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Decentrare il presente: la sfida del Longpath

di Roberto Paura

Ari Wallach: Longpath, Traduzione di Maria De Pascale, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2025
- pp. 187, € 25,00 

in rilievo letture longpath A.jpgPer un caso che non definiremmo fortuito, nel pieno dell’ultima pandemia – annus horribilis 2020 – apparve un libro destinato a influenzare il dibattito internazionale: The Good Ancestor di Roman Krznaric, poi tradotto tre anni dopo in italiano con il titolo Come essere un buon antenato. Krzanric vi sosteneva l’esigenza di assumere – o meglio tornare ad assumere – un pensiero di lungo termine come antidoto alla contrazione del tempo tipica dei nostri giorni. Pensare in termini di tempo profondo, come già invitava a fare alcuni decenni fa Alvin Toffler nel suo testo-cult Lo choc del futuro, nel quale divideva gli ultimi 50.000 anni in 80 cicli di una sessantina d’anni circa, così da darci l’idea di come da un lato i cambiamenti siano stati estremamente lenti (quanti cicli passati a vivere nelle caverne), e di come dall’altro questi cambiamenti stiano accelerando di ciclo in ciclo (cfr. Toffler, 1971). Ma soprattutto pensare in ottica transgenerazionale, come già proponeva la Grande legge degli haudenosaunee, la legge orale fondante della Confederazione degli irochesi: ogni decisione dev’essere presa tenendo conto delle conseguenze sulle sette generazioni future. L’anno in cui quel libro uscì dimostrava plasticamente le conseguenze del brevetermismo: il mondo relegato in casa a causa di un virus il cui salto di specie era stato favorito dall’erosione degli habitat naturali da parte dell’espansione antropica, e la cui diffusione esponenziale era stata resa possibile dagli incessanti spostamenti di cose e persone su scala globale per tenere in piedi l’economia di mercato fondata sul principio della crescita infinita.

Quella di Krznaric sembrò una ricetta per il mondo migliore che dovevamo edificare. In parte è stata anche seguita, più nella forma che nella sostanza: prova ne è la riforma costituzionale italiana del 2022, che ha inserito all’art. 9 la tutela dell’ambiente e della biosfera nell’interesse delle future generazioni e, solo pochi giorni fa, la legge che ha introdotto la “valutazione di impatto generazionale”, che impone un’analisi preliminare degli impatti delle nuove politiche pubbliche in particolare sulle giovani generazioni, quelle al di sotto dei 35 anni.

Forma più che sostanza, perché il brevetermismo è inscritto nell’architettura costituzionale delle democrazie contemporanee e la preminenza delle generazioni più anziane è frutto di un incessante invecchiamento della popolazione. Al tempo stesso, dalle parti della Silicon Valley il tema del pensiero di lungo termine, mai abbandonato, ha trovato orecchie ben disposte negli ambienti della filosofia dell’altruismo efficace, che ha coniato il concetto di lungotermismo come ricetta per il futuro di lunghissimo termine dell’umanità, guardando non agli interessi dei giovani di oggi o della settima generazione di dopodomani, ma a quelli dell’umanità che vivrà tra un milione di anni: perché, si sa, agli americani piace esagerare.

 

“Ciò che accade domani è iniziato ieri”

Longpath di Ari Wallach si inserisce all’interno di questo dibattito proponendo una serie di strumenti pragmatici esperibili a livello non solo di collettività, ma innanzitutto personale, per diventare i buoni antenati di cui ha bisogno il nostro futuro, come precisa il sottotitolo dell’edizione originale (Becoming the Great Ancestors, Our Future Needs. An Antidote for Short-Termism). Nella prefazione all’edizione italiana pubblicata da Rubbettino, Francesco Cicione – che dalle parti dell’editore calabrese ha fondato Entopan, una società che promuove l’innovazione armonica – nota subito come

“il longpathism proposto da Ari Wallach si distingue sostanzialmente dalla prospettiva del long-termism radicale, peculiare dell’ideologia TESCREAL (transumanesimo, estropianesimo, singolaritanismo, cosmismo, razionalismo, altruismo efficace e lungotermismo). Quest’ultima, dal punto di vista dell’innovazione armonica, si configura come un pericoloso e pernicioso patchwork, informe e confuso, di pseudofilosofie e ideologie spiritualistiche postmoderne, declinate in chiave tecnocratica da una ristrettissima élite tecnologica e finanziaria”

(Cicione, in Wallach, 2025).

