede è sempre pericoloso! Soprattutto se viene poi tradito. Di ogni cosa si dovrebbe poter dubitare. Mosè ha dubitato persino dell’Onnipotente! E finché il Signore, Egli sia benedetto, non risponde, potrebbe essere il dubitare stesso a salvarci».

Per AlphaGo passare dalla forza bruta all’autoapprendimento implica (per quanto ciò possa significare per un computer) acquisire la capacità di dubitare. Come suggerisce il brano appena citato, il dubbio non è neanche nella religione un indice di apostasia, quanto piuttosto di misticismo. Il mistico è colui che introduce una distanza tra l’umano e il divino per avere la libertà di sceglierlo all’infinito. Come canta Leonard Cohen in Anthem, «There is a crack, a crack in everything / That’s how the light gets in». C’è una crepa, una crepa in ogni cosa, ed è così che la luce entra.

La parte del libro che parla della forza raggiunta da AlphaGo ci offre la chiave di lettura anche per la parte che parla della bomba. Costruire una bomba di una potenza pari a svariate migliaia di tonnellate di tritolo consente di vincere la guerra non tanto per il suo sterminato potenziale di distruzione, quanto grazie alla forza bruta che è in grado di esercitare, e che rappresenta uno spauracchio troppo orripilante.

Quando la bomba fu pronta Hitler era oramai già stato sconfitto. Il Führer si suicidò nel suo ultimo bunker il 30 aprile 1945, ma nel frattempo gli Stati Uniti erano impegnati in combattimenti estenuanti contro il Giappone. Stanco per il protrarsi della guerra (ma più probabilmente desideroso di dare un senso all’enorme quantità di energie e denaro spesi a Los Alamos), Truman decise di dare una dimostrazione di forza al mondo intero, e diede l’ordine di sganciare le bombe sul Giappone. Le bombe non si limitarono a piegare e a umiliare il Giappone, ma lo annientarono letteralmente, togliendogli ogni possibilità di rialzarsi e riprendere a combattere.

Confida Lee Sedol nelle ultime pagine del libro: «Ho cominciato a giocare a cinque anni. All’epoca il go era imperniato sulla cortesia e le buone maniere. Era come imparare una forma d’arte, più che un gioco. Mentre crescevo, ha cominciato a essere considerato uno sport per la mente, ma quella che ho imparato io era un’arte. Il go è un’opera d’arte realizzata da due persone. Adesso è tutto diverso. Dopo l’avvento dell’IA, il concetto stesso del go è cambiato. È una forza devastante. AlphaGo non mi ha sconfitto, mi ha annientato… Dopo l’entrata in scena dell’IA mi sono reso conto di non poter essere più ai vertici… Anche se diventassi il giocatore migliore che il mondo abbia mai conosciuto, c’è un’entità che non può essere sconfitta».

Quando DeepMind, la startup inglese che realizzò AlphaGo, fu acquistata da Google nel 2014 per seicentoventicinque milioni di dollari, in molti si chiesero come avrebbero utilizzato quel software potentissimo: «Avrebbero insegnato a un’intelligenza artificiale a diagnosticare il cancro? Si sarebbero concentrati sulla fusione nucleare? Avrebbero cercato di creare un mezzo di comunicazione fino a quel momento inimmaginabile? Fra gli specialisti il dibattito ferveva, e ognuno scommetteva su dov’era più probabile che si scoprisse un filone d’oro, ma Hassabis non aveva dubbi: avrebbero cominciato con un gioco, il più complesso e profondo che l’umanità avesse mai concepito. Il gioco del go».

Dopo la vittoria su Lee Sedol, ad AlphaGo fu conferito il 9° dan ad honorem. Nell’attestato che accompagnava il riconoscimento, si affermava che AlphaGo aveva raggiunto nell’arte del go un «livello prossimo al territorio della divinità». Non una divinità trascendente, intoccabile, ma anzi una divinità immanente, che nasce dal basso, e di cui non solo – come abbiamo imparato – è lecito dubitare, ma il cui essere oggetto di dubbio costituisce proprio il tratto più caratteristico.


Luca Alvino è nato nel 1970 a Roma, dove si è laureato in Letteratura Italiana. Nel 2023 ha tradotto e curato per Interno Poesia un’ampia antologia delle poesie di John Keats, intitolata Mio cuore. Nel 2021 ha pubblicato, ancora per Interno Poesia, la raccolta poetica Cento sonetti indie. Nel 2018 è uscita per Castelvecchi la sua raccolta di saggi Il dettaglio e l’infinito. Roth, Yehoshua e Salter. Nel 1998 ha pubblicato con Bulzoni una monografia sull’Alcyone di Gabriele d’Annunzio, intitolata Il poema della leggerezza. Collabora dal 2011 con la redazione di «Nuovi Argomenti».

Comments

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FrancescoB
Wednesday, 27 March 2024 18:43
Interessante lettura, grazie degli spunti.
Ma: i teoremi di indecidibilità e incompletezza (per quanto mi ricordo) mi paiono un po' tirati per i capelli: non pongono un «limite ontologico, un confine oltre il quale non è possibile pensare» ma bensì quasi il contrario! cioè che nessun sistema logico può esaurire e comprendere al suo interno tutte le verità matematiche esistenti.L'ampliamento di questo insieme di verità ha bisogno dell'ideazione di sistemi logici aggiuntivi non riconducibili ad uno solo. Motivo in più per dubitare! ...
Grazie ancora
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