Per capire in cosa consiste il Longpath, Ari Wallach parte dalle sue radici: nato in Messico e cresciuto sulla baia di San Francisco, l’autore è figlio di un ebreo polacco i cui genitori sono morti nei campi di sterminio nazisti, e di un’artista discepola del celebre futurista Richard Buckminster Fuller. Un pedigree che spiega quasi a livello genetico la sua vocazione a collegare passato e futuro, riassunta in una fase del padre: “Se dimentichi il passato, non hai un futuro. Ciò che accade domani è iniziato ieri”. Longpath è innanzitutto il titolo di un percorso esistenziale, che Wallach propone ai suoi clienti – in particolare manager delle maggiori aziende americane e multinazionali – per restituire di senso la propria vita e il proprio lavoro (i Longpath Labs, lanciati nel 2016). Ma è soprattutto un termine con cui provare a visualizzare il “lungo sentiero” – se vogliamo prenderne la traduzione letterale – che si snoda dal passato remoto dell’umanità fino al futuro remoto. L’autore ci propone a un certo punto di metterci davanti a uno specchio e fissarci (suggerisce di farlo nudi, il che può mettere a disagio chi non possiede la sua stessa autostima): osservandosi, dovremmo pensare a come ognuno di noi sia il frutto di un “longpath” che si perde nella notte dei tempi e ci connette con innumerevoli antenati, ciascuno dei quali ha lasciato qualche impronta su di noi, in termini genetici, epigenetici, somatici, sociali, psicologici. Un’eredità impegnativa, tanto più considerando che oggi sempre meno persone fanno figli. Wallach, per inciso, ne ha tre: ma ci tiene a precisare che “non è necessario avere figli per avere discendenti”. Qui non occorre arrivare agli estremi di Donna Haraway, che sostiene la necessità di creare legami al di là della riproduzione (making kin, not babies; cfr. Clarke e Haraway, 2022): basta considerare le scoperte dell’evoluzionismo sulla “selezione parentale”, che spinge gli esseri viventi a comportamenti altruistici al di là delle proprie esigenze riproduttive. Quello che conta è garantire ai nostri discendenti, chiunque essi siano, un buon futuro.

 

“Il vecchio muore e il nuovo non può nascere”

Ma perché oggi è così difficile pensare in ottica multigenerazionale? Perché viviamo in un’epoca che Wallach definisce “fase intertidale”, fasi storiche in cui “i cambiamenti di paradigma si accentuano e si intrecciano”, col risultato di elevare “alla massima potenza” il grado di complessità e confusione delle nostre vite. Come già spiegava Ilya Prigogine, il picco della caoticità di un sistema spesso corrisponde al passaggio a un nuovo stato di equilibrio, più stabile del precedente: un esempio è la rivoluzione agricola, che stabilizzato per millenni la civiltà umana. Anche questa è un’idea che era stata anticipata da Toffler, il cui libro La terza ondata (1980) proponeva una divisione della storia in tre grandi onde di mutamento: quella dall’età nomadica all’età agricola; dall’età agricola a quella industriale; e quella in corso all’epoca in cui apparve il libro, dalla società industriale a quella dell’informazione. Certamente, i momenti intertidali tra un’ondata e l’altra sono i più critici, secondo la celebre lezione gramsciana:

“La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere”

(Gramsci, 2014).

Il nostro momento intertidale è reso particolarmente problematico dal fatto che la contrazione del tempo ci lega a un eterno presente che detestiamo ma dal quale non siamo in grado di scollarci, perché viviamo “in un sistema che premia il breve termine: l’impulso a cercare soluzioni e ricompense rapide”. Le fasi intertidali hanno il difetto di intensificare i nostri impulsi a breve termine, ma non è sempre stato così. Quello che già Krznaric chiamava il “pensiero cattedrale” sembra aver caratterizzato lunghe epoche della storia umana, in cui all’apparente assenza di mutamento sul breve termine faceva da contraltare una visione di lungo termine simboleggiata dalla costruzione multigenerazionale delle grandi cattedrali europee, o altri tipi di monumenti che richiedevano tempi di costruzione lunghissimi (le piramidi egizie, per esempio). Una visione che andava anche oltre il secolo inteso come il mondo al-di-qua, proiettandosi con molta più facilità di oggi verso l’aldilà: l’esistenza di una famiglia o di una comunità condivideva gli spazi con i propri antenati defunti, con i quali aspirava a ricongiungersi dopo la morte, in attesa della resurrezione finale. Per recuperare questa capacità che apparteneva ai nostri antenati, il Longpath si basa su due pilastri: l’empatia transgenerazionale, ossia “una consapevolezza costante del proprio posto nella catena dell’esistenza, in cui si fanno i conti con la storia che si è ereditata, si trova la sintonia nel e con il presente e si fanno aggiustamenti per migliorare il futuro”; e il futures thinking, il “pensiero sui futuri”, che riguarda non solo il pensare “a molti tipi diversi di futuro” ma soprattutto a “immaginare il futuro che desiderate”. Un principio, quest’ultimo, che fa parte delle fondamenta degli studi sul futuro, con la loro enfasi a coniugare il futuro nella triplice dimensione del probabile, possibile e preferibile (cfr. Gidley, 2021). Più complessa è l’empatia transgenerazionale: perché da un lato, chiarisce Wallach, “non significa scagionare chiunque”, poiché di sicuro i nostri antenati hanno compiuto crimini e atrocità, hanno difettato a loro volta di empatia, potrebbero essersi imposti con la sopraffazione, anche a livello riproduttivo (per esempio, lo stupro); dall’altro, proiettarci nel lontano per immaginare come i nostri trisnipoti vedranno la nostra vita è problematico, perché richiede di mettere in discussione i princìpi etici del presente:

“Forse ci sarà una tecnologia che permetterà agli esseri umani di leggere i pensieri degli animali e i nostri discendenti considereranno barbara la nostra scelta di mangiare carne. E sicuramente guarderanno a come abbiamo ignorato il cambiamento climatico e ne saranno infuriati, o perlomeno sbalorditi”.

 

“Il grande problema è che il futuro è il posto dove si muore”

Tuttavia, è proprio questa sorta di decentramento del presente che può aiutarci a restituire di profondità la nostra percezione del tempo e di senso la nostra esistenza. Alla fine del secolo scorso, Stewart Brand e Brian Eno avevano proposto il concetto del long now: essere coscienti di vivere “in un Grande Qui e in un Lungo Adesso”, era la formula coniata da Eno, che spinse l’ambientalista, attivista e futurista Brand a creare la Long Now Foundation per promuovere il pensiero lungimirante (Brand, 2009). Una delle intuizioni di quel progetto fu di cambiare la notazione delle date, premettendo uno zero: cioè considerare 10.000 anni come unità di misura, cosicché oggi vivremmo nel 02025. L’idea dei diecimila anni, e i progetti connessi (per esempio, l’Orologio e la Biblioteca dei Diecimila anni), venne a Brand considerando che questi sono all’incirca gli anni della storia umana; per cui dovremmo proiettarne altrettanti nel futuro. Brand faceva a tale riguardo, però, un’osservazione illuminante:

“Il grande problema è che il futuro è il posto dove si muore. Questa è la ragione per cui è così difficile vedere il futuro da un punto di vista veramente personale, soprattutto il futuro più remoto, perché riguarda un mondo offuscato dalla nostra assenza. La vita del futuro non fa altro che enfatizzare la nostra inevitabile scomparsa”

(Brand, 2009).

Per essere realmente efficaci, il principio del “buon antenato” e del Longpath dovrebbero essere in grado di esorcizzare questa paura. Non meraviglia che Wallach, durante i suoi laboratori, si scontri la mentalità di persone per le quali il futuro è al massimo otto mesi da oggi. Anche i migliori di noi, nei loro esercizi di previsione, coltivano una sana prudenza nei confronti degli orizzonti di tempo molto lunghi, perché dobbiamo tenere conto della nostra finitudine. Quando ciò non avviene, si può essere o estremamente altruisti nei confronti dell’umanità, al punto da disprezzare la propria vita, o estremamente egoisti, coltivando quell’ambizione di poter vivere per sempre che oggi sappiamo essere comune tanto ai principali dittatori del mondo quanto ai tecno-miliardari occidentali. Per questo l’altra strada per la lungimiranza, il lungotermismo, appare più seducente: perché perora un futuro di lunghissimo termine nel quale potremmo esserci anche noi. Attingendo alle teorie ottocentesche dei cosmisti russi e a quelle novecentesche dei transumanisti, i lungotermisti del XXI secolo sperano che i nostri pronipoti saranno in grado di resuscitare la nostra informazione, se non persino i nostri corpi, e garantirci la vita eterna in questo mondo, meglio ancora in questo universo (cfr. O’Connell, 2018). La soluzione di Wallach è diversa:

“Longpath ci aiuta a fare pace con la morte, perché ci dà un senso di continuità attraverso i nostri lasciti. Ci aiuta a capire che tutti noi abbiamo un impatto, che le nostre azioni e il nostro modo di essere – la nostra impronta – possono contribuire a far avanzare la linea di partenza per le generazioni future […]. La cura che mostriamo per le generazioni future è l’anello ultimo della catena; è ciò che riconcilia la morte dall’ego con quella biologica. Possiamo anche essere morti nel senso «hardware», ma il nostro «software» continua a evolversi e a migliorare con ogni generazione successiva”.

È un principio evidentemente diverso da quello lungotermista, che perora la sopravvivenza del software individuale, ispirandosi a un approccio di neodarwinismo sociale reso popolare dal concetto del “gene egoista” (Dawkins, 2018). I lungotermisti non sono interessati al futuro se non potranno esserci anche loro; e se ciò non fosse possibile, allora meglio che il mondo finisca con loro, come è evidente dai discorsi apocalittici che circolano in quegli ambienti (cfr. O’Connell, 2021). È quella che David Gilbert, nel suo libro Stumbling on Happiness citato da Wallach, chiama “illusione della fine della storia”. Ne abbiamo esempi ovunque: la gerontocrazia stessa ne è un prodotto, perché si basa sulla convinzione “che la «nostra» generazione sia la migliore di sempre”, per cui se non risolviamo noi i problemi, non lo farà nessuno: après nous, le déluge. “Fine della storia” è un modo che l’establishment usa per provare a congelare il mondo nella cornice del proprio privilegio; ma quando la storia non finisce, ecco che il Futuro Ufficiale, come Wallach chiama la narrazione dominante, inizia a scricchiolare. È a questo punto che il Longpath diventa non più solo un percorso di crescita personale, ma uno strumento di emancipazione collettiva: una volta che si comincia a riflettere sui futuri desiderabili e sul loro disallineamento con i futuri mainstream, fa capolino la consapevolezza che “ci stiamo forse conformando a un Futuro Ufficiale scritto da qualcuno che ha un interesse personale a tenerci bloccati in quella narrazione per un motivo che avvantaggia loro”. Chi sono loro? Sono quelli che vorrebbero convincerci che il passato non conta più nulla, che il futuro è un foglio bianco su cui potremo scrivere quello che vogliamo, che il presente va reinventato giorno dopo giorno: coloro, cioè, che hanno contribuito a spezzare il filo che ci lega alle generazioni passate e future, il Longpath che dobbiamo ritrovare con urgenza.


Letture
  • Stewart Brand, Il lungo presente. Tempo e responsabilità, Mattioli 1885, Genova, 2009.
  • Adele Clarke, Donna Haraway (a cura di), Making Kin. Fare parentele, non popolazioni, DeriveApprodi, Bologna, 2022.
  • Richard Dawkins, Il gene egoista, Mondadori, Milano, 2018.
  • Jennifer Gidley, Il futuro. Una breve introduzione, Italian Institute for the Future, Napoli, 2021.
  • Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, Einaudi, Torino, 2014.
  • Roman Krznaric, Come essere un buon antenato. Un antidoto al pensiero a breve termine, Edizioni Ambiente, Roma, 2023.
  • Mark O’Connell, Essere una macchina, Adelphi, Milano, 2018.
  • Mark O’Connell, Appunti da un’apocalisse, il Saggiatore, Milano, 2021.
  • Alvin Toffler, Lo choc del future, Rizzoli, Milano, 1971.
  • Alvin Toffler, La terza ondata, Sperling&Kupfer, Milano, 1987.
